La Città Futura

il progetto rossoverde per Portogruaro
 

La cornucopia delle rinnovabili

17 maggio 2011
Pubblicato da Matteo Civiero

100% di energia pulita: it’s the economy, stupid!

Dopo aver evidenziato tutte le criticità del nucleare, vorrei confutare anche quest’altro luogo comune: se vogliamo abbandonare l’uso dei combustibili fossili, non possiamo basarci solo sulle fonti rinnovabili. Invece si può fare, si deve fare e conviene farlo: entro il 2050 tutta la domanda mondiale di energia può essere soddisfatta con fonti pulite. Sono già diversi gli studi usciti in questi ultimi anni che hanno mostrato la raggiungibilità di questo traguardo, da alcuni a torto bollato come fantascientifico.

Già nel 2007, Greenpeace insieme all’European Renewable Energy Council, nel loro Energy (R)evolution: A sustainable World Energy Outlook dimostrarono come fosse possibile dimezzare entro il 2050 le emissioni di CO2 rispetto a quelle del 1990,  per limitare l’aumento medio delle temperature terrestri a 2°C, riuscendo al tempo stesso a fornire energia a prezzi abbordabili a tutti i paesi, e a quei due miliardi di persone che non hanno accesso all’elettricitaÌ€. Secondo il rapporto, due sono gli strumenti indispensabili per costruire un sistema del genere: (1) l’efficienza energetica, con un potenziale enorme in grado di coprire tutto il fabbisogno aggiuntivo di energia da oggi in avanti; (2) le energie rinnovabili, che in quello scenario arrivavano a coprire il 35% del fabbisogno totale al 2030 e il 50% al 2050.

Nel frattempo gli studi si sono moltiplicati, le conoscenze approfondite e gli obiettivi si sono fatti più ambiziosi. L’ultimo lavoro, di recentissima pubblicazione, arriva dal WWF e si intitola The Energy Report. Un lavoro commissionato alla società di consulenza Ecofys che dipinge uno scenario energetico che porterebbe a ridurre le emissioni dell’80% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050. E’ una rivoluzione energetica che – se si investe con convinzione nei prossimi decenni – dal 2040 in poi farà anche risparmiare 4mila miliardi di euro l’anno. Anche in questo scenario, inutile dirlo, è fondamentale il ruolo dell’efficienza energetica: si prospetta una domanda di energia al 2050 inferiore del 15% a quella del 2005. Per ridurre i consumi l’azione dovrà essere decisa per tutti i settori: l’industria utilizzerà una quantità maggiore di materiali riciclati ed energeticamente efficienti, gli edifici verranno costruiti o ristrutturati in modo tale da richiedere livelli minimi di energia per il riscaldamento e il condizionamento, e le varie forme di trasporto saranno più efficienti. Per quanto possibile, si userà l’energia elettrica in luogo dei combustibili solidi e liquidi e l’elettricità sarà gestita in maniera efficiente rendendo più “intelligente” la rete elettrica.

Questa riduzione del fabbisogno elettrico – secondo lo scenario – potrà essere soddisfatto interamente da fonti rinnovabili. Contando solo sulle tecnologie già esistenti e abbandonano fonti con troppe controindicazioni come le fossili e il nucleare. Il mondo dunque non dovrà dipendere più dal carbone o dai combustibili nucleari, mentre le regole internazionali e la cooperazione limiteranno i potenziali danni ambientali derivanti dalla produzione di biofuels e dallo sviluppo dell’idroelettrico. Nel mix energetico proposto da Ecofys e WWF  protagonista sarà il solare. Entro il 2050 l’energia da sole fornirà circa metà di tutta l’elettricità, metà del riscaldamento degli edifici e il 15% del calore del settore industriale. Un obiettivo per cui – si fa notare – è sufficiente un tasso annuale di crescita medio molto inferiore a quello annuo attuale. Importante anche il ruolo dell’eolico che conterebbe per circa il 25% della domanda di elettricità entro il 2050. La geotermia fornirebbe il 4% circa dell’intera produzione elettrica nel 2050 e il 5% del fabbisogno di calore per il settore industriale. Energie rinnovabili con ricadute ambientali discutibili come l’idroelettrico e i biocarburanti nello scenario avranno un ruolo contenuto. Le biomasse verranno usate solo quando non sostituibili da altre fonti rinnovabili e il loro sviluppo dovrà comunque essere sostenibile. Dalle bioenergie nel 2050 verrà comunque il 60% dei combustibili e del calore necessari per l’industria, il 13% del fabbisogno termico degli edifici e circa il 13% dell’elettricità. 

Fornire energia sicura, accessibile e pulita nella quantità necessaria richiederà uno sforzo globale simile alla risposta alla crisi finanziaria mondiale, investimenti per circa il 2% del Pil fino ad un massimo di 3.500 miliardi di euro l’anno nel 2035 (euro al valore del 2005). Ma nel lungo termine i risparmi bilanceranno tutti i nuovi investimenti. Grazie all’energia e ai combustibili fossili risparmiati, infatti, dal 2040 in poi si potrebbe guadagnare a livello globale fino a 4mila miliardi di euro l’anno.

Solo illusioni? Toglietevi questa idea dalla testa. La Germania ha già imboccato con decisione questa strada: “La politica ecologica è la politica del futuro, anche per l’economia” ha spiegato il ministro dell’Ambiente Norbert Roettgen (“La Germania ha scelto Puntiamo su sole e ventoâ€, la Repubblica del 18 marzo 2011). I dati ufficiali parlano chiaro: l’efficienza nell’uso delle materie prime nell’economia tedesca è aumentata del 46,8% tra il 1994 e il 2009, cioè nello stesso periodo in cui il prodotto interno lordo cresceva del 18,4%. I costi del sistema economico Germania sono calati di 100 miliardi di euro. Proprio mentre, parallelamente, la percentuale di energia prodotta dal nucleare scendeva dal 27,3% del 1991 a una cifra attorno al 20%, e quella delle rinnovabili volava nello stesso arco di tempo dal 3,2 al 17%. Mentre i reattori nucleari tedeschi danno lavoro, secondo i Verdi, a circa 30mila persone, gli occupati nel comparto delle rinnovabili sono aumentati dai 277mila del 2007 ai circa 340mila attuali. Dal 2007 al 2009, gli investimenti nelle energie rinnovabili sono passati da 11,4 a 20,4 miliardi di euro. Il fatturato del comparto, export incluso, è di 21miliardi di euro, cresciuto in tre anni di quasi il 40%. Fondi pubblici e sgravi fiscali aiutano la crescita. Una produzione di energia elettrica affidata al 100% alle rinnovabili è possibile entro il 2050, dice il ministero di Roettgen, e il governo si è posto l’obiettivo di arrivare all’80%.

Il Governo di Roma sogna bidoni nucleari e confeziona pacchi sorpresa per le rinnovabili, a Berlino (e non solo) non hanno voglia di scherzare e prendono l’ecologia sul serio: it’s the economy, stupid!

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Le vignette di Lorenzo Bussi: Referendum

11 maggio 2011
Pubblicato da Lorenzo Bussi

Referendum

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Bella ciao

25 aprile 2011
Pubblicato da La Città Futura

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=55yCQOioTyY[/youtube]Cantiamo.

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Le vignette di Lorenzo Bussi: Libro e Martello

19 aprile 2011
Pubblicato da Lorenzo Bussi

Libro e Martello

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Referendum – Vota SI per dire NO – Ma informa tutti

8 aprile 2011
Pubblicato da La Città Futura

Ai referendum di domenica 12  e lunedì 13  giugno vota SI per dire NO.

1   Vota SI per dire NO AL NUCLEARE.
2   Vota SI per dire NO ALLA PRIVATIZZAZIONE DELL’ACQUA.
3   Vota SI per dire NO AL LEGITTIMO IMPEDIMENTO.

Attenzione però: il referendum passa se viene raggiunto il quorum.

Cioè devono votare il 50% +1 degli aventi diritto. E’ necessario che vadano a votare almeno 25 milioni di persone. E i referendum non saranno di certo pubblicizzati in TV. Molti cittadini non sanno nemmeno che il 12-13 giugno ci sono dei referendum. Quindi c’è il rischio che molti cittadini non vadano a votare.

Se vogliamo che i cittadini vadano a votare, ognuno di noi deve informare più persone possibile. Non ci saranno né spot né tanti dibattiti televisivi, i referendum dobbiamo pubblicizzarli noi.

Comincia a informare tutti quelli che conosci. Comincia con un copia-incolla: pubblicizza il referendum a parenti, amici, conoscenti e non conoscenti. Passaparola!

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Il periodico rossoverde per Portogruaro – n. 15, marzo 2011

7 aprile 2011
Pubblicato da La Città Futura

E’ in distribuzione il n. 15 di LCF, un numero in buona parte dedicato alla questione nucleare in vista del referendum di giugno.

L’editoriale di Patrizia Daneluzzo coglie a caldo due disastri simultanei, la guerra in Libia e la crisi delle centrali giapponesi causata dal terremoto e dallo tsunami, per dire con la consueta chiarezza per su entrambi i fronti si può fare di meglio, basta non accettarli come i minori dei mali.

In seconda pagina, Adriano Zanon cerca di ripercorrere 150 anni di storia unitaria… ma alla fine si ritrova all’inizio del gioco, come, appunto, nel gioco dell’oca.

Pagina 3, sempre dedicata a contributi esterni, ospita un messaggio dell’Associazione per la Pace: “Noi dell’Associazione per la Pace continuiamo a dire che la guerra non si deve fare e che si può evitare se si mettono in gioco tutte le capacità di pressione diplomatica. La strada che noi indichiamo non è stata ancora praticata perché i nostri governi hanno sempre scelto la guerra.â€

Pagina 4 è delle rubriche. In questo di  Mese di cattivi pensieri i voti vanno da -1 (a Stival) a 10 (a chi lavora seriamente nella scuola). In fondo, la notizia che a causa del decreto che ha segato i fondi al fotovoltaico non abbiamo più lo sponsor: lo spazio è disponibile.

Il paginone (dedicato al nucleare) ospita tre articoli e una pagina con l’elenco delle centrali a livello mondiale [a proposito nella  tabella sono GW (1 miliardo di watt), non MW (1 milione di watt) – è saltato un sottotitolo, ma il pdf è a posto].

A pagina 5, Adriano Zanon ci ricorda brevemente come gli italiani abbiano vissuto questa fonte di energia, dai pionieri ragazzi di via Panisperna degli anni Trenta ai referendum del 1987, cioè da Fermi a ‘intelligenti’. Speriamo nella prossima conferma del giudizio storico.

A pagina 6, Matteo Civiero ci spiega perché il nucleare non serve, anzi è pericoloso, insomma è un bidone. Un bidone anche pieno di scorie eterne, o quasi.

A pagina 7, sempre Matteo Civiero ci elenca invece la ricchezza potenziale, anzi attuale, delle energie rinnovabili, verso le quali non serve una spinta morale, basta quella economica!

A pagina 8, con l’elenco delle centrali mondiali, c’è una novità editoriale. Un piccolo quiz: dove si trovano le due centrali in fotografia? Non è difficile, ma bisogna indovinarle entrambe. Vince chi arriva per primo. Il vincitore sarà citato sul prossimo numero. Se poi vuol anche darci un contributo… sarà ancor più gradito!

Ricordiamo sempre che il giornale si può scaricare in formato pdf e che i principali articoli si possono leggere anche su questo sito, anche arricchiti perché c’è più spazio.

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Il bidone nucleare

Pubblicato da Matteo Civiero
Una scelta costosa, pericolosa, immorale

Il nucleare è davvero una fonte di energia conveniente ed utile nella lotta ai cambiamenti climatici? Oggi le circa 440 centrali funzionanti nel mondo coprono il 6% del fabbisogno energetico primario e il 16% di quello elettrico mondiali. I vantaggi del nucleare possono essere riassunti nella possibilità di produrre grandi quantità di energia in maniera costante, certa e senza l’emissione di gas climalteranti in fase di esercizio (non certo in fase di costruzione). Un cantiere dura mediamente dai 5 ai 7 anni e da lavoro diretto a circa 3.000 persone, che diventano 9.000 considerando l’indotto; si stima che circa il 60% dell’investimento può essere realizzato dall’industria italiana. In fase di esercizio un impianto darebbe lavoro a circa 1.300 persone, tra impiegati diretti e indotto, a cui si aggiungono 150 occupati diretti in fase di smantellamento[i]. Qualcuno sostiene anche che l’energia nucleare, abbassando il costo dell’energia, possa aumentare la competitività del sistema paese e delle sue imprese.

Che l’energia nucleare sia conveniente è un grande abbaglio. Nell’ultima valutazione del Dipartimento dell’Energia Usa (Energy Outlook 2010) sugli impianti da costruire nei prossimi due decenni, l’elettricità da nucleare risulta la più cara tra tutte le forme di energia possibili. Negli ultimi 40 anni il suo costo di realizzazione non ha fatto altro che crescere anziché diminuire, soprattutto per i costi legati alla sicurezza, esattamente il contrario di quello che succede alle fonti rinnovabili (Gianni Silvestrini, Politecnico di Milano su Qualenergia.it). Le uniche due centrali attualmente in costruzione in Europa, in Finlandia e Francia, stanno subendo continui ritardi, revisioni degli standard di sicurezza e soprattutto aumento del costo di realizzazione, che è quasi triplicato. Figuriamoci cosa potrebbe succedere in Italia.[ii]

Non esiste un paese al mondo che abbia trovato una soluzione definitiva alla gestione delle scorie. Anche gli USA, dopo aver investito circa 9 miliardi di dollari per un deposito geologico di profondità, hanno rinunciato al progetto. Oltre che immorale, una fonte energetica che produce scorie altamente tossiche per decine di migliaia di anni, lasciandole a carico delle generazioni future, è economicamente disastrosa e non si può certamente considerare pulita. Nell’Europa a 25 i rifiuti nucleari crescono ad un ritmo di 40mila metri cubi/anno, pari a 100mila tonnellate; come se fosse un edificio a base 850 metri quadri e alto 10 piani e che aumenta di un piano all’anno: una mole gigantesca che ha a disposizione solo due sedi di ritrattamento per tutta Europa, ovvero La Hague in Francia e Sellafield in Inghilterra.[iii] Quelle stesse scorie favoriscono poi la proliferazione di armamenti nucleari e possibili minacce terroristiche, con ulteriori costi per la loro messa in sicurezza. Il decomissioning, ovvero lo smantellamento, ha dei costi assurdi: dai 20 ai 40 miliardi di euro per singolo impianto, cioè dalle quattro alle otto volte il suo costo di installazione.[iv]

Il combustibile utilizzato per produrre energia, l’uranio, quando non ricavato dagli arsenali nucleari militari, è ancora più concentrato dei combustibili fossili: tre soli paesi (l’Australia, il Canada e il Kazakhstan) detengono circa il 58% delle riserve note economicamente estraibili attualmente (Wikipedia).

La sicurezza è una questione controversa. Se da una parte è vero che gli incidenti in questa industria sono più rari – ma non così rari come crediamo, se è vero che tra gli anni ’50 e gli anni ’80 si sono verificati oltre un centinaio di incidenti nucleari, venti di questi molto gravi[v] – quando accadono episodi gravi possono assumere contorni catastrofici: vaste aree di territorio compromesse e inadatte ad ospitare la vita per decine se non centinaia di anni, milioni di persone contaminate in maniera più o meno grave, diffusione delle radiazioni su scala globale (il costo totale del disastro di Cernobyl è stato stimato intorno ai 358 miliardi di euro e in circa 200 mila le persone affette.[vi] Cernobyl e Fukushima non sono incidenti dovuti a tecnologie obsolete, ma ad errori umani e difetti nei sistemi di raffreddamento a seguito di catastrofi naturali e conseguenti black-out energetici. Quanti sanno che nel 2003 in Francia alcune centrali furono fermate per la scarsità di acqua a disposizione per il loro raffreddamento, con conseguente aumento dei morti per mancanza di elettricità e quindi condizionamento in una delle estati più torride della storia delle misurazioni?

I tempi di realizzazione e il potenziale di produzione la mettono fuori gioco nella lotta ai cambiamenti climatici, che devono essere messi in campo in questo decennio: anche nei paesi con programmi nucleari ben avviati, mettere in funzione un reattore nucleare richiede tipicamente più di un decennio. Inoltre lo Scenario energetico prodotto dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) mostra che, anche se la potenza nucleare venisse quadruplicata entro il 2050, rappresenterebbe meno del 10% del consumo mondiale di energia. Questo sforzo ridurrebbe le emissioni di biossido di carbonio di meno del 4%.

Costi incerti, non quantificabili, sicuramente in crescita, a carico dello Stato e quindi dei cittadini, vantaggi economici per pochi grandi concentrazioni di potere, contributo scarso e tardivo alla lotta dei cambiamenti climatici e per la sicurezza energetica, l’energia nucleare è un grave freno alla costruzione di un sistema energetico pulito, sicuro, conveniente, distribuito e democratico. Un autentico bidone, un pacco confezionato a spese dei contribuenti che in futuro probabilmente giungerà a destinazione solamente nelle repubbliche delle banane o nelle dittature militari.


  

[i] Da Il Nucleare per l’economia, l’ambiente e lo sviluppo, The European House, Ambrosetti.
[ii] Per un approfondimento consiglio l’articolo di Edo Ronchi su Qualenergia.it.
[iii] Leonardo Maugeri, Con tutta l’energia possibile, Sperling & Kupfer, 2008).
[iv] Fulcieri Maltini, ingegnere nucleare ex CERN, su Qualenergia.it.
[v] Stefano Generali in Ti ricordi Cernobyl?, Infinito, 2006.
[vi] Greenpeace, Energia nucleare:una pericolosa perdita di tempo, in pdf sul sito.

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Da Fermi a intelligenti

3 aprile 2011
Pubblicato da Adriano Zanon

Breve storia del nucleare italiano

Quarant’anni fa, nella primavera del 1971, le classi quinte di elettrotecnica dell’ITIS “Leonardo da Vinci†di Portogruaro andarono in gita scolastica alla centrale elettronucleare di Latina, il top della tecnologia di loro interesse. In quella gita c’ero anch’io. Ricordo bene la centrale nucleare, un posto dove – a differenza di Roma, la base ludica della gita – non tornai più. E’ passato tanto tempo, ma ricordo in particolare quando, ad un certo punto, la nostra guida ci disse: «Ecco, qui siamo sopra il reattore».

Allora in Italia funzionavano tre centrali nucleari completate negli anni Sessanta: quella di Garigliano, col nome del fiume adiacente, ma insediata nel comune di Sessa Aurunca, Caserta (1964-1982), di 150 MW; quella di Latina (1964-1986), di 216 MW; quella di Trino Vercellese (1965-1987), di 270 MW. Nel 1971 anno cominciò anche la costruzione a Caorso (Piacenza, 1981-1988) di un impianto di 850 MW. Queste quattro furono le uniche centrali nucleari a produrre energia in Italia. All’inizio degli anni Ottanta, quando funzionavano tutte insieme, non raggiungevano il potenziale di 1.500 MW. Ma qual è stata la parabola dell’energia nucleare italiana? Abbozziamo una breve ricostruzione.

Negli anni Sessanta in realtà l’Italia era una piccola potenza in tema di nucleare. Era il terzo produttore mondiale. Ma era anche il posto dove c’era intatto il mito della scuola di via Panisperna a Roma, la sede dell’istituto universitario di fisica, dove un gruppo formatosi a partire dalla metà degli anni Venti sotto la spinta di Orso Mario Corbino (1876-1937) e la guida di Franco Rasetti (1901-2001) ed Emilio Fermi (1901-1954), aveva raggiunto negli anni Trenta grandiosi risultati nella ricerca sulla fisica atomica. Con il contributo di Segré, Amaldi, Majorana, Pontecorvo e del chimico D’Agostino, Fermi approdò dalla sua teoria del decadimento beta del 1933 alla produzione della radioattività artificiale dell’anno successivo, esperimenti che permisero le prime riflessioni teoriche alla base dei reattori nucleari. Con il 1935 cominciò la diaspora e alla fine del 1938, in occasione del Nobel ritirato a Stoccolma, anche Fermi (che aveva la moglie ebrea) si trasferì in America, dove sarebbe stato protagonista assieme ad altri della costruzione del primo reattore per la fissione controllata dell’uranio, a Chicago il 2 dicembre 1942.

Per la cronaca negli anni Sessanta ci fu una vicenda controversa da ricordare, quella di Felice Ippolito (1915-1997), un geologo che dal 1952 in qualità di direttore dei comitati nucleari (l’attuale ENEA) fu protagonista di tutti i progetti, a partire dalle prime centrali di Garigliano e Latina. Ippolito però non era organico al potere democristiano, come Enrico Mattei, anzi era un laico in vista, cofondatore nel 1955 del Partito Radicale. E mentre il presidente dell’ENI morì in un incidente aereo nell’ottobre del 1962, Ippolito finì sotto inchiesta nell’agosto del 1963 per dubbi sulla correttezza della gestione del comitato e finì in carcere, condannato per ben undici anni, ma graziato dopo un paio d’anni dal presidente Saragat.

Il ‘caso Ippolito’ per qualcuno fu una montatura, una farsa, per eliminare – appunto dopo Mattei – un altro pericoloso promotore dell’indipendenza energetica italiana. Erano gli anni della nazionalizzazione dell’energia elettrica e gli interessi economici intorno alla materia non erano bruscolini. Comunque Ippolito uscì di scena, andando a fondare nel 1969 Le Scienze, edizione italiana del Scientific American, eppoi facendo il deputato europeo nel PCI (1979-1989). (1)

Ma negli anni Settanta il nucleare tornò prepotentemente d’attualità. Tutto nacque dalla guerra del Kippur dell’ottobre 1973, cioè dall’attacco congiunto a Israele dell’Egitto da sud e della Siria da nord. I paesi arabi si schierarono e l’OPEC bloccò le forniture di petrolio all’Occidente. Chi ha almeno cinquant’anni ricorderà le domeniche senza automobili per strada, dove si poteva tranquillamente giocare a calcio o alla lippa (cibbè o pìndul).

Fu l’inizio di una nuova epoca nelle politiche energetiche ed allora l’ENEL ordinò subito quattro centrali da 1.000 MW, ordine ratificato da un Programma Energetico Nazionale (PEN) approvato dal CIPE a fine 1975. Il documento prevedeva un’escalation nucleare (da 7.400 MW nel 1982, fino a 62.100 nel 1990) sulla base di certezze sull’andamento dei costi di produzione. Ma dove mettere tutte le centrali? Era tutto previsto dal PEN, ma con una certa superficialità. Così, ben presto il programma ebbe qualche problema. Apparve che le previsioni dei fabbisogni elettrici erano esagerate, che non c’erano i soldi, ma apparvero anche le contestazioni.

Per prima si mosse Italia Nostra (bel nome questo) con un documento del 27 marzo 1976 firmato da molti intellettuali, primo il presidente Giorgio Bassani. Poi nel giugno 1976 si cominciò a contestare la costruzione della centrale da 2.000 MW a Montalto di Castro, in Maremma. Tra il 1976 e il 1977 le discussioni, i convegni, le manifestazioni si moltiplicarono. Il 15 marzo 1977 il ministro dell’industria Donat Cattin intimò alle regioni l’individuazione dei siti e poi dispose un nuovo PEN (il secondo), approvato dal CIPE il 3 dicembre 1977. Prevedeva di costruire subito soltanto 12-13 centrali, invece di 20, e di avviarne altre 8 dopo il 1985. Come risposta, in tutto il 1978 si susseguirono manifestazioni di protesta in tutti i territori interessati.

Il nuovo ministro dell’industria Prodi diede il via a Montalto di Castro il 19 febbraio 1979, ma il 28 marzo ci fu il grave incidente al reattore nucleare di Three Mile Island, vicino Harrisburg, in Pennsylvania. Il 19 maggio 1979 si svolse una grande marcia antinucleare a Roma, alla vigilia delle elezioni del 3 giugno.

Purtroppo lo spazio a disposizione mi impedisce di ricostruire gli anni Ottanta, quando si susseguirono i ministri dell’industria e i piani per fare almeno qualche centrale, ma ormai c’era stato il big bang dell’ambientalismo italiano. Nell’estate 1980 fu fondata l’attuale Legambiente, gli anni 1981-83 sono stati quelli della nuova grande contestazione antinucleare. Alle amministrative del 1985 si presentò in otto regioni la lista dei Verdi con simbolo un sole che ride.

Poi il 26 aprile 1986 ci fu l’incidente di Chernobyl. La mia prima figlia aveva dodici mesi e si poneva il problema del latte da utilizzare, per noi grandi quello delle verdure a foglia larga, anche se le notizie erano attentamente minimizzate. Ma tutto approdò ai tre referendum dell’8 novembre 1987, con un voto nettamente contrario al nucleare: 80,6% contro la procedura per la localizzazione, 79,7% contro i contributi agli enti locali favorevoli, 71,9% anche contro l’Enel all’estero.

Così calò il sipario sul nucleare italiano, finché nuovi teatranti l’hanno rialzato per farci godere un nuovo spettacolo. Ma gli italiani sul nucleare sono partiti da Fermi per diventare sempre più intelligenti, hanno la memoria e la capacità per decidere al meglio qualcosa del loro futuro.

_____________

(1) Questa parte per ragioni di spazio non è riportata nell’articolo stampato e qui in pdf. Tutta questa vicenda è in realtà un capitolo della storia italiana che non riguarda solo il ‘caso Ippolito’ e la questione nucleare e andrebbe trattato con la dovuta ampiezza.

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Il gioco dell’oca – Qualche pensiero sui 150 anni dell’unità d’Italia

2 aprile 2011
Pubblicato da Adriano Zanon

Il 17 marzo abbiamo festeggiato il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Abbiamo avuto una festa nazionale una tantum. A Portogruaro c’è stata una bella cerimonia in piazza e i cori verdiani in teatro. Abbiamo ascoltato anche i discorsi del presidente Napolitano in diretta tv. Però finita la festa mi resta uno strano amaro in bocca. Il fatto è che oggi non si parla di unità, piuttosto di divisione. Non è facile mettere sul tema in poche righe qualcosa di non superficiale, ma ci provo.  

C’era una volta la ‘questione meridionale’. Bisogna partire da qui. Da quando si diceva che il Mezzogiorno, dove vivono oltre 20 milioni d’italiani, aveva particolari e grossi nodi irrisolti, di natura culturale, economica e sociale. L’espressione fu usata(1) subito dopo la cosiddetta ‘guerra al brigantaggio’, che io (con Ruffolo) chiamerei  ‘guerra di repressione. Con quell’azione militare interna del governo piemontese – che durò almeno cinque anni (dal 1861 al 1866), che occupò un esercito anche di 120 mila uomini, che ebbe 23 mila morti tra i militari (più che in tutte le guerre d’indipendenza) e almeno dieci volte tanto tra i civili – si scavò il primo profondo solco tra stato e parte del territorio, tra Nord e Sud. Inoltre, nei primi decenni di unità(2) tutte le scelte di politica economica favorirono le disparità tra le parti del paese, geografiche e sociali.(3) 

Certamente dopo il 1870(4) c’è ancora qualcosa in termini di unità. La storia ci racconta il terribile ed involontario sacrificio di 700 mila italiani sulle trincee dell’Isonzo e del Piave, durante la prima guerra mondiale. Questo ci portò Trento e Trieste e lasciò in ogni comune del nostro lungo paese un monumento o un cippo con i nomi dei caduti per la patria.

Subito dopo invece, il primo dopoguerra del Novecento costò carissimo agli italiani e poi alla fine dell’avventura fascista, tra l’8 settembre 1943 ed il 25 aprile 1945, il paese fu addirittura invaso e diviso da due eserciti opposti.(5) 

Nel secondo dopoguerra il popolo italiano si diede la Repubblica, la Costituzione e la democrazia. Con questi strumenti puntò anche a colmare le differenze tra Nord e Sud, a superare l’endemica miseria e la fatale emigrazione. Così all’interno di un grande sviluppo economico capitalistico, pur incentrato al Nord, insieme alla migrazione interna ci furono gli investimenti statali al Sud, soprattutto nelle infrastrutture e nell’industria pesante.(6) 

Ma ben presto le risorse da trasferire diventarono “la base del potere di una classe politicaâ€, formando “così, nel Sud, un nuovo blocco storico, un blocco politico-burocratico, la cui funzione essenziale era la gestione dei flussi finanziari trasferiti dal Nord al Sud“ (Ruffolo). Era il potere democristiano nel quale, negli anni Ottanta, s’inserì con forza “la novità introdotta dal craxismo, la tangente diventata una normalità, un modo di essere del sistema†(Foa).(7) 

Con la corruzione elevata a modello, nei fatti era “in gioco lo stato, come autorità e come garante e promotore di libertà†e “ogni diminuzione dello stato era un servizio reso alla mafia†(Foa). E infatti, parallelo alla corruzione salì, con il debito statale (oggi al 115% del PIL), il potere delle mafie (vedi il riquadro). Così oggi  la questione meridionale “non s’identifica più nel potere della classe agraria, ma nel potere di una borghesia mafiosa†(Ruffolo). 

Anzi, oggi non c’è più una ‘questione meridionale’, c’è la ‘questione settentrionale’. C’è una parte del paese che non vuole più pagar tasse che vengano poi spese da altre parti. Questa è la questione settentrionale. Si sta lavorando in questo senso e proprio in queste settimane si sta completando l’iter parlamentare del cosiddetto ‘federalismo fiscale’, una riforma fortemente voluta dalla Lega.(8) 

La Lega Nord è un partito nato nel 1989, ha sempre avuto leader Umberto Bossi, ha avuto per anni circa 120 mila iscritti (ma adesso non si sa), ha avuto 3,1 milioni di voti (10,2%) alle elezioni europee 2009, ma alla Camera nel 1992 ne ebbe già 3,4 milioni (8,6%) e nel 1996 ben 3,8 milioni (10,1%). Ebbene, nonostante i consensi piuttosto stabili, questo partito ha acquisito progressivamente un peso politico nazionale eccezionale, sproporzionato, per merito di meccanismi elettorali e di alleanze, non certo per grandi doti politiche e morali. Comunque, io considero insopportabili sia le costanti meschinità razziste, che le ripetute minacce eversive.(9) 

Oggi dunque al Nord qualcuno vuole la divisione, mentre parte del Sud è allo sbando istituzionale e sociale. Qui infatti il “territorio è stato abbandonato a se stesso†(Ruffolo), o meglio, lasciato alla malavita organizzata e integrata col potere politico. Ma, attenzione, questa sta crescendo, com’è fisiologico, nelle dimensioni del business e sta salendo geograficamente. Oggi l’unico vero processo unitario è quello malavitoso che sale dal Sud. Separazione programmata e disgregazione gestita dalle mafie, queste sono le strategie in atto, saldamente alleate. (10) 

Siamo alla fine delle battute disponibili, forse sono stato troppo asciutto per un tale argomento, ma in sostanza possiamo dire che oggi siamo tornati al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. E chi non ha vissuto questi anni da italiano o chi guarda da turista potrebbe chiedersi incredulo, proprio come nel 1818, all’inizio del gioco, faceva il poeta più amato (Giacomo Leopardi, All’Italia, 34-3):

come cadesti o quando
da tanta altezza in così basso loco? 


   La malavita organizzata   . 

Cosa Nostra: Sicilia, 120 famiglie, 3.000 membri, struttura piramidale, giro d’affari a 30 miliardi di euro;
Camorra: Campania, 110 famiglie, 6.500 membri, ogni gang è autonoma, giro d’affari a 28, 4 miliardi (almeno 50% droga);
‘Ndrangheta: Calabria, 132 famiglie, 10.000 affiliati, famiglie biologiche e molto legate, giro d’affari a 35 miliardi nel 2004 ma 180 miliardi di euro (!) nel 2007;
Sacra corona unita: Puglia, 45 famiglie, 1.560 membri, struttura orizzontale ma con diverse società segrete, giro d’affari non pervenuto. 

(Fonte: Ruffolo) 


      Riferimenti      

Vittorio Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996.
Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009. 


         Note          

(1) Usata la prima volta nel 1873 dal deputato lombardo Antonio Billia, fu poi nobilitata da diversi autori. Ricordiamo almeno Giustino Fortunato (1848-1932), Gaetano Salvemini (1873-1957), Antonio Gramsci (1891-1937) e Guido Dorso (1892-1947). La voce ‘questione meridionale’ è ben impostata anche sull’enciclopedia web Wikipedia, dove si possono trovare tutti i link possibili.   

(2) Per me la miglior sintesi rimane quella di Gramsci sull’Avanti! del 14 marzo 1920: “Tradizione monarchicaâ€. Si può leggere: “(…) l’unità è stata compiuta. Ma quale unità? (…) Il popolo è rimasto spettatore quasi inerte, ha applaudito Garibaldi, non ha capito Cavour, aspetta dal re la soluzione del suo problema, del problema che direttamente egli sente, quello della miseria, e dell’oppressione economica e feudale. Ma il nuovo regno è sorto con un vizio di origine che lo rende incapace, nonché di risolvere, di sentire il problema del popolo, il nuovo regno è sorto dall’incontro di un interesse dinastico con un interesse di classe bottegaia (…). Poi, ordinatasi l’attività economica della borghesia settentrionale in modo organico e sistematico, anche lo sfruttamento delle altre parti d’Italia assunse forma organica e sistematica, fu la molla riposta dello sviluppo dello Stato italiano.†Ma il testo, che anticipa le riflessioni carcerarie sul Risorgimento, va letto tutto. 

(3) Il caso estremo è dato dalla tassa sull’emigrazione verso le Americhe. Questa colpiva gli emigranti meridionali, che andavano soprattutto lì, e gli introiti finanziavano l’emigrazione verso l’Europa, dove per i quattro quinti emigravano i settentrionali. 

(4) Al ‘vizio di origine’, segue il ventennio 1870-1890, “quello della maggiore sua debolezzaâ€. L’espressione è sempre di Gramsci, nelle Tesi di Lione del 1926. Dove prosegue: “La maggior debolezza dello Stato è data in questo periodo dal fatto che al di fuori di esso il Vaticano raccoglie attorno a sé un blocco reazionario e antistatale costituito dagli agrari e dalla grande massa dei contadini arretrati, controllati e diretti dai ricchi proprietari e dai preti. (…) Lo stato reagisce (…)[con] tutta una legislazione di contenuto e di scopi anticlericaliâ€. 

(5) Sembrerebbe esistere una regola nella storia italiana: ogni momento unitario – anche relativamente marginale, come l’annessione di Trento e Trieste – deve essere espiato. In realtà e a ben vedere, i processi unitari si son fatti con guerre e le guerre costano molto. Poi, le difficoltà delle casse statali ed il disagio sociale si conciliano solo in una fase di crescita economica e sociale. Altrimenti si ha il massimo del conflitto interno. Come, appunto, all’epoca del brigantaggio e della nascita del fascismo.

(6) Il ventennio 1950-1970 è l’unico periodo in cui il PIL meridionale ha recuperato su quello settentrionale. 

(7) Cito solo fonti ‘socialiste’. Qui siamo al cuore del problemi attuali e voglio essere pacato. 

(8) Ma è una riforma avviata dal centro-sinistra nel 2001 con la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione italiana e che ora sta per ricevere gli strumenti attuativi. Gli effetti propagandistici oscurano ormai questo particolare. 

(9) E’ bene ricordare che questo partito “ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovranaâ€, come recita l’art.1 dello statuto. 

(10) E’ chiaro che una cosa è federare stati o regioni separate, cioè unire, un’altra federare stati o regioni unite, cioè separare. Inoltre, è evidente che lasciare oggi l’autogestione finanziaria alle regioni del Sud italiano è come fare un esplicito accordo con le forze mafiose presenti nei diversi territori. Piuttosto palese è la situazione campana, anche dove ha amministrato il Pd (Bassolino, Jervolino). E’ inoltre un modo per introdurre sicure e gravi instabilità finanziarie in un sistema che ne ha già abbastanza per conto suo. Solo un lungo processo, programmato e progressivo, può essere preso in considerazione. Ma questo è possibile in un contesto di collaborazione tra le forze politiche principali del paese, come fu al tempo della Costituente. Queste condizioni, per ovvi motivi qui mai presi in considerazione, oggi proprio non ci sono.

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Un mese di cattivi pensieri – Marzo 2011

29 marzo 2011
Pubblicato da Ermes Drigo

Domenica 20 marzo. Portogruaro. Meno strade, più soldi per i canali. Daniele Stival, assessore regionale alla Protezione civile, dopo l’ennesima intensa precipitazione che ha mandato sott’acqua il Veneto Orientale, traccia la via dei prossimi investimenti regionali. «Basta con rotatorie e nuove strade: ora non ci sono più soldi, ma i prossimi che arriveranno dovranno essere investiti nella salvaguardia idraulica del territorio». Cosa gà dito Stival? Chi? Quel dela Lega? Si. Meno strade? Ma va in mona ciò. Non so cossa dir.  Voto – 1. 

Domenica 20 marzo. Portogruaro. Il digitale? Nelle mani di Zaia. «Basterebbe che Zaia alzasse la cornetta del telefono per reclamare come ente concorrente alla diffusione televisiva quanto ha deciso il Parlamento e anche nel Veneto Orientale le reti Rai potrebbero essere visibili con il digitale terrestre». Putroppo non ci sono più le cornette. Voto 5-. 

Lunedì 21 marzo. Jesolo. La mancanza di fondi per stampare i listini prezzi degli alberghi non è una novità. Parole di Amorino De Zotti, consigliere comunale ma anche ex presidente dell’Ambito turistico di Jesolo. «Il cambio al vertice dell’Ambito – conclude De Zotti – è stato motivato con la necessità di creare una filiera politica leghista tra tutte le istituzioni.» Ecco un esempio di filiera corta. Malissimo, voto 2.

 Lunedì 21 marzo. San Michele al Tagliamento. Rifondazione comunista si prepara alle elezioni comunali a San Michele. Il circolo ‘Dal Lemene al Tagliamento’ ha infatti inviato alla popolazione un volantino con cui comunica la volontà di partecipare alle amministrative di maggio. Mi ricorda qualcosa. Senza voto. 

Martedì 22 marzo. Portogruaro. Insegnanti e personale Ata del II Circolo hanno sottoscritto un documento con il quale prendono le distanze dalle dichiarazioni di Berlusconi sulla scuola pubblica, che inculcherebbe «principi diversi da quelli che vengono trasmessi nelle famiglie». “Ingiuste le accuse del presidente del Consiglio. La nostra categoria svolge una delicata funzione sociale a fronte di retribuzioni vergognose.†Berlusconi vuole chiude la scuola pubblica. Resistere. Voto 10 a chi ancora e nonostante tutto, continua a lavorare seriamente e con impegno nella scuola pubblica. 

Mercoledì 23 marzo. Portogruaro. Su Raidue la torre pendente di Portogruaro. È stato mandato in onda ieri il servizio sulla torre civica campanaria del Duomo di Sant’Andrea. Nel servizio è stato illustrato il progetto di consolidamento delle fondamenta, il cui costo si aggira sul milione e 400 mila euro. Soldi che il Comune ha chiesto al Ministero, alla Regione e alla Soprintendenza. Secondo voi, chi di questi tre enti tirerà fuori i soldi? Nessuno, pagherà il Comune. Male, voto 3. 

Giovedì 24 marzo. Portogruaro. Casa per anziani all’ex ospedale. Mancano i fondi: l’Asl 10 accantona il progetto di “cittadella sanitaria”. Allarme dei Centri per i diritti del malato del territorio: «Così saltano gli accordi». Sento puzza di trasferimenti di soldi a San Donà. Grazie Lega. Male, voto 4- alla Regione Veneto per le sue scelte sanitarie.

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