La Città Futura

il progetto rossoverde per Portogruaro
 

Portogruaro, la città futura

15 agosto 2022
Pubblicato da Adriano Zanon

Con piccoli ritocchi, riporto qui la seconda parte di un articolo scritto due anni fa durante la campagna elettorale per le amministrative del 2020.

 

Il tema della mobilità di Portogruaro non può essere ridotto alla buona funzionalità o efficienza delle strade e delle ferrovie di cui la città è un eccezionale nodo, ma questo fatto geografico e storico deve finalmente essere riconosciuto come l’opportunità per far vivere meglio i propri cittadini, quelli del suo territorio più prossimo e quei visitatori frequenti o occasionali, compresi i turisti.

E’ necessario mettere in cantiere un piano che non preveda il centro storico come un paio di strade come le altre nella rete viaria, ma il luogo dove la bellezza degli aspetti ambientali e delle strutture storiche, dal fiume Lemene ai portici, dal parco della Pace (veramente unico) ai molti palazzi (privati), rafforzino la funzione scolastica, ora anche universitaria, la vocazione culturale (teatrale e musicale), la tradizione commerciale di negozi, mercati e fiere, la presenza dei servizi professionali, la vocazione conviviale dei bar e dei ristoranti. Un piano chiede degli obiettivi, delle tappe, un aggiornamento costante e quando serve anche una particolare revisione. E questo tipo di piano chiede anche il massimo consenso possibile.

Serve dunque un progetto chiaro e declamato per una città esemplare di una nuova politica del consumo di suolo, del consumo di energia, dell’abbattimento delle emissioni da combustibili fossili. E finalizzato alla sicurezza e al miglioramento del territorio e del livello della vita quotidiana. In particolare, si deve al più presto:

(1) attivare la ZTL nel centro storico;
(2) realizzare una rete di piste ciclabili perfettamente integrate nella città e nel collegamento con le frazioni e i comuni limitrofi;
(3) realizzare la piccola circonvallazione, un anello, appena fuori le torri e in senso unico (dove serve);
(4) recuperare alcune aree in centro storico, inutilizzate da decenni, in uffici e luoghi utilizzabili da associazioni culturali e altre aree appena fuori le mura per eventuali parcheggi;
(5) realizzare nuovi parchi naturali in grado di permettere lo sviluppo equilibrato e non cementificato del territorio urbano esteso;
(6) dotare di alberi le strade ormai sguarnite e recuperare quelle storiche (viali Matteotti e Trieste) e piantarne altri in ogni dove.

Il Comune dev’essere protagonista, naturalmente insieme a tutte le istituzioni coinvolte, per risolvere i problemi dei grandi nodi viari e ferroviari, a partire dalla SMFR, che seppur abbandonata come progetto dovrebbe avere un ruolo decisivo nella mobilità e quindi per la vivibilità anche del nostro territorio dei prossimi decenni. Come resta fondamentale per l’intero territorio una lungimirante ma anche immediata nuova politica per l’assetto idrogeologico, l’altra faccia della gestione del suolo.

Tutto questo non è utopia, è un atto di realismo politico e amministrativo. E’ invece assurdo continuare nella direzione in atto, che si manifesta da alcuni anni con pericolose cementificazioni, con decennali obsolescenze di strutture abitative ed economiche, con danni materiali e morali alle comunità e con gravi rischi idrogeologici in gran parte del territorio.

Si può cominciare anche tardi a invertire la rotta. Meglio tardi che mai. 

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Il gioco dell’oca – Qualche pensiero sui 150 anni dell’unità d’Italia

2 aprile 2011
Pubblicato da Adriano Zanon

Il 17 marzo abbiamo festeggiato il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Abbiamo avuto una festa nazionale una tantum. A Portogruaro c’è stata una bella cerimonia in piazza e i cori verdiani in teatro. Abbiamo ascoltato anche i discorsi del presidente Napolitano in diretta tv. Però finita la festa mi resta uno strano amaro in bocca. Il fatto è che oggi non si parla di unità, piuttosto di divisione. Non è facile mettere sul tema in poche righe qualcosa di non superficiale, ma ci provo.  

C’era una volta la ‘questione meridionale’. Bisogna partire da qui. Da quando si diceva che il Mezzogiorno, dove vivono oltre 20 milioni d’italiani, aveva particolari e grossi nodi irrisolti, di natura culturale, economica e sociale. L’espressione fu usata(1) subito dopo la cosiddetta ‘guerra al brigantaggio’, che io (con Ruffolo) chiamerei  ‘guerra di repressione. Con quell’azione militare interna del governo piemontese – che durò almeno cinque anni (dal 1861 al 1866), che occupò un esercito anche di 120 mila uomini, che ebbe 23 mila morti tra i militari (più che in tutte le guerre d’indipendenza) e almeno dieci volte tanto tra i civili – si scavò il primo profondo solco tra stato e parte del territorio, tra Nord e Sud. Inoltre, nei primi decenni di unità(2) tutte le scelte di politica economica favorirono le disparità tra le parti del paese, geografiche e sociali.(3) 

Certamente dopo il 1870(4) c’è ancora qualcosa in termini di unità. La storia ci racconta il terribile ed involontario sacrificio di 700 mila italiani sulle trincee dell’Isonzo e del Piave, durante la prima guerra mondiale. Questo ci portò Trento e Trieste e lasciò in ogni comune del nostro lungo paese un monumento o un cippo con i nomi dei caduti per la patria.

Subito dopo invece, il primo dopoguerra del Novecento costò carissimo agli italiani e poi alla fine dell’avventura fascista, tra l’8 settembre 1943 ed il 25 aprile 1945, il paese fu addirittura invaso e diviso da due eserciti opposti.(5) 

Nel secondo dopoguerra il popolo italiano si diede la Repubblica, la Costituzione e la democrazia. Con questi strumenti puntò anche a colmare le differenze tra Nord e Sud, a superare l’endemica miseria e la fatale emigrazione. Così all’interno di un grande sviluppo economico capitalistico, pur incentrato al Nord, insieme alla migrazione interna ci furono gli investimenti statali al Sud, soprattutto nelle infrastrutture e nell’industria pesante.(6) 

Ma ben presto le risorse da trasferire diventarono “la base del potere di una classe politicaâ€, formando “così, nel Sud, un nuovo blocco storico, un blocco politico-burocratico, la cui funzione essenziale era la gestione dei flussi finanziari trasferiti dal Nord al Sud“ (Ruffolo). Era il potere democristiano nel quale, negli anni Ottanta, s’inserì con forza “la novità introdotta dal craxismo, la tangente diventata una normalità, un modo di essere del sistema†(Foa).(7) 

Con la corruzione elevata a modello, nei fatti era “in gioco lo stato, come autorità e come garante e promotore di libertà†e “ogni diminuzione dello stato era un servizio reso alla mafia†(Foa). E infatti, parallelo alla corruzione salì, con il debito statale (oggi al 115% del PIL), il potere delle mafie (vedi il riquadro). Così oggi  la questione meridionale “non s’identifica più nel potere della classe agraria, ma nel potere di una borghesia mafiosa†(Ruffolo). 

Anzi, oggi non c’è più una ‘questione meridionale’, c’è la ‘questione settentrionale’. C’è una parte del paese che non vuole più pagar tasse che vengano poi spese da altre parti. Questa è la questione settentrionale. Si sta lavorando in questo senso e proprio in queste settimane si sta completando l’iter parlamentare del cosiddetto ‘federalismo fiscale’, una riforma fortemente voluta dalla Lega.(8) 

La Lega Nord è un partito nato nel 1989, ha sempre avuto leader Umberto Bossi, ha avuto per anni circa 120 mila iscritti (ma adesso non si sa), ha avuto 3,1 milioni di voti (10,2%) alle elezioni europee 2009, ma alla Camera nel 1992 ne ebbe già 3,4 milioni (8,6%) e nel 1996 ben 3,8 milioni (10,1%). Ebbene, nonostante i consensi piuttosto stabili, questo partito ha acquisito progressivamente un peso politico nazionale eccezionale, sproporzionato, per merito di meccanismi elettorali e di alleanze, non certo per grandi doti politiche e morali. Comunque, io considero insopportabili sia le costanti meschinità razziste, che le ripetute minacce eversive.(9) 

Oggi dunque al Nord qualcuno vuole la divisione, mentre parte del Sud è allo sbando istituzionale e sociale. Qui infatti il “territorio è stato abbandonato a se stesso†(Ruffolo), o meglio, lasciato alla malavita organizzata e integrata col potere politico. Ma, attenzione, questa sta crescendo, com’è fisiologico, nelle dimensioni del business e sta salendo geograficamente. Oggi l’unico vero processo unitario è quello malavitoso che sale dal Sud. Separazione programmata e disgregazione gestita dalle mafie, queste sono le strategie in atto, saldamente alleate. (10) 

Siamo alla fine delle battute disponibili, forse sono stato troppo asciutto per un tale argomento, ma in sostanza possiamo dire che oggi siamo tornati al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. E chi non ha vissuto questi anni da italiano o chi guarda da turista potrebbe chiedersi incredulo, proprio come nel 1818, all’inizio del gioco, faceva il poeta più amato (Giacomo Leopardi, All’Italia, 34-3):

come cadesti o quando
da tanta altezza in così basso loco? 


   La malavita organizzata   . 

Cosa Nostra: Sicilia, 120 famiglie, 3.000 membri, struttura piramidale, giro d’affari a 30 miliardi di euro;
Camorra: Campania, 110 famiglie, 6.500 membri, ogni gang è autonoma, giro d’affari a 28, 4 miliardi (almeno 50% droga);
‘Ndrangheta: Calabria, 132 famiglie, 10.000 affiliati, famiglie biologiche e molto legate, giro d’affari a 35 miliardi nel 2004 ma 180 miliardi di euro (!) nel 2007;
Sacra corona unita: Puglia, 45 famiglie, 1.560 membri, struttura orizzontale ma con diverse società segrete, giro d’affari non pervenuto. 

(Fonte: Ruffolo) 


      Riferimenti      

Vittorio Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996.
Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009. 


         Note          

(1) Usata la prima volta nel 1873 dal deputato lombardo Antonio Billia, fu poi nobilitata da diversi autori. Ricordiamo almeno Giustino Fortunato (1848-1932), Gaetano Salvemini (1873-1957), Antonio Gramsci (1891-1937) e Guido Dorso (1892-1947). La voce ‘questione meridionale’ è ben impostata anche sull’enciclopedia web Wikipedia, dove si possono trovare tutti i link possibili.   

(2) Per me la miglior sintesi rimane quella di Gramsci sull’Avanti! del 14 marzo 1920: “Tradizione monarchicaâ€. Si può leggere: “(…) l’unità è stata compiuta. Ma quale unità? (…) Il popolo è rimasto spettatore quasi inerte, ha applaudito Garibaldi, non ha capito Cavour, aspetta dal re la soluzione del suo problema, del problema che direttamente egli sente, quello della miseria, e dell’oppressione economica e feudale. Ma il nuovo regno è sorto con un vizio di origine che lo rende incapace, nonché di risolvere, di sentire il problema del popolo, il nuovo regno è sorto dall’incontro di un interesse dinastico con un interesse di classe bottegaia (…). Poi, ordinatasi l’attività economica della borghesia settentrionale in modo organico e sistematico, anche lo sfruttamento delle altre parti d’Italia assunse forma organica e sistematica, fu la molla riposta dello sviluppo dello Stato italiano.†Ma il testo, che anticipa le riflessioni carcerarie sul Risorgimento, va letto tutto. 

(3) Il caso estremo è dato dalla tassa sull’emigrazione verso le Americhe. Questa colpiva gli emigranti meridionali, che andavano soprattutto lì, e gli introiti finanziavano l’emigrazione verso l’Europa, dove per i quattro quinti emigravano i settentrionali. 

(4) Al ‘vizio di origine’, segue il ventennio 1870-1890, “quello della maggiore sua debolezzaâ€. L’espressione è sempre di Gramsci, nelle Tesi di Lione del 1926. Dove prosegue: “La maggior debolezza dello Stato è data in questo periodo dal fatto che al di fuori di esso il Vaticano raccoglie attorno a sé un blocco reazionario e antistatale costituito dagli agrari e dalla grande massa dei contadini arretrati, controllati e diretti dai ricchi proprietari e dai preti. (…) Lo stato reagisce (…)[con] tutta una legislazione di contenuto e di scopi anticlericaliâ€. 

(5) Sembrerebbe esistere una regola nella storia italiana: ogni momento unitario – anche relativamente marginale, come l’annessione di Trento e Trieste – deve essere espiato. In realtà e a ben vedere, i processi unitari si son fatti con guerre e le guerre costano molto. Poi, le difficoltà delle casse statali ed il disagio sociale si conciliano solo in una fase di crescita economica e sociale. Altrimenti si ha il massimo del conflitto interno. Come, appunto, all’epoca del brigantaggio e della nascita del fascismo.

(6) Il ventennio 1950-1970 è l’unico periodo in cui il PIL meridionale ha recuperato su quello settentrionale. 

(7) Cito solo fonti ‘socialiste’. Qui siamo al cuore del problemi attuali e voglio essere pacato. 

(8) Ma è una riforma avviata dal centro-sinistra nel 2001 con la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione italiana e che ora sta per ricevere gli strumenti attuativi. Gli effetti propagandistici oscurano ormai questo particolare. 

(9) E’ bene ricordare che questo partito “ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovranaâ€, come recita l’art.1 dello statuto. 

(10) E’ chiaro che una cosa è federare stati o regioni separate, cioè unire, un’altra federare stati o regioni unite, cioè separare. Inoltre, è evidente che lasciare oggi l’autogestione finanziaria alle regioni del Sud italiano è come fare un esplicito accordo con le forze mafiose presenti nei diversi territori. Piuttosto palese è la situazione campana, anche dove ha amministrato il Pd (Bassolino, Jervolino). E’ inoltre un modo per introdurre sicure e gravi instabilità finanziarie in un sistema che ne ha già abbastanza per conto suo. Solo un lungo processo, programmato e progressivo, può essere preso in considerazione. Ma questo è possibile in un contesto di collaborazione tra le forze politiche principali del paese, come fu al tempo della Costituente. Queste condizioni, per ovvi motivi qui mai presi in considerazione, oggi proprio non ci sono.

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Buon compleanno, Italia!

16 marzo 2011
Pubblicato da Adriano Zanon

  Il 27 gennaio 1861
  si svolsero le prime elezioni
  per il nuovo Parlamento.       

Avevano diritto 419.938 cittadini su oltre 22 milioni di abitanti, ma i votanti furono solo 239.583, poco sopra l’uno per cento ed i voti validi furono 170.567. Si consideri che allora i dipendenti statali erano circa 70 mila. Su 443 deputati furono eletti 85 fra principi, duchi e marchesi, 28 ufficiali, 72 fra avvocati, medici ed ingegneri. Mentre il Senato rimaneva formato da designati della corona. 

Ovviamente a quei tempi non c’era da nessuna parte una grande partecipazione elettorale. Sia negli Stati Uniti, la prima grande democrazia moderna, che nel Regno Unito, che nel 1832 aveva fatto una riforma per allargare la base elettorale, si votava in base al censo. Nella penisola potevano farlo i cittadini maschi sopra i 25 anni e che pagavano un importo minimo di imposte, dalle 40 lire annue del Piemonte alle 20 della Liguria. Con metà reddito potevano votare i laureati, i notai, gli ufficiali in pensione, infine anche artigiani e commercianti e industriali che non pagavano imposte per le loro attività, ma alla fine erano pure sempre in pochi. Per inciso ricordo che il suffragio universale, esteso anche alle donne, si ebbe solo con la rivoluzione russa, nel 1918. 

Sul territorio italiano c’erano state l’anno prima diverse votazioni, anzi plebisciti. Gli abitanti degli staterelli (Parma, Modena, Toscana tra i primi) erano stati chiamati a dare il consenso all’annessione al Regno di Sardegna. Poi anche al Sud. Così il 21 ottobre 1860 si svolse la votazione per l’annessione della Sicilia al Piemonte. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti votarono 432.720 cittadini (ben il 18%), con 432.053 votarono sì e solo 667 no. Ma la mafia era già una realtà ed aiutò non poco. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambiâ€, fece dire Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) al principe Tancredi, il protagonista del suo romanzo Il Gattopardo, uscito postumo nel 1958. Bisognava saltare subito sul carro del vincitore. 

Dunque, a fine gennaio ci furono le elezioni generali, il nuovo Parlamento fu convocato per il 18 febbraio e dopo solo un mese di lavori:  

Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Da Torino, addì 17 marzo 1861 

Questa è storicamente considerata come la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia. La legge n. 4671 fu promulgata il 17 marzo 1861 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 18 marzo 1861. Questo fu dunque l’atto che viene ricordato e festeggiato il 17 marzo come anniversario dell’unità d’Italia. 

In realtà il territorio non era ancora completo. Senza la pretesa di ricordare tutte le vicende storiche, le battaglie, le guerre ed i trattati, possiamo elencare così le tappe principali. 

1815: dal Congresso di Vienna che restaura l’Europa dopo le guerre napoleoniche, il paese è diviso in sette porzioni, tra le quali c’è il Regno di Sardegna. 

1848: tra marzo e agosto si combatté la ‘prima guerra d’indipendenza’, con un buon avvio e grandi prove civili, come le giornate di Milano e Venezia,  ma la sconfitta militare finale dell’esercito sabaudo da parte degli austriaci che portò all’abdicazione di Carlo Alberto a favore di Vittorio Emanuele II, mentre i confini rimasero i precedenti.  

1861: al momento della proclamazione del Regno d’Italia, grazie alle imprese del 1959 (‘seconda guerra d’indipendenza’) e del 1860 (l’impresa garibaldina) i confini erano veramente cambiati. Al Nord si estesero alla Lombardia, esclusa Mantova, mentre al Centro rimaneva, ma ben ridotto, un po’ di stato pontificio. I grandi protagonisti furono Cavour al Nord (ma non solo) e Garibaldi al Sud. Ma mentre il secondo non trovò grande resistenza, il primo ministro piemontese dovette dare la Savoia e Nizza in cambio dell’impegno della Francia di Napoleone III nella guerra contro gli austriaci, una ferita che rimase aperta per molto tempo. (Cavour morì il 6 giugno.) 

1866: con la cosiddetta ‘terza guerra d’indipendenza’ (luglio) i confini al Nord si estesero al Veneto, ma non comprendevano ancora il Trentino, il Friuli orientale e la Venezia Giulia, insomma Trento e Trieste. Questa volta fu premiante l’alleanza con la Prussia, in conflitto con l’Austria per l’egemonia in centro Europa e decisiva fu la battaglia di Sadowa (3 luglio). 

1870: il 20 settembre i bersaglieri entrarono a Roma, fu la famosa ‘breccia di Porta Pia’. Ancora una volta decisivo fu il contesto europeo, dove Napoleone III s’imbarcò in una disastrosa guerra contro la Prussia, che determinò la fine sua e della sua protezione al Papa. 

1918: solo con la fine della prima guerra mondiale e la battaglia di Vittorio Veneto (4 novembre), Trento e Trieste vengono unite alla penisola. Sono passati 70 anni dal 1848. 

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