Solidarietà

Solidarietà è un sostantivo che deriva dalla parola francese solidarité e che ha come suo significato principale una forma di impegno etico-sociale a favore di altri. Il termine indica un atteggiamento di benevolenza e comprensione che si manifesta fino al punto di esprimersi in uno sforzo attivo e gratuito, teso a venire incontro alle esigenze e ai disagi di qualcuno che abbia bisogno di un aiuto.

Il cattolico molto spesso confonde solidarietà con carità e anche noi tutti, pensiamo di essere solidali quando diamo qualche spicciolo all’extracomunitario di turno al supermercato o quando doniamo via telefono qualche euro per qualche associazione, con questo gesto molto spesso ci laviamo la coscienza e ci sentiamo bene.

Se i nostri figli non ci chiamano almeno due volte al giorno ci preoccupiamo, poi tranquillamente andiamo ad acquistare dei prodotti, per il quale un altro figlio uguale al nostro è stato sfruttato e rischia malattie gravi per produrlo.

Un mio parente pugliese, arrivato anni fa con le caserme, si lamentava dell’arrivo degli extracomunitari. “Portano malattie, portano via lavoro”. Gli ho ricordato che quando è arrivato lui e centinaia di altre persone del sud a Portogruaro la gente li chiamava terroni e non li poteva vedere perché portavano malattie e rubavano il lavoro.

Durante gli ultimi giorni della campagna elettorale qualcuno, per uso politico, aveva fatto girare voce che erano arrivati degli extracomunitari, creando paura e sgomento.

Venerdì sono arrivati ed io sono andato nella palestra del Luzzato per vedere se c’era bisogno di qualcosa. Erano arrivato in 15, ma ne erano rimasti 5. Gli altri erano fuggiti via, messi nella palestra provinciale dal Prefetto, perché  la Giunta comunale non li ha voluti.

Cinque ragazzi giovanissimi… dicono di avere 20 anni… Sono distesi su materassi in plastica, in un ambiente molto caldo, gestiti da un operatore di una cooperativa, che sta gestendo a Eraclea 290 persone. Facce impaurite, magri, con la voglia solo di andar via in Germania. L’operatore parla arabo ed uno dei ragazzi eritrei lo parla e comunica con lui e racconta la storia di sei settimane.

“Due settimane passate in camion dall’Eritrea alla Somalia, mangiando solo quattro croissant al giorno e pagando 1600 dollari… poi arrivati in Libia… pagando 2000 dollari… rinchiusi in una capannone… (tipo la palestra dove li abbiamo messi noi) sino a quando tutti non hanno pagato… e poi il viaggio… il trasbordo su altre barche… la paura… lo sbarco… ed il sogno di un mondo migliore, in Germania.”

Un pallone, quattro tiri a canestro e un po’ di calcio. Pantaloncini corti, qualche maglietta nuova e i loro sorrisi arrivano ad illuminare i loro bei visi.

Miei figli, nostri figli, figli del sogno dei loro genitori che li vogliono lontani, seppur con atroce dolore, lontani a cercare un mondo migliore lontano dalle guerre e dagli sfruttamenti, dai regimi e dalle multinazionali, schiaviste. Nostri figli, ma sono qui, in questa palestra invivibile, schivati da tutti. Eppur i giornali hanno dato abbondanti notizie. Qui non c’è nessuna associazione famosa, nessun personaggio politico, di quelli che hanno lucrato sul loro arrivo e neanche di altri c’è la presenza. Si vede l’Assessore alla sanità che – pur essendo medico – non li visita. Qualche volontario, Lucia, Mauro, Michele, che essendo eritreo parla con loro, Silvia, Pia, Anna, io e qualche altro volonteroso.

Eppure ci definiamo solidali… Si potrebbe parlare per ore su le migliaia di extracomunitari che arrivano, sulle leggi europee e sulla loro mancanza nella gestione, sulle leggi di questa Italia che ha dimenticato tutta la sua storia, ma sono solamente cinque ragazzi giovani, nostri figli, figli di tutti noi.

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2052. Prove di sopravvivenza

    Problemi come il cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse non hanno trovato adeguata risposta a causa della lentezza dei processi decisionali e di una visione miope. Ce lo spiega Jorgen Randers

Non tutti ci saranno e allora ecco come si presenterà il mondo alla metà del secolo: con una popolazione in calo quale conseguenza dell’inurbamento, causa di infertilità, dopo il picco di 8,1 miliardi di persone raggiunto nel 2040. Con l’uso dei combustibili fossili che avrà imboccato, da un decennio, la parabola discendente in seguito alla frenata delle economie mature e all’accelerazione delle energie rinnovabili: uno sviluppo forte ma tardivo, il loro, perché avremo già accumulato + 2° C di riscaldamento terrestre col pericolo di eventi estremi auto-rinforzantesi.

Sul piano macroeconomico, la crescita della produttività scenderà a zero (fatti salvi i paesi emergenti) e questo porterà un vantaggio insperato per l’impronta ecologica che ne risulterà contenuta. Continuerà il ristagno dei consumi, dopo il massimo toccato nel 2045, anche perché la quota maggiore del Pil globale prodotto (2,2 rispetto ai livelli attuali) servirà proprio a riparare i danni provocati dai cambiamenti meteorologici e dall’ondata di disordini sociali: i conflitti, infatti, s’inaspriranno, favoriti dal clima instabile e dall’iniquità generata dalla maldistribuzione delle risorse, in un mondo sempre più caotico che da una parte non avrà risolto i problemi della fame (sebbene si potrà produrre tre volte la quantità di cibo attuale) e della povertà (anche se da 2 dollari a testa al giorno si passerà a 4 dollari nei paesi sottosviluppati), dall’altra vedrà compiere grandi passi in avanti solo a Brasile, Russia, India, Sud Africa e altre dieci grandi economie emergenti.

Questo e molto altro succederà nel 2052 se, come sostiene Jorgen Randers, continuerà a prevalere quella “short time human vision”, quella visione di breve periodo che allo stesso professore norvegerese – tra i massimi esperti di sostenibilità, questioni climatiche e strategie di scenario – pare al momento una tara ineluttabile. Al punto da averlo convinto, due anni fa – e lo dice con un certo fastidio, durante la presentazione del suo nuovo libro a Roma – a passare dai decaloghi delle cose da fare per salvarci dalla insostenibilità globale, alle “ipotesi ragionate” (guidate da modelli informatici) sul futuro prossibile. Anzi, probabile.

“Sì, perché l’uomo, trovandosi di fronte a problemi grandi ma perlopiù risolvibili, come il cambiamento climatico, non ha saputo reagire adeguatamente quando era in tempo e oggi il mondo è meno sostenibile di 40 anni fa. L’umanità si mantiene stabilmente in una condizione di sovrasfruttamento, con il doppio di emissioni annue di anidride carbonica rispetto a quella assorbita da ocenani e foreste, e si vedono già i primi chiari segnali di una graduale distruzione degli ecosistemi”.

Democrazie lente

È una sconfitta personale, ammette il sessantottenne Randers, tra i coautori nel 1972 dello storico rapporto del Mit “I limiti dello sviluppo”, con il quale il Club di Roma mise per la prima volta in discussione il mito della crescita continua. Ma è una sconfitta soprattutto per le democrazie lente, inadatte alla dimensione planetaria dei problemi, e per il capitalismo della massimizzazione dei profitti, oltre che per le istituzioni sovrannazionali che non hanno saputo imprimere una correzione di rotta globale sufficiente.

La febbre dell’umanità è più o meno quella registrata da Jorgen Randers, che era nella capitale su invito del Wwf e del Club di Roma per presentare, a distanza di 40 anni, il seguito di quella famosa ricerca del Mit, ora racchiuso nel suo nuovo volume “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni” (Edizioni Ambiente, a cura di Gianfranco Bologna, con i contributi di una quarantina di studiosi internazionali). Ci sono diverse previsioni di scenario concordanti con “2052”, ad esempio in “2030. La tempesta perfetta. Come sopravvivere alla Grande Crisi” (Rizzoli editore) di Gianluca Comin e Donato Speroni, che inclinano al peggio.

Qualche speranza in più riesce ad infonderla l’economista e statistico Enrico Giovannini, presidente dell’Istat (uno dei dieci saggi nominati da Napolitano) ricordando i benefici indiretti che avremo tutti, a partire dal 2015, dai nuovi indicatori di benessere equo e sostenibile (Bes) “che vanno oltre il Pil, un indicatore basato su falsi presupposti assunti per veri” che tanti danni ha arrecato.

“I nuovi indcatori saranno profondamente diversi – spiega Giovannini – e segneranno un cambiamento epocale: per la prima volta sotto monitoraggio non ci saranno solo i paesi in via di sviluppo, ma tutti”. Il Bes s’inquadra nel dibattito internazionale sul cosiddetto “superamento del Pil”, nella convinzione che i parametri per misurare il progresso di una società non debbano essere solo di carattere economico, ma anche sociale e ambientale, nello spirito della Conferenza di Rio.

La malattia del pianeta tuttavia è giunta a uno stadio avanzato anche secondo Giovannini come della maggioranza degli esperti che si occupano di questi temi. “Ora vi è in più il rischio che la crisi economica e politico-istituzionale che sta attraversando l’italia ce li nasconda per un po’, questi problemi, per poi ripresentarci d’improvviso il conto”. Un conto che “non solo le future generazioni, come spesso si dice, ma le attuali stanno già pagando” sostiene il presidente dell’Istat, il quale invoca “una nuova narrativa per fare passare il messaggio alla gente pur senza terrorizzarla”.

Convivere col futuro

Ma che si può dire e fare, arrivati a questo punto? “Prepararsi a vivere nel futuro probabile e insieme lavorare duro per evitarlo”, risponde Randers, abile a mescolare l’amaro al provocatorio. Il professore non rinuncia a battersi ma è costretto a riconoscere che “il problema oggi è di imparare a convivere con imminenti disastri senza perdere la speranza”. “Abbiamo già superato una serie di limiti e, in alcuni casi, vedremo il collasso locale prima del 2052, come la probabile perdita delle barriere coralline o del tonno”.

Randers se la prende soprattutto con i limiti dei modelli di governance sul pianeta. Di tutti tranne che di uno, quello cinese: “un governo forte centrale in grado di prendere decisioni a lungo termine indipendenti dalla volontà popolare, e seguite dal 97% della gente”. Non a caso la Cina sarà la superpotenza economica del futuro. Scalzerà gli Usa che sconteranno, ancor più dell’Europa (dove spicca la Germania con la sua preveggenza sulle rinnovabili), le difficoltà a gestire con efficacia le crisi. “Nemmeno l’uragano Katrina è riuscito a risvegliarne le coscienze”, denuncia Randers. Che non prevede “purtroppo”, come si augurerebbe, un’unica grande catastrofe ambientale planetaria, “la sola che spingerebbe i governi ad intraprendere azioni più incisive”.

Quarant’anni dopo “I limiti dello sviluppo”, anche Gianfranco Bologna, direttore scientifico di Wwf Italia, deve ammettere che “il deficit ecologico accumulato non è colmabile: è difficilissimo ripristinare un ecosistema”. Quel che servirebbe è “una nuova economia che mettesse al centro il capitale naturale. L’ottimismo deve passare necessariamente attraverso la voglia di cambiamento”, chiosa. E qui il cerchio si chiuderebbe, poiché si ritorna al problema di partenza: come evitare che l’interesse a breve termine tenga il mondo sotto scacco? Le resistenze sono state enormi fin qui e soltanto la miopia dei decisori, secondo Randers, può spiegarle. “Basterebbe infatti spostare il 2% del capitale economico e della forza lavoro su questi temi per risolvere il ‘climatic change’. Se ciò si fosse fatto – si irrita il prof – l’investimento ci sarebbe costato un differimento solo di pochi mesi dell’attuale ricchezza”.

Ma siccome la speranza non deve mancare mai, ci soccorre un esempio di redditività nel breve applicato a un progetto di prospettiva. Si chiama “Ocean breeze”, e a sostenerlo è Unicredit: 50 pale eoliche piantate nel mezzo del Mare del Nord dove il vento soffia forte e incessante, energia pulita che a regime sarà pari a un terzo di quella prodotta da una centrale nucleare, 400 mila famiglie tedesche già ora servite, 1.000 persone che lavorano alle torri più 5.000 nell’indotto. Per un rendimento – fa notare Paolo Fiorentino, vice direttore generale di Unicredit – tra il 7 e l’8% sul fondo capitale”. E i delfini? Protetti anche loro dall’inquinamento acustico generato dalle pale eoliche.

Chi è Randers

Jorgen Randers insegna alla BI Norwegian Business School, dove si occupa anche di questioni climatiche e di analisi di scenario. È stato vice direttore del Wwf, e fa parte della commissione per la sostenibilità di British Telecom e di Dow Chemical Company. Nel 2006 ha presieduto la commissione ministeriale che ha indicato al governo norvegese come ridurre di due terzi le emissioni di gas serra entro il 2050. <È autore di diversi testi scientifici, ed è stato coautore di “I limiti dello sviluppo” (1972) e dei successivi rapporti del Club di Roma: “Oltre i limiti dello sviluppo” (1993) e “I nuovi limiti dello sviluppo” (2006).

Fonte: consumatori con – il mensile dei soci coop

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Consumo critico

Da una parte ci sono le merci e il denaro, dall’altra c’è l’economia del dono e dello scambio. Adorno diceva che è giusto produrre per vivere, non vivere per produrre, penso ad esempio ai paese asiatici, dove interi popoli sono costretti a produrre enormi quantità a basso costo per poter sopravvivere. Quando questa contraddizione diventerà anche per loro inaccettabile, il sistema capitalistico avrà enormi contraccolpi e probabilmente si sfascerà…

Fabrizio De André

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Le nuvole

Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio

Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.

(Fabrizio De André, 1990)

FABRIZIO fa delle nuvole una metafora, in realtà sono personaggi della “nostra vita politica economica che detengono il potere con tutta la loro arroganza ed i loro cattivi esempi…”.
Sotto queste nuvole ci siamo noi… e per spazzare via questi cumuli, cirri, nembi, abbiamo bisogno di un vento impetuoso…
Piove continuamente su di noi e ci bagniamo, siamo inondati di acqua sporca, di fango… eppure non reagiamo, non produciamo quel vapore rabbioso, quel surriscaldamento sociale… che faccia scaturire un aria fresca di rinnovamento e ci rifaccia vedere il sole e le stelle…
Mi vengono i brividi quando vedo i giovani esultare, battere le mani, ridere al cospetto della nuvola più nera, più sporca che ci sovrasta…

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