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Un voto contro

5 marzo 2013
Pubblicato da Adriano Zanon

Un’analisi delle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013

Dieci giorni dopo le elezioni più incredibili della storia nazionale, ma ancora in anticipo sugli sviluppi politici, cerchiamo di leggere i dati per capire se non ci siano elementi non colti o oscurati dai commenti. Qui faremo solo un’analisi essenziale dei numeri e pochissime considerazioni politiche.

Partiamo dai titoli principali dell’esito elettorale:
1) il sensibile aumento dell’astensione;
2) la grande affermazione del M5S, primo partito alla Camera;
3) l’arretramento e la non-vittoria tecnica di PD e alleati;
4) il tonfo di PdL, nascosto dalla cosiddetta rimonta finale;
5) la débâcle della Lega (mitigata dalle regionali lombarde);
6) il fallimento della lista Monti;
7) il ritorno della sinistra in parlamento con SEL, ma non con Rivoluzione Civile.

 

(Chi non avesse voglia di leggere tutto questo minestrone può passare in fondo direttamente al capoverso “Facciamo un riassunto”.)

 

L’aumento dell’astensione. Ha votato il 75,2%, poco più di 35 su quasi 47 milioni, ma quasi 2,7 milioni in meno del 2008 (80,5%). Sono molti, sono un ulteriore partito che vota “contro”. Da notare che l’astensione è un fatto progressivo in Italia, nel 1976 votò il 94,4%, quasi il 20% in più di oggi.

L’affermazione del Movimento 5 Stelle. E’ indubbio che queste elezioni verranno ricordate come quelle dell’affermazione del movimento creato da Beppe Grillo. Non c’è memoria di un record simile in tutta Europa: una lista che alle prime elezioni nazionali ottiene il 25,6%, con 8,7 milioni di voti. Aveva infatti partecipato solo ad alcune amministrative del maggio 2012, quando conquistò il municipio di Parma (20% al primo turno e 60% al secondo) e alle regionali siciliane di fine ottobre 2012, dove ottenne quasi il 15%. Quindi una delle caratteristiche fondamentali di questo voto è l’aumento improvviso del consenso al M5S, anche se i sondaggi preelettorali a due settimane lo davano già al 18%. Il voto peraltro è geograficamente piuttosto omogeneo, con minimi in Trentino A.A. (14,6%) e Lombardia (19,6%) e massimi nelle Marche (32,1%) e Liguria (idem). Ottenuto senza strutture tradizionali sul territorio e distribuito anche dove non è arrivato Grillo col camper o col suo blog, il voto ha significati che l’intellettuale collettivo italiano ha ancora difficoltà ad accettare e capire.

Il fiasco del Partito Democratico. Atteso dai sondaggi e soprattutto dai propri dirigenti come il grande vincitore, il PD ha ottenuto alla Camera solo 8,6 milioni di voti ed il 25,4%, quando nel 2008 ne ebbe 12,1 milioni e il 32,8% (-3,4 ml, -29 %). Prima ancora della striminzita vittoria alla Camera grazie al Porcellum e all’ingovernabilitĂ  del Senato, il fallimento si misura proprio sul numero dei consensi. Un’analisi interna a questi voti permette anche di vedere come siano poco omogenei: un quarto scarso (23%) è nelle tre regioni rosse, mediamente al 36,7%; un altro quarto è in otto circoscrizioni con una media del 26,7% (minimo in Friuli al 24,7%, massimo in Marche e Liguria al 27,7%); ma nel restante 51% il dato medio è al 21,8%. In altri termini, il PD ha un consenso mediocre in oltre il 50% del paese, dove lo votano solo un elettore su cinque. Il fiasco del PD a queste elezioni però è clamoroso solo rispetto alle attese successive alle primarie di coalizione di tre mesi prima, che – soprattutto per ragioni interne – hanno chiuso, anzichĂ© aprire, la campagna elettorale, dove si è presentato come un partito senza idee e senza la volontĂ  reale di cambiare una situazione socialmente insostenibile.

La disfatta del PdL. Poco dopo lo scrutinio e ancor oggi gira la strana notizia della grande rimonta del PdL, anzi del suo boss che da solo avrebbe permesso un recupero sul PD fino a sfiorare la vittoria alla Camera. Ma le cose sono messe in tutt’altro modo. Il PdL ha avuto alla Camera 7,3 milioni di voti e il 21,6%, mentre nel 2008 ne aveva 13,6 e il 37,0%: sono 6,3 milioni in meno, il 46% del proprio elettorato. In tutte le elezioni nazionali dal 1994 il voto aggregato con quello di Alleanza Nazionale non era mai sceso sotto13,3 milioni, con la punta di 15,4 nel 2001. Anche qui non esiste un calo simile tra i precedenti nazionali ed il calo è distribuito dappertutto, anche dove il voto si mantiene sopra la media nazionale (sud e isole tra il 23 ed il 27%). L’unica vera stranezza, ma comprensibile, non è stata la cosiddetta rimonta, dovuta solo al fatto che siamo in presenza di un elettorato che in buona parte non palesa le sue intenzioni nei sondaggi, ma il fatto che oltre 7 milioni di elettori non abbiano trovato un altro forte e chiaro riferimento di destra, riversandosi solo in minima parte su Monti e quindi in buona parte su Grillo. Questa dunque è oggi un’area di grandissima volatilità elettorale e in attesa di nuovi riferimenti, di una nuova guida.

La caduta della Lega è ancor più fragorosa. Pur trovandosi all’opposizione del governo Monti, passa da 3,0 (8,2%) a 1,4 milioni (4,1%). Il calo (-54%) la ridimensiona a fenomeno locale, con il 9,6% a Nord Ovest e il 9,0% al Nord Est. Ma con il 18% tra le alpi e prealpi lombarde, il 9% nel milanese e solo il 5% in Piemonte. Nelle venezie rimangono al 12-13% Verona, Vicenza e Treviso, ma Trento e Friuli sono a 7% circa ed Emilia e Liguria appena sopra il 2%. Il voto nelle regionali lombarde (13,0%), dove la lista “Maroni Presidente” prende un altro 10,2%, ha l’effetto di resilienza previsto, confermando anche che il bacino elettorale è in osmosi con quello grillino.

Con il PdL e la Lega, va ricordato che la destra si presentava anche come “Fratelli d’Italia” (1,95%) e “La Destra – Storace” (0,65%). Insieme a liste minori questi hanno raccolto poco meno della Lega, cioè 1,2 milioni di voti (3,5%), portando l’intera coalizione al 29,2% e 9.923mila voti, a soli 125mila voti dal centro-sinistra (10.048mila). L’intera coalizione di destra comunque è passata da 17,1 a 9,9 milioni di voti, 7,1 milioni in meno (-17,1%, – 42% del precedente elettorato).

Il fallimento della coalizione Monti è netto ed è un segnale tra i più chiari di questo voto. In termini numerici la lista “Scelta Civica” potrebbe esser considerata un successo con i suoi 2.824mila voti (8,3%), se non fosse che ha cannibalizzato i suoi alleati. Infatti l’UDC (Casini) è passata da 2.050mila (5,6%) a 608mila (1,8%) e FLI (Fini) ha raccolto solo 159mila (0,46%). Così, sia il totale di 3.591mila voti (10,6%) che il bilancio netto di 1,5 milioni di voti, insieme alla caduta della destra (-7,1 milioni) e ai cedimenti del PD (-3,4 milioni), suonano come un flop della leadership personale di Monti, oltre che del governo da lui presieduto.

A sinistra, SEL avrebbe vinto, entrando in parlamento con 1.089mila voti e il 3,2%, se il PD non avesse fallito. Il voto è sempre attorno al 3%, con punte solo in Puglia (6,5%) e Basilicata (5,9%). E’ certo che SEL ha avuto pubblicità dalle primarie ma non dall’opposizione virtuale al governo Monti, peraltro mai gridata. Come risultato in sé è dunque tra i più deludenti.

Il risultato peggiore però è quello di RC – Ingroia, con soli 765mila voti e il 2,2%. Il cartello di Sinistra Arcobaleno nel 2008 aveva avuto 1.124mila voti e il 3,1%. Ma allora alleato del PD c’era anche l’IDV di Di Pietro con 1.594mila voti (4,3%), voto oggi frantumato e disperso. Con la sconfitta di Ingroia, su cui torneremo, abbiamo così visto la fine politica di Di Pietro, assieme a quella dei comunisti, dei verdi e l’aborto degli arancioni di De Magistris.

Facciamo un riassunto delle differenze dei voti (in milioni). In questa nostra analisi non abbiamo considerato alcune liste minori raccolte in “altri”.
-2,7 astensione
+8,7 M5S
-7,1 destra (-6,3 PdL, -1,6 Lega, +0,8 altri)
+1,5 Monti
-3,4 Pd
+1,1 Sel
-1,6 Idv
-0,4 sinistra
+1,2 altri

E facciamo delle ipotesi aritmetiche, molto comode ma verosimili:
1) che la destra abbia perso 1,5 milioni di voti verso l’astensione e 1,5 verso Monti: siamo a 3 milioni, ma 4 milioni vanno al M5S;
2) che il voto della piccola sinistra sia un travaso interno: ma dall’Idv si libera così quasi 1 milione di voti verso il M5S;
3) che il Pd perda mezzo milione verso l’astensione, ma circa 3 milioni verso il M5S;
4) che il M5S prenda dunque 4 milioni da destra, 3 dal Pd, uno dall’Idv e un altro (scarso) dall’astensione.

I flussi reali sono senz’altro piĂą complessi e sfumati, ma la sostanza non può essere molto diversa: il M5S ha preso metĂ  voti a destra e metĂ  a sinistra, su una linea contro gli attuali partiti e contro il governo Monti e la linea “europeista”. Come dire che questa volta ci è andata bene, perchĂ© c’erano Grillo e Casaleggio a raccogliere questo voto “contro”. Alla prossima.

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Una risposta a “Un voto contro”

  1. Adriano Zanon scrive:

    Segnalo la nota di Ilvo Diamanti su la Repubblica di oggi a commento di una ricerca di Demos.

    Emerge che gli operai votano soprattutto M5S (40,1%), poi la destra (25,8%), piuttosto che il centro-sinistra (21,7%). Situazione simile anche tra i disoccupati. Il centro-sinistra è più forte tra i pensionati (39,5%) e la destra tra le casalinghe (42,3%).

    La conclusione di Diamanti è perentoria:

    Siamo entrati in un’altra Storia. I partiti “tradizionali”, per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo. Scommettere sulla sua dis-integrazione. Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.

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