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Tutti giù per terra! Una riforma scolastica a perdere

19 ottobre 2010
Pubblicato da Lucia Steccanella

E’ vero, le tristi novità della riforma Gelmini sono note a noi insegnanti da tempo, dapprima vissute come minacciose evoluzioni del sistema scuola, che speravamo non potessero tramutarsi in reali proposte di legge, poi rese oggetto di proteste a tutto campo perché non trovassero spazio di realizzazione, oggi concretizzate in quotidiane incoerenze e mancanze che ci vedono spettatori e protagonisti insieme di una ben camuffata ma inesorabile distruzione qualitativa del sistema scolastico italiano. Essere protagonisti e spettatori di un fenomeno come questo, equivale ad esserne inevitabilmente anche vittime. Ogni giorno vado a scuola e penso che il mio dovere è fare del mio meglio perché tutto quello che a me e ai miei alunni è stato tolto non riduca il fare scuola ad una farsa e la mia passione a dovere, restando schiacciata dall’esiguità di mezzi che mi sono rimasti per far sì che tutto questo non avvenga.

Il problema ha molti aspetti e la mia riflessione si ferma su uno per me non trascurabile. Rousseau scriveva nel suo Emilio: «Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino». Credo che chiunque abbia avuto un’esperienza scolastica condivida che a scuola non si realizzino processi di istruzione, senza sottostanti  processi di educazione. I bambini, i ragazzi, non crescono da soli, ma grazie ad una relazione produttiva e costante con cose prima e persone poi. L’insegnante può indicare cosa fare e cosa non fare; cosa studiare e come comportarsi, cosa è bene e cosa no; oppure può scegliere, perché di scelta si tratta, di accompagnare chi sta crescendo, unendo le proprie parole alle sue, accompagnandolo con la curiosità e la disponibilità di capire come crea lo schema del proprio mondo cognitivo e sociale divenendo, come scrive Galimberti, ospite e compagno di un viaggio alla scoperta del nuovo. «Se vogliamo costruire la testa ai nostri giovani, dobbiamo stimolare in loro non tanto l’apprendimento quanto la ricerca, che si combina con la naturale curiosità giovanile, su cui si radica l’interesse» (tanto cercato e sperato negli studenti da parte di insegnanti e genitori).

Per anni le difficoltà di apprendimento sono state imputate a soggettive deficienze intellettive, ad impreparazione o ad insufficienti capacità comunicative dell’insegnante; poi finalmente lo studio dei processi di apprendimento ha fatto luce sul disagio e l’insicurezza che l’apprendere  il nuovo, inevitabilmente porta con sé:  il dubbio di non riuscire, le aspettative dell’insegnante, i tempi pre-costituiti, l’allontanamento dal conosciuto e la sfida del non-conosciuto: tutte producono un disagio che l’alunno deve spesso gestire da solo, utilizzando gran parte delle proprie energie psichiche, e che si risolve spesso con il rifiuto della scuola e dello studio.

Quando in una classe di scuola dell’infanzia ci sono 29 alunni, in una di scuola primaria 25, e via aumentando fino ad arrivare ai 35 nelle classi di istituti superiori, che ascolto è possibile dare, a questo disagio? Come può un’insegnante che deve gestire il proprio orario come componesse un puzzle, in tre o quattro classi, conoscere i propri alunni se non per nome e cognome? Che fine fa la relazione educativa?

D’altra parte, si dice, questa riforma doveva servire a rendere efficiente l’apparato scolastico e l’efficienza di un sistema significa che lo stesso raggiunge nel migliore dei modi lo scopo per il quale è stato creato, con il minor impiego di tempi e mezzi. Il Ministro Gelmini forse dopo una lettura affrettata della definizione, ha ridotto al minimo i mezzi e i tempi, senza preoccuparsi della stretta connessione che questi elementi hanno con le finalità dell’insegnare e dell’apprendere.

La società di oggi chiede a tutti, anche ad alunni e insegnanti di ‘fare’: fare tanto,  fare bene; non di ‘agire’, cioè compiere azioni coordinate per uno scopo: di questa società e di questa cultura è figlia la riforma della scuola del ministro Gelmini. Non fosse che a scuola oggi, si riesce a ‘fare’ ben poco.

Credo che difficilmente si sarebbe potuto fare di peggio! In un solo colpo, diminuendo drasticamente il numero degli insegnanti ed i fondi destinati alla scuola, si è resa impossibile una proficua relazione educativa, base indispensabile per l’apprendimento, e si sono ‘accatastati’ nelle classi studenti, molti dei quali non sapranno spiegare un giorno perché hanno rinunciato agli studi.

Per finire, dopo aver ridotto il ruolo dell’insegnante a mero trasmittente di nozioni, lo si è costretto a confrontarsi tutti i giorni con la frustrazione di non avere mezzi e tempo per fare neppure quello! Rousseau avrebbe di che arrabbiarsi.

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