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Lettere a Fausto: Marco Pantani

1 agosto 2009
Pubblicato da Adriano Zanon

Caro Fausto,
vorrei anch’io dire qualcosa sul tema della fortuna nel ciclismo. Ne ho fatta esperienza, a partire dai tanti incidenti avuti sia in gara che fuori gara. I primi fanno parte dell’ordine naturale per il ciclista: pensa che nel 1997 mi sono ritirato dal Giro a causa di un gatto che mi ha attraversato la strada! I secondi sono dovuti soprattutto al fatto che ormai non ci sono più strade per i ciclisti, professionisti e dilettanti. I miei incidenti in allenamento sono stati tutti scontri con automobili o camion.

Io credo che si nasca tutti quanti con un corredo di fortuna, non può essere diversamente, ma che questo non sia uguale per tutti e non si manifesti in maniera né distribuita nel tempo né con intensità costante. Credo anche che questo corredo sia un potenziale energetico, un’energia psichica, ma senza segno positivo o negativo, senza orientamento. Siamo noi che glielo diamo durante la nostra esistenza. Attraverso questa diventiamo individui, cioè noi stessi. Così mi dicevano anche quei medici che da metà 2003 hanno cercato di togliermi un po’ di dipendenze da sostanze e una depressione profonda. Per la verità uno di questi, un po’ prima, mi diceva che questa energia era la libido, una pulsione (così diceva) che trovava sfogo normalmente nel sesso ma in alcuni anche in altre cose, come l’arte, la ricerca, lo sport, quindi anche il ciclismo. Tanto più è forte questa libido tanto più uno si deve esprimere. Tanto più viene repressa questa libido tanto più possono sorgere le malattie mentali, tra cui la depressione. Insomma ci siamo capiti… Che si chiami libido o energia psichica, di quello si tratta, di un grumo che uno ha dentro dalla nascita e io credo che questo contenga anche la fortuna.

La mia passione era stare in bicicletta, nient’altro. E gareggiando ho cominciato a divertirmi. Poi ho cominciato a farlo anche vincendo. Ma la mia energia era esplosiva, non regolare e duratura. Lo scatto in montagna, staccare ripetutamente gli avversari, fino a sfibrarli, questa era la mia goduria (anche se poi qualche volta non riuscivo più ad arrivare al traguardo). Fortuna vuole che ho vinto il Giro del 1998 proprio così, torturando il povero Tonkov, grande corridore. E così mi sono trovato al Tour, dove onestamente la vicenda del doping aveva ridotto la concorrenza, praticamente avevo contro solo Jan Ullrich, il passista tedesco che aveva vinto l’anno prima.

Nel 1997 infatti Ullrich aveva preso la maglia al primo tappone dei Pirenei e l’aveva poi migliorata con le cronometro. Io però l’ho studiato e ho vinto due tappe, la seconda a L’Alpe d’Huez. Dove il crucco ha fatto l’ultimo tratto (13,8 Km) in 38’23”, non male per uno della sua stazza. Io lì feci quello che rimane il record di quella terribile salita: 37’35” – ma lì feci anche un cargo di coraggio, cominciai ad orientare la mia energia psichica, come avrebbe poi detto lo strizzacervelli. Alla fine di quel Tour arrivai terzo (a 14’03”), dietro anche a Virenque (a 9’09”).

Caro Fausto, la tappa a L’Alpe d’Huez era adattissima a me. Io la scalata l’ho fatta alla grande nel 1994 (38’00”) e la tappa l’avevo già vinta nel 1995 (38’04”), ma non dimentico che la prima volta che è stato fissato il traguardo ci sei arrivato tu, nel 1952 (per la cronaca con 45’22”), il giorno dopo vincesti al Sestrières, poi sui Pirenei, a Pau e infine sul Puy-de-Dôme. Quell’anno per te fu una cavalcata. Per me vincere all’Alpe era un onore e un dovere.

Al Tour del 1998 dunque. Non c’era L’Alpe d’Huez, ma c’era il Plateau de Beille sui Pirenei, praticamente lo stesso, con i suoi 15,8 Km di salita con pendenza media al 7,9% e massima al 10,8%. E c’erano Les Deux Alpes. Mi sono molto concentrato e le mie forze mi sono bastate. Ullrich non riuscì a recuperare nella cronometro finale, dove persi per pochi secondi. A Parigi mi sentivo un dio. Ero bello come un dio. Ero un dio.

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(Marco Pantani si gode la vittoria al Tour 1998)

Ma poi ci fu il 5 giugno 1999. A Madonna di Campiglio, ero in maglia rosa alla grande avendo già vinto quattro tappe, quando la mattina della tappa del Mortirolo, la penultima, mi fermarono. Dissero che avevo l’ematocrito al 52% contro il 50% previsto (piu la tolleranza dell’1%). Mi diedero quindici giorni di squalifica, potevo fare il Tour, ma non volli. Il mio demone mi aveva già posseduto. Passai un inverno terribile. Ero solo. Tutti mi guardavano storto: ero il dopato. Chi mi aiutò in realtà mi affossò. Ed ero il cliente ideale.

L’anno dopo, il 2000, mi rimisi in sella. Al Tour vinsi persino due tappe in montagna, la prima Armstrong me la lasciò (così lui disse), era la salita del Mont Ventoux, allora dovetti vincerne un’altra, la Briançon-Courchevel, per puntiglio. Era il 16 luglio 2000. Ti voglio lasciare la traccia dell’ultima mia vera scalata.

Ma non m’interessava più niente, tantomeno di Armstrong. Mi ritirai alla diciassettesima, nono in classifica, non volevo tornare così sugli Champs-Élysées. Feci ancora il Giro nel 2001, nel 2002, nel 2003 arrivai tredicesimo. Ma ormai, mi ripeto, non m’interessava più niente di niente. Mi facevo schifo anche a vedermi in sella. Avevo ancora tanta gente attorno, ma ero solo. Il fatto è che io non ho mai avuto un Cavanna, caro Fausto. Sì, qualche medico, un paio di strizzacervelli, ma mai uno che mi guardasse dentro e mi conoscesse veramente, come il tuo vecchio massaggiatore, pur cieco.

Adesso so tutto, purtroppo. In gara non mi hanno mai trovato fuori regola, mai. Neanche a Madonna di Campiglio. Poteva essere un errore strumentale o una manipolazione mafiosa, come si disse, legata al mondo delle scommesse. Scommettere a quel punto che perdessi il Giro doveva avere un buon ritorno. Ma – soprattutto – al Tour del 1998 c’era stato lo scandalo della Festina, con un massaggiatore corriere del doping preso con il sacco pieno. Questa squadra era anche sponsor del Tour, con i suoi cronometri del cazzo, aveva corridori come Virenque e Zulle, la tradizione fresca di Indurain. Il ciclismo doveva quindi dare l’esempio. Io ne feci le spese. Ero il capro espiatorio ideale, la vittima sacrificale sull’altare di un ciclismo pulito. Gli ultimi anni sono stati solo una passione, anzi un calvario, l’ultima montagna. Ma io non riuscìì a vincere, o a resistere. Il mio narcisismo, il mio grumo di energia che ho ricevuto in dono, aveva ormai virato nella direzione sbagliata. E con l’aiuto di qualcuno finì la mia sofferenza.

Adesso sono ancora ricordato come l’ultimo ad avere vinto Giro e Tour nello stesso anno. Tu il primo, io l’ultimo. Nel mio piccolo sono anch’io un mito. Ecco, questa è stata tutta la mia fortuna.

Ciao Fausto, fammi un sorriso dei tuoi. So che tu mi capisci.

Il tuo per sempre
Marco Pantani

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