Luca Zaia, il nuovo ecofilosofo

In seguito alle piogge di questi giorni è tornato il tormento veneto delle alluvioni, così ieri la Nuova Venezia dedicava al tema del momento le prime due pagine e il titolo: “Troppo cemento ecco perché il Veneto annega nel fango”.

Oggi lo stesso giornale riporta le parole del governatore veneto Luca Zaia (p. 7):

    «Sono uno dei fautori della tesi del saldo zero e del modello svizzero, dove le case valgono perché non se ne possono costruire di nuove. (…) credo che entro l’estate si possa arrivare al giro di boa, con una proposta di legge concreta e che il consiglio possa discutere serenamente.»

Gli risponde Giorgio Piazza, presidente della Coldiretti regionale:

    «Abbiamo costruito troppo e spesso nemmeno bene. Ma il suolo finisce, non è un bene rinnovabile: quando cambi la destinazione d’uso di una campagna quella è persa per sempre. La filosofia del saldo zero è quella giusta, Zaia mostri di passare dalle promesse ai fatti.»

Siamo d’accordo anche noi con questa impostazione filosofica e siamo contenti di aver scoperto un nuovo teorico ambientalista, Luca Zaia di Conegliano.

Una domanda a margine. Se per la Regione per legge non si potrà cementare ex novo, si potrà farlo lo stesso in un qualsiasi comune veneto? P.es. a Portogruaro?

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In attesa di giudizio, l’ultimo

Questo blog finora non si è mai riferito direttamente a Silvio Berlusconi, il personaggio pubblico più importante della cronaca politica di questi tempi. Non ho mai scritto niente per un’esigenza di libertà, per non farmi dettare i temi da questo grande manipolatore e casomai toccare solo gli aspetti più strutturali del fenomeno, cioè il blocco storico che ne prende il nome, il berlusconismo. Ma è venuto il momento in cui non si può più girare attorno al nome e alla persona.

L’occasione è la sentenza della Corte d’Appello del Tribunale di Milano che riguarda Silvio Berlusconi, come ha scritto Massimo Giannini su la Repubblica del 10 maggio:

    Al Cavaliere, per il periodo 2002 e 2003, viene contestata una frode al fisco di circa 7 milioni di euro, per l’acquisto di diritti su film e prodotti tv comprati e rivenduti, a prezzi gonfiati, tra società offshore controllate dalla stessa Mediaset. I pm De Pasquale e Spadaro avevano scoperto operazioni fraudolente per 370 milioni di dollari. All’inizio del processo Berlusconi era infatti indagato anche per appropriazione indebita e falso in bilancio. Ma le leggi ad personam hanno dato buoni frutti: due capi d’imputazione sono caduti, grazie alla prescrizione accorciata. L’entità delle cifre si è ridotta. Ma lo schema scoperto e descritto dai magistrati, nelle motivazioni della sentenza di primo grado, è chiarissimo.

    Le imputazioni descrivono un meccanismo fraudolento di evasione fiscale sistematicamente e scientificamente attuato fin dalla seconda metà degli anni ’80 nell’ambito del gruppo Fininvest, connesso al cosiddetto “giro dei diritti televisivi”… I diritti di trasmissione televisiva, provenienti dalle majors o da altri produttori e distributori, venivano acquistati da società del comparto estero e riservato di Fininvest, e quindi venivano fatte oggetto di una serie di passaggi infragruppo, o con società solo apparentemente terze, per essere poi trasferite ad una società maltese che a sua volta li cedeva, a prezzi enormemente maggiorati, alle società emittenti. Tutti questi passaggi erano privi di qualunque funzione commerciale…”. (…)

    A questo punto si può trarre qualche conclusione. Gli atti certificano, ancora una volta, che i soldi del comparto B delle società Fininvest, direttamente riconducibile a Berlusconi, servirono a foraggiare politici e magistrati fin dai tempi della Prima Repubblica. Si conferma (come scrisse Giuseppe D’Avanzo sul nostro giornale, l’ultima volta nel luglio 2011) che sulle oltre 60 società del Group B “very discreet” della Fininvest transitarono allora fondi neri per quasi mille miliardi di lire. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per la legge Mammì. I 91 miliardi, poi trasformati in Cct, erogati per la stessa ragione ad “altri politici” mai scoperti. Le risorse destinate da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma, tra i quali Vittorio Metta, per manipolare il verdetto sulla battaglia di Segrate. Gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Mondadori, Standa, Rinascente.

Si tratta dunque di un’attività criminosa in atto da metà degli anni Ottanta, quando serviva a finanziare Craxi, e che ha inquinato e corrotto la vita politica italiana fino ad oggi, quando ci troviamo in una situazione catastrofica, ma non per caso.

Personalmente non ho mai sottovalutato la struttura e la capacità del berlusconismo. A tredici giorni dalle ultime elezioni, quando nel Pd stavano già festeggiando, scrivevo che il risultato non era così scontato. Non sono così sicuro neanche sull’esito dell’attuale fase. L’unica cosa di cui sono certo è che un’attenta analisi e un accurato giudizio del fenomeno avrebbe dovuto portare ad una strategia politica, cioè un’azione di lungo periodo, assolutamente intransigente sui principi e radicale sugli obiettivi. Il tentativo di convivere col berlusconismo da parte di una forza politca antagonistica come il Pd, e delle istituzioni, come il presidente Napolitano, presuppone almeno la spartizione di privilegi e di rendite politiche ed economiche che la maggioranza assoluta dei cittadini italiani sta rifiutando ormai da anni.

Il Pd come antagonista di Berlusconi ha avuto dagli elettori, nel 2008 e nel 2013, due giudizi negativi. Il terzo, se ci arriverà in certe condizioni sarà anche l’ultimo. (E al momento appare più probabile la capacità di Berlusconi di cavarsela in Cassazione…)

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Oltre le miserie del presente

Pubblico un articolo di Guido Viale, uno dei pochi intellettuali italiani che ha il coraggio di cantare fuori dal coro. (Grassetto e spaziature sono miei.)

Sovvertire il presente

di Guido Viale

Assistiamo da decenni, impotenti, a una continua espropriazione del Parlamento, peraltro consenziente, e per suo tramite del «popolo sovrano». Le principali tappe di questo processo sono state:

1. La separazione della Banca centrale dal controllo del governo (anni ’80) per contrastare le rivendicazioni salariali, che ha dato a un organo non elettivo il potere (poi trasferito alla Bce) di decidere le politiche economiche e sociali; ma soprattutto ha fatto schizzare il debito pubblico mettendolo in mano della finanza;

2. Le molte riforme del sistema elettorale, dall’abrogazione del sistema proporzionale («una testa un voto», principio basilare della democrazia rappresentativa) al cosiddetto porcellum, che trasferisce dagli elettori alle segreterie dei partiti la scelta dei propri rappresentanti;

3. La cancellazione della volontà di 27 milioni di elettori al referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici con ben quattro leggi controfirmate da Napolitano (l’ultima anche dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le prime tre), come anni prima, con il referendum per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti;

4. L’imposizione di un «governo tecnico» con un programma (l’«Agenda Monti») imposto dalla Bce, e attraverso questa, dall’alta finanza sotto «l’incalzare» dello spread: una sudditanza che non avrà più fine, perché da allora la finanza che controlla il debito pubblico potrà imporre a qualsiasi governo le misure che vuole;

5. Il governo Letta, conclusione logica di questo processo, che azzera la volontà di tre quarti degli elettori italiani (un quarto astenuti; un quarto cinque stelle; un quarto «centro-sinistra») tutti determinati, con il voto o il non voto, a cancellare le politiche di Monti e Berlusconi);

6. Il progetto, non nuovo, di cambiare in senso presidenziale la Costituzione.

Questa progressiva espropriazione del Parlamento e degli elettori serve a creare un interlocutore unico che risponda direttamente ai cosiddetti «mercati» (cioè alla finanza, che è la forma attuale del dominio del capitale a livello globale), annullando sia i poteri dei governi nazionali e soprattutto dei comuni, dai quali dipende la gestione della vita quotidiana e della convivenza civile di ogni comunità, sia la prospettiva di cambiare la propria condizione con il conflitto.

Questa deriva, che riguarda tutta l’Europa, non porta a una ripresa (ormai prevista da ben cinque anni, per essere ogni volta rimandata all’anno prossimo); bensì al disastro della Grecia, che ormai incombe anche su Spagna, Portogallo, Cipro e Slovenia; ma già investe in pieno anche Italia, Francia e l’Olanda; e presto persino la Germania: il cui governo fa da scudo agli interessi dell’alta finanza solo per non scoprire la situazione disastrosa delle sue banche, che ne sono parte integrante.

Ma la resa dei conti si avvicina: un disastro planetario: nemmeno le economie di Cina, India e Giappone vanno più molto bene, mentre la catastrofe ambientale incombe su tutti. In Italia l’occupazione crolla; la disoccupazione dei giovani è al 40 per cento (e gli altri sono precari o hanno rinunciato a cercare un lavoro; ma questi giovani presto saranno adulti, e poi anziani, senza alcuna speranza di un lavoro, di un reddito stabile, di una casa, di una famiglia, della possibilità di mantenere dei figli, di una pensione); scuola, università e ricerca affondano; migliaia di aziende chiudono e non riapriranno più; e non ne nascono di nuove; e con esse spariscono mercati di sbocco, know-how, competenze, abitudine alla collaborazione, coesione sociale, solidarietà. Perciò anche il Governo Letta nasce già vacillante e quel processo di accentramento rischia produrre regimi ancora più duri, magari sotto la di facciata di un antieuropeismo demagogico e populista, solo per nascondere una subordinazione anche più stretta alla finanza.

Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell’alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario. Ripudiare quei vincoli richiede un programma di respiro generale che unisce a livello europeo; che può e deve contare su tutte le rivolte e le mobilitazioni contro i vincoli del debito che da tempo si moltiplicano in un numero crescente di paesi, o che prima o poi esploderanno.

Ma per opporsi all’azzeramento della sovranità popolare non basta restituire al Parlamento quei poteri che i partiti non vogliono né usare né difendere. All’accentramento dei poteri va contrapposto, in tutti i paesi d’Europa, il progetto di un loro radicale decentramento: un governo dei territori, dei servizi pubblici e delle imprese basato sulla democrazia partecipata promossa dalla componente attiva della cittadinanza in un regime di trasparenza e leggibilità dei bilanci assolute. Per recuperare e potenziare quelle funzioni delle Municipalità che i patti di stabilità stanno soffocando. Ma se è chiaro quali sono le forze che lavorano per l’esautoramento della sovranità popolare, dove sono mai «i soggetti» in grado di elaborare, perseguire e portare a compimento un programma alternativo?

Quei soggetti non ci sono. Vanno costruiti. Ma senza distogliersi dai loro obiettivi specifici, le potenzialità dei movimenti, dei comitati, delle associazioni, delle iniziative civiche – ma anche e soprattutto quelle dei milioni di cittadini che in Italia espresso con il voto la volontà di liberarsi di Monti e Berlusconi – possono trovare una convergenza nel progetto di imporre alle rispettive amministrazioni comunali – alle poche disponibili, ma soprattutto alle molte che non lo sono – quel ruolo peculiare che le politiche di accentramento stanno azzerando: far saltare il patto di stabilità interno; quello che impedisce ai Comuni di far fronte ai propri compiti istituzionali, ma soprattutto che inibisce loro la possibilità di farsi promotori di una radicale conversione ecologica imperniata su un potere diffuso nei territori. Un passo irrinunciabile per costruire un’alternativa concreta al potere della finanza a livello locale, nazionale ed europeo.

Non è vero che «non ci sono i soldi» per politiche di promozione dell’occupazione, di sostegno dei redditi, di riconversione delle imprese, di salvaguardia del welfare e dell’ambiente. Nel mondo, di denaro o titoli equivalenti ce ne è anche troppo: oltre dieci volte il valore del Pil mondiale; e anche in Italia non manca di certo. Ma è nelle mani sbagliate: di speculatori che lo usano per metter alle corde lavoratori, amministrazioni locali, piccole e medie imprese e governi. Con quella massa immane di denaro l’alta finanza – che è ormai mera speculazione: fare denaro con il denaro a spese di chi non ne ha – impone la sua volontà ovunque. Ma tutto quel denaro è “solo” virtuale: funziona finché gli stati gli riconoscono un valore; in fin dei conti non è che una gigantesca “bolla finanziaria” creata nel corso degli anni e tenuta in piedi – fin che dura – dalle scelte operate da banche centrali, governi e parlamenti asserviti alla sua potenza. Come si è creata può essere sgonfiata e ricondotta alle dimensioni necessarie ad alimentare il credito e i redditi che fanno circolare beni e servizi sui mercati.

Ma per perseguire un sovvertimento del genere occorre un programma che renda praticabile un diverso modo di organizzare il lavoro, le imprese, l’amministrazione pubblica e i consumi: il nostro “stile di vita”. Questo programma è il recupero della sovranità all’interno di ogni territorio non solo in termini politici, ma anche in campo economico: sovranità alimentare (filiera corta per le produzioni agroalimentari); energetica (fonti rinnovabili ed efficienza energetica); nella gestione delle risorse (soprattutto di ciò che oggi bistrattiamo come rifiuti); sui suoli (sottratti a speculazione edilizia e infrastrutture devastanti); monetaria (controllo partecipato di banche e monete locali); e, ovunque possibile, anche sulla produzione industriale (filiere corte con accordi diretti tra produttori e consumatori associati).
In tutti questi campi il ruolo promozionale di una municipalità democratica e partecipata è fondamentale.

Utopia? I prossimi anni non saranno la prosecuzione di quelli che abbiamo alle spalle. Siamo ormai in mezzo a sconvolgimenti radicali; e altri, anche maggiori, sono in arrivo. O li affrontiamo con uno sguardo capace di vedere oltre le miserie del presente, o ne rimarremo soffocati.

(il Manifesto, 8 maggio 2013)

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Andreotti, la storia d’Italia e noi

La scomparsa di Giulio Andreotti è stata variamente commentata dai media italiani, a me pare con tanta superficialità, con scarsa visione storica. Segnalo due eccezioni.

La prima è un’intervista su la Nuova Venezia di oggi (p. 4) allo storico Nicola Tranfaglia. Ne riporto solo un piccolo pezzo.

    Si dice: Andreotti cinico e capace di cavalcare varie stagioni politiche.
    «Vero. Durante mezzo secolo di guerra fredda in Italia si poteva fare solo tattica. La strategia era già decisa altrove.»

La seconda è un’intervista su la Repubblica di oggi (p.15) a Umberto Ambrosoli, leader del centrosinistra in regione Lombardia e figlio di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato ucciso nel 1979 dai sicari di Sindona, l’amico di Andreotti. Anche qui solo un pezzetto.

    Siamo un popolo senza memoria?
    «Peggio: siamo portati a giustificare tutto, e questo conduce all’immobilismo, all’incapacità di cambiare, anche se a parole siamo bravi a dirlo. Aggiungo: troppi segreti nella storia d’Italia? Quello che sappiamo già è così tanto che, se agissimo di conseguenza, vivremmo in modo molto diverso.»
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Cambiare agenda, subito

Ora abbiamo il governo Letta e riprendiamo il discorso, ma siamo sempre allo stesso punto… Lo dice anche Sergio Gallino (intervista a il manifesto del 3 maggio 2013).

Ma qual è allora il vero motivo di questa disoccupazione?
Le imprese non assumono perchè non c’è domanda di lavoro, e non investono perchè non si produce. Se ci fosse una domanda allora assumerebbero e farebbero investimenti. Legge o non legge, non fanno nulla perchè produrre e lasciare le merci in un magazzino non fa parte del loro codice azionario.
Per l’Ocse il decit nel 2013 salirà al 3,3% e il debito aumenterà al 134% nel 2015. è l’attestazione del fallimento dell’austerità e dei partiti che l’hanno sostenuta fino a ieri. Come spiega questo fallimento?
Ricordiamoci che l’Ocse è sin dagli anni 80 uno degli attori più efficaci nella promozione dell’economia neoliberale di cui Monti è stato un diligente interprete. Letta mi sembra un po’ più contrastivo, ma al fondo condivide l’impianto di quella che è stata definita «agenda Monti». Quella in atto con l’Ocse è al massimo di una disputa sulle modalità della sua applicazione tra soggetti che condividono gli stessi principi e la stessa ideologia. Inoltre i tre decimali in più o in meno dipendono dalle statistiche o dei metodi usati. Il vero problema è che le politiche che continueranno ad essere applicate hanno già fatto contrarre di sei punti il Pil dal 2007. Anche se le spese restassero stabili, il deficit aumenterebbe lo stesso perché il denominatore comune diventa sempre più piccolo. In questo modo ogni anno mancheranno 8 o 10 miliardi di euro. In realtà c’è anche un altro nodo.
Quale?
Il patto fiscale che Monti e la sua maggioranza hanno approvato in due ore in parlamento, come se fosse una bagatella. L’Italia ha inserito nella Costituzione la regola che le imporrà di ridurre 50 miliardi di debito ogni anno, per vent’anni consecutivi. Molti di coloro che siedono in parlamento non si rendono conto di cosa significhi. Forse non sapevano di cosa si trattava oppure hanno sottovalutato il fatto che tagli di queste proporzioni, oggi, significano una sola cosa: la condanna alla miseria.
Da tempo lei propone un «New Deal» a livello europeo, che dovrebbe far ripartire la crescita. In cosa consiste?
È una proposta avanzata anche da un’economista in fondo liberale come Krugman. I governi seriamente contrari all’austerità dovrebbero presentarsi davanti all’Unione Europea e chiedere alla Bce un prestito di 100-200 miliardi di euro, organizzando un’agenzia per l’occupazione, finanziando interventi nelle opere pubbliche e interventi di alta utilità sociale come il riassetto idrogeologico. In fondo è quello che ha fatto Obama che ha presentato un piano fiscale insieme allo stanziamento di 140 miliardi di dollari con i quali tra l’altro ha ristrutturato 35 mila scuola e ha garantito l’impiego a oltre 200 mila insegnanti.
L’attenzione va alle banche che non riescono a finanziare l’economia reale. Non le sembra irresponsabile tenere nascosto il circolo vizioso in cui siamo?
Non so più che altro dire. Ho già scritto due libri, ne sto scrivendo un terzo. Non mi resta che emigrare.
Ha già idea su dove andare?
Per il momento ho preparato la pratica. Sta qui sulla scrivania.
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“Ora tocca a noi”

E’ sempre più lontana la Resistenza, oggi sono 68 anni dalla Liberazione, ma sono sempre più vicine e attuali e necessarie le parole di chi ha dato tutto per il futuro dell’Italia, quindi anche per il nostro presente. Riporto solo la lettera di un diciottenne, Giordano Cavestro, ma collego una recente ricostruzione della sua vicenda finale.

[Fronte]
Cari compagni,
ora tocca a noi, andiamo a
raggiungere gli altri tre gloriosi camerati, caduti
per la gloria e la salvezza dell’Italia.
Voi sapete il compito che vi tocca.
Io muoio ma l’idea vivrà nel futuro,
luminosa, grande, bella. Siamo alla
fine di tutti i mali questi ultimi giorni
sono come gli ultimi giorni di vita
di un grosso mostro che vuol fare più
[Retro]
vittime che sia possibile.
Se vivrete, tocca a voi rifare questa
povera Italia che è così bella, che ha un
sole così caldo, le mamme così buone,
le ragazze così care.
La mia giovinezza è spezzata ma
sono sicuro che serviremo da esempio.
Sui nostri corpi si formerà il grande
Faro della Libertà.
Giordano Cavestro
(Parma, 4 maggio 1944)
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Il limite e la felicità

Oggi la Repubblica ha dedicato alcune pagine ai problemi del pianeta e un trafiletto di Zygmunt Bauman ne riassume il senso. Poiché non è ancora online sul sito del quotidiano lo prendo da quello del Pd (!!).

Bauman generalizza un po’ troppo sullo stile di vita, magari a livello planetario qualcuno avrebbe qualcosa da ridire, ma il senso storico del trafiletto è chiaro, non servono altri commenti (il grassetto è mio).

Siamo pagando il prezzo dell’eccesso di consumismo in cui abbiamo vissuto negli ultimi trenta-quaranta anni. Uno stile di vita non più praticabile. Non si può più vivere a credito, si deve limitare la crescita, non promuoverla; non si può più pensare di aumentare il volume di prodotti che poi andranno sprecati.
Leggete le storie di Italo Calvino, “Le città invisibili”. Mi riferisco in particolare alla città di Eolia che descrive una storia profetica. Ci stiamo comportando in modo molto simile e questo è disastroso per la nostra moralità e per la nostra salute psicologica, ma è catastrofico anche per il nostro Pianeta. E il prezzo non lo paghiamo solo noi, ma anche i nostri nipoti. Quelli che non sono ancora nati e che nasceranno già con un enorme debito sulle spalle.
Dobbiamo iniziare a pensare al futuro dell’umanità, non a come produrre e consumare di più, ma a come riorganizzare il rapporto con il consumo, ridistribuendo le risorse disponibili e facendo in modo di puntare di più sulle persone, insegnando loro altri modi per raggiungere la felicità, che non si riduce solo agli acquisti nei negozi.
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Finale di partita

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=vlLfzKNEU60[/youtube]

La svolta di Berlusconi per il Colle: “Via libera a Bersani, poi larghe intese” – così titola oggi la Repubblica. Non può non venire in mente la pièce di Samuel Beckett, Finale di partita.

Mi spiace per Bersani, ma è chiaro che tutto quello che è successo prima rende inseparabili i destini dei due protagonisti maggiori – come nella pièce per Hamm e Clov. Gli altri due, Nagg e Nell, i vecchissimi genitori di Hamm sono dentro due bidoni, impossibilitati ad agire. Anzi Nell verso la fine muore, proprio come sta facendo la nostra generazione precedente, quella che fece la Costituzione.

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La Corea è vicina

I venti di guerra che soffiano in Corea non arrivano fino in Europa, perlomeno non in Italia. Sembra un posto troppo lontano, che ce ne frega? Invece è una cosa che ci deve interessare, eccome! Non solo perché si parla di testate nucleari, con le conseguenze immaginabili, ma perché il problema non nasce solo da bizze della Corea del Nord o del suo ridicolo dittatore Kim Jong-un.

Non è una cosa facile da sintetizzare, si può leggere una buona sintesi in quest’articolo di Marco Milani su Limes online – che dedicò un quaderno speciale all’inizio del 2011, analizzando un po’ tutto e ipotizzando anche uno scenario di guerra “che in realtà si sta già svolgendo” (p. 32). Nell’articolo linkato Milani però tende a non considerare fondamentale il ruolo della Cina, centrando il problema in Corea.

Invece non è così. Un quadro più completo si può trovare in alcuni articoli tradotti da Internazionale sul numero in edicola (e non ancora online). In particolare un’opinione (p.22) di Park Han-shik, un sudcoreano, che mette in chiaro che al centro ci sono proprio i rapporti tra Cina e Usa e cito poche frasi:

    Gli Stati Uniti vogliono potenziare del 50 per cento il sistema di difesa missilistica sulla costa occidentale perché temono un attacco della Corea del Nord con missili a testata nucleare. (…) L’obiettivo deli Stati Uniti è ribadire la loro superiorità (…) .

    Dalla fine della guerra fredda il vero obiettivo di Washington è contrastare l’ascesa di Pechino. (…) Il potenziamento del sistema missilistico è una strategia per fronteggiare militarmente la Cina in estremo oriente e per salvaguardare l’espansione economica nella regione. (…)

    (…) Il rafforzamento del sistema missilistico è un segnale che la battaglia tra Washington e Pechino si concentrerà sulla penisola coreana.

Il problema dunque non nasce solo nella testa dei pazzerelli comunisti nordcoreani, anzi. E’ una questione nata 60 anni fa (guerra di Corea del 1948-53), ma destinata a farci compagnia per molto tempo. Magari l’Europa potrebbe avere qualcosa da dire. O no?

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“Le ricette del passato non funzionano più”

Chi segue la cronaca politica italiana pensando di capirci molto vede il tentativo del presidente Napolitano di uscire dallo stallo con la convergenza di Pd e Pdl, preparata dai cosiddetti dieci saggi in azione. Io credo che dopo il voto, con tutto il suo contenuto, il problema non sia solo quale governo, ma soprattutto con quale programma.

Certamente non si tratta solo di agire sulla legge elettorale e sui costi della politica, ma di iniziare finalmente un altro percorso della vita civile ed economica nazionale, partendo dal diritto fondamentale previsto dalla Costituzione, il diritto al lavoro. E sembra invece che il problema su cui ruota tutto sia lo spread, cioè il debito pubblico. In questo senso Monti sarebbe ancora lì perché è il miglior garante possibile dei cosiddetti mercati.

Ma non è così. Quello del debito non è più un problema risolvibile. E il nuovo governo, qualunque sia, dovrà affrontare questo mostro guardandolo negli occhi. E guardando negli occhi i cosiddetti partner europei, anzi dell’Eurozona.

Su questo mi pare molto chiaro Tonino Perna su il manifesto di oggi (il grassetto è mio):

    Al di là di ogni immaginazione, il governo Monti che ha perso nettamente le elezioni e la fiducia della stragrande maggioranza degli italiani, continua a restare al suo posto, anche grazie al Grillo parlante e ai dieci saggi silenti. Ma, attenzione: per uscire dal commissariamento non basta avere un nuovo governo. Bisogna avere un governo che sia capace di portare il nostro paese fuori dalla stretta della troika. Un governo che sappia fare politica ad alto livello, tessendo alleanze con gli altri paesi della Ue strozzati dal fiscal compact, negoziando a Bruxelles una ristrutturazione chiara e netta del debito pubblico.

    Questo debito è impagabile per l’Italia, la Grecia, la Spagna, Cipro, il Portogallo, la Francia e altri paesi dell’Eurozona. Il mito della ripresa, della crescita che sta arrivando, è diventato una barzelletta: ogni sei mesi mister Draghi ci spiega che è rimandata ai prossimi sei mesi o anno. È così che andiamo avanti da cinque anni. Questa situazione non è più sostenibile. Né basta pensare, come sostengono gli economisti neokeynesiani, che bisogna far ripartire la spesa pubblica per far risalire il Pil e ridurre, per questa via, il rapporto col debito. Ci vorrebbero decenni e una diversa divisione internazionale del lavoro. Sul piano economico e finanziario, il nostro ruolo, come italiani ed europei, si è drasticamente ed irreversibilmente ridotto su scala mondiale. Le ricette del passato non funzionano più.

    C’è una sola cosa che dobbiamo prendere dalla storia e dal pensiero economico: la ciclicità del debito pubblico e privato. Come diceva Adam Smith: «Una volta che i debiti sono stati accumulati fino a un certo livello, credo che non ci sia un solo esempio in cui essi siano stati regolarmente e completamente pagati».

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