Guerre di religione? E’ un problema d’interessi

Sul tema delle cosiddette guerre di religione vorrei evitare collegamenti a pensatori troppo laici ed illuministi, così riporto la voce di Georges Corm, definito un “eclettico intellettuale cristiano” dal quotidiano cattolico Avvenire che la riporta. (Le evidenziazioni sono mie.)

Medio Oriente – Chi strumentalizza le fedi
di Chiara Zappa
Dacca, Istanbul, Nizza. E ancora le vittime di Bruxelles come quelle di Tunisi, il Bataclan come il bar Pulse, a Orlando: l’attualità ci obbliga a una terribile contabilità di morte che sembra non doversi esaurire mai. La scia di terrore a matrice fondamentalista che sta insanguinando il mondo dà le vertigini e porta inevitabilmente argomenti all’interpretazione di chi, dai salotti tv ai think tank geopolitici, mette in relazione la violenza con un insanabile conflitto tra culture e religioni.
La teoria dello scontro di civiltà, esposta da Samuel Huntington nel suo saggio del 1996 e poi diffusasi con stupefacente fortuna dal mondo accademico a quello dei media, è oggi alla base di tutte le letture più accreditate delle tensioni che attraversano il presente, le quali si auto-ammantano di motivazioni confessionali e affermazioni identitarie. «Ma cascare in questa trappola significa fare proprio il gioco dei terroristi»: ne è convinto Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali (tra cui Unione Europea e Banca Mondiale), che ad analizzare le dinamiche dell’area mediterranea ha dedicato decenni di studi.
Per l’eclettico intellettuale cristiano nato ad Alessandria nel 1940, ministro libanese delle Finanze dal 1998 al 2000, docente in varie università anche europee – attualmente alla Saint Joseph University di Beirut –, a cent’anni esatti dagli accordi di Sykes-Picot che spartirono tra Francia e Regno Unito le province arabe dell’impero ottomano, gli effetti nefasti della famosa «linea nella sabbia» che gettò le basi geopolitiche dell’odierno Medio Oriente restano evidenti nel caos endemico della regione. Un’instabilità che ha ben poco a che vedere con le presunte differenze irriducibili tra civiltà, come ha sostenuto in testi come Oriente Occidente. Il mito di una frattura (Vallecchi, 2003), Il mondo arabo in conflitto (Jaca Book, 2005), o il più recente Il nuovo governo del mondo (Vita e Pensiero, 2013).
Ma è nel saggio Contro il conflitto di civiltà. Sul «ritorno del religioso» nei conflitti contemporanei del Medio Oriente, ora tradotto da Guerini e Associati (pp. 234, euro 19,50), che Corm si dedica in modo sistematico a confutare letture considerate troppo semplicistiche e “comode” di fenomeni dalla ben più profonda complessità storica, economica e politica.
Lei cita alcuni eventi della storia recente che hanno effettivamente riportato la religione sulla scena globale: perché sostiene che siamo di fronte non a un «ritorno del religioso» bensì a un «ricorso al religioso» per fini strumentali?
«Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo assistito all’emergere di Stati che pretendevano di essere portavoce di una religione: pensiamo al Pakistan, basato sull’islam, o a Israele, costituito sull’ebraismo, malgrado il fatto che i fondatori si sentissero laici. Ma anche all’Arabia Saudita, dove il sostegno degli Usa permise alla famiglia Saud in alleanza con la corrente wahhabita di creare un regno fondato sul radicalismo sunnita, la cui ricchezza dovuta al petrolio ha poi pesantemente influenzato le politiche nell’area. È la stessa logica che spiega l’addestramento da parte degli Usa di combattenti islamisti in funzione anti-sovietica in Afghanistan, che pose poi le basi di Al Qaeda: un frutto della strategia del consulente di Jimmy Carter per la sicurezza nazionale, Zbigniew Brzezinski, che puntava a strumentalizzare la religione contro il comunismo. Ecco allora il punto: in tutti questi casi, la fede viene chiamata in causa per essere messa al servizio di altri interessi».
L’analisi politica oggi si concentra però su fattori come l’identità e la cultura, più che sulle cause profane dei conflitti…
«Sebbene sia un dato di buon senso il fatto che le guerre provengano dall’ambizione umana – per l’accesso alle risorse, alle rotte strategiche, agli scambi economici internazionali – la cornice intellettuale fornita da Huntington, in sostanza una rivisitazione della vecchia tesi razzista del XIX secolo che vedeva la contrapposizione tra ariani e semiti, ha dato legittimazione a una serie di scelte geopolitiche, in primo luogo le invasioni statunitensi di Afghanistan e Iraq. In questo contesto, i princìpi del diritto internazionale sono ormai applicati in modo differente a seconda dell’identità confessionale dei diversi Stati e della loro relazione con le potenze occidentali».
Per non parlare di chi usa la fede per mobilitare le masse…
«Esatto. Con l’aggravante che, più essa viene utilizzata come legittimazione per atti di governo, interni o internazionali, meno i cittadini osano mettere in discussione tali atti. Si tratta di un metodo efficace per paralizzare lo spirito critico del popolo nei confronti del potere, in Occidente come in Medio Oriente. Dopo lo choc delle guerre mondiali nel Novecento, quando ci si scontrò drammaticamente con i limiti dei valori illuministi e marxisti, si è verificato uno spostamento verso il multiculturalismo: il concetto dell’uguaglianza di fronte alla legge è stato abbandonato a favore del “diritto ad essere diversi”, come forma avanzata di democrazia in grado di assecondare le specificità etniche o religiose dei cittadini. Questo, tuttavia, spiana la strada a molte ambiguità. Ad esempio, secondo alcuni gli immigrati non hanno il dovere di integrarsi nei contesti di accoglienza, poiché bisogna permettere loro di affermare la propria identità. Ma è un concetto pericoloso».
È ciò che lei definisce il rischio della comunitarizzazione del mondo: che cosa intende?
«La storia dimostra che, quando le differenze di ogni singola comunità vengono organizzate politicamente all’interno di una società, si va incontro a tensioni permanenti: lo osserviamo in contesti che vanno dal Belgio (con i contrasti tra fiamminghi e valloni) all’Iran (con la fossilizzazione dell’identità sciita dopo la rivoluzione del ’79) e in modo eclatante nel mio Libano, dove vige una divisione anche istituzionale tra cristiani, musulmani e gruppi diversi che fanno riferimento all’islam. Un meccanismo che, più che tutelare le diversità, alla fine sembra favorire il divide et impera. Io sostengo per esperienza che, se da una parte è sacrosanto perorare i diritti delle minoranze, per esempio quelle oggi minacciate in Medio Oriente, dall’altro la cornice di uno Stato laico è indispensabile alla democrazia».
(Avvenire, 27 luglio 2016)
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Boschi, l’indecenza intellettuale


Non sappiamo quando voteremo al referendum per la riforma costituzionale, non sappiamo neppure come, visto che è ancora in piedi l’ipotesi del cosiddetto spacchettamento, cioè la divisione in più quesiti referendari. Ma il clima è già stato ben riscaldato da alcune uscite piuttosto forti, tra queste quella del ministro Maria Elena Boschi che collega la riforma al terrorismo. La miglior risposta letta finora mi pare questa di Maurizio Viroli su Il Fatto Quotidiano di oggi. (Grassetto ed evidenziazioni sono miei.)

Boschi, l’indecenza intellettuale
di Maurizio Viroli
Con la sua ultima dichiarazione – “Abbiamo bisogno di un’Europa più forte e in grado di rispondere insieme, unita, al terrorismo internazionale, e all’instabilità. E per riuscirci abbiamo bisogno anche di un’Italia più forte verso l’Europa, più credibile: quindi di una Costituzione che ci consenta maggiore stabilità” –, la ministra Maria Elena Boschi ha passato il segno della decenza intellettuale. Intellettuale, sottolineo, perché un’affermazione siffatta prende a calci la logica e la storia.
La ministra a dire il vero ci aveva già abituati a simili capolavori quando dichiarò che la riforma garantirà “una crescita del Pil dello 0,6 per cento nei prossimi dieci anni”. Il trucco retorico (retorica da parrocchia, quella seria è un’altra cosa) è sempre il medesimo: affermare che esiste un evidente legame di causa ed effetto fra due ordini di fatti che sono del tutto indipendenti, quali appunto la riforma costituzionale e la crescita economica. Legame mai dimostrato con qualche straccio di argomento, ma proclamato con il tono dell’oracolo (o dovrei scrivere oracola?).
Stile del resto imitato anche da altri sostenitori del ‘Sì’ quando invece di ripetere con il viso sorridente che se ci sarà la riforma avremo grandi benefici, tuonano con occhi minacciosi che se non ci sarà la riforma si abbatteranno sulla povera Italia flagelli e cataclismi a petto dei quali le piaghe d’Egitto sembreranno modesti inconvenienti. Esempi di questa retorica, anch’essa da parrocchia, sono il presidente del Consiglio: con la vittoria del No “l’Italia diventa ingovernabile e in Europa non ci fila più nessuno”; il presidente emerito Giorgio Napolitano: “Il No comporterebbe la paralisi definitiva, la sepoltura dell’idea di revisione della Costituzione” (perché? Non ci sarà più un Parlamento?) e il direttore del Centro Studi della Confindustria che spiega che nel caso di una vittoria del No ci sarà una perdita di 589 euro di Pil pro capite e di 577.000 unità di lavoro per il 2019, caos politico, aumento dello spread, fuga di capitali, crollo della fiducia e, ovviamente, svalutazione.
Ma, osservavo, l’ultima dichiarazione sul legame che stringe nuova Costituzione e lotta al terrorismo internazionale supera per indecenza intellettuale tutti i precedenti spropositi. In primo luogo la stabilità del governo italiano non c’entra assolutamente nulla con la capacità dell’Europa di combattere unita il terrorismo. Con la nuova Costituzione, come con qualsiasi Costituzione, potrebbe andare al governo un partito o una coalizione del tutto inetta a combattere il terrorismo e recalcitrante a contribuire a un comune sforzo europeo. Alla ministra qualcuno dovrebbe ricordare che con la nostra Costituzione la Repubblica ha saputo vincere una lotta mortale contro il terrorismo delle Brigate Rosse e del neofascismo, un terrorismo almeno altrettanto pericoloso di quello dei fondamentalisti islamici. Lo sa la ministra che con la nostra Costituzione venne votata in poche ore la fiducia al governo (Andreotti IV) il giorno stesso del rapimento Moro, e vennero poi approvate da Camera e Senato leggi eccezionali per la lotta al terrorismo? Qualcuno le ha detto che se il terrorismo è stato sconfitto è stato soprattutto grazie alla forte unità morale e politica che in quegli anni tremendi si formò attorno alla Costituzione, mentre la nuova Costituzione, approvata sempre a stretta maggioranza, non avrà mai la medesima capacità di unire gli italiani? E qualcuno si è posto il problema che con la Costituzione Boschi-Renzi-Verdini per deliberare lo stato di guerra basterà la maggioranza assoluta della Camera, e quindi sarà più facile per un governo, dopo un devastante attentato, dichiarare una guerra insensata contro il terrorismo e ripetere gli errori dell’America di Bush di cui ancora paghiamo le conseguenze?
Non ho letto tutti gli argomenti di tutti i sostenitori del No, ma quelli che conosco hanno ben altra probità intellettuale. Nessuno, che io sappia, ha sostenuto che se la riforma sarà respinta avremo benessere economico, massima occupazione, rinnovata credibilità internazionale, e sgomineremo l’Isis. Nessuno ha disegnato scenari di catastrofe politica e sociale nel caso di vittoria del Sì. Ci siamo limitati a mettere in evidenza le conseguenze dimostrabili della riforma sul sistema istituzionale della Repubblica.
Adesso capisco perché la ministra Boschi non vuole accogliere l’invito a un pubblico dibattito (rivoltole più volte da Marco Travaglio, e, da ultimo, dal presidente di Giustizia e Libertà Nadia Urbinati). In un confronto serio farebbe una figuraccia. Ma il bello deve ancora venire. Scommetto che la prossima dichiarazione sarà: “Basta un Sì e perderai dieci chili in due giorni, ti ricresceranno i capelli e vincerai alla lotteria”. Quella degli imbecilli.
(Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2016)

 

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Brexit? Un bene per l’Europa

Sulla Brexit non ho letto molti articoli originali ed intelligenti, cioè che guardano ben dentro il processo in corso sì, ma da anni. Questo di Marco d’Eramo merita una buona attenzione ed è stato scritto prima del referendum. (La lettura con grassetto ed evidenziazioni è mia.)
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Un europeismo pragmatico dovrebbe esultare per una vittoria della Brexit. Da quando è dentro l’Unione, infatti, il Regno Unito non ha fatto altro che remare contro ogni possibilità di ridare slancio al ‘sogno europeo’, che ha bisogno di una sovranità popolare europea. Esattamente ciò che Londra ha impedito finora. In questo testo, scritto prima del referendum, si spiega perché la Brexit potrebbe fare bene all’Unione europea.

MicroMega 4/2016
Una brexit per il bene dell’Europa
di Marco d’Eramo

«La porta è aperta», viene da suggerire ai britannici il 23 giugno, il giorno del loro referendum per disdire l’adesione all’Unione europea. Da mesi tutti a chiedersi se la cosiddetta Brexit («British exit») è bene o male per il Regno Unito. Ma nessuno si pone la domanda vera: se è bene o male per l’Europa.

La risposta può essere una sola: «È un bene». È una risposta che circola ormai da mesi tra gli economisti, come per esempio Paul de Grawe, della London School of Economics 1. E il nostro augurio di separazione consensuale è tanto più sentito quanto più lo stato attuale dell’Unione è catatonico, in rotta accelerata verso l’implosione. È evidente a tutti che senza iniziative drastiche, l’Europa come progetto politico ha, se non i mesi, di certo gli anni contati. Nessuno dei problemi che l’affliggono è stato risolto. Non la crisi dell’euro, le cui cause strutturali non sono state mai affrontate, e che rischia periodicamente di riesplodere sotto forma di offensiva dei mercati contro i debiti sovrani. Non la soggiacente disparità dei regimi fiscali dei vari paesi, né gli sbilanciamenti commerciali e delle bilance dei pagamenti, né la disomogeneità delle politiche economiche. Non certo la questione delle frontiere, e quindi dei rifugiati/immigrati (la distinzione tra le due categorie essendo capziosa e farisaica, dovendo distinguere tra chi fugge dalla morte per armi da fuoco e chi dalla morte per inedia). Soprattutto, non sembra importare a nessuno la totale assenza di legittimità democratica degli organi realmente decisionali dell’Europa: chi può mai sfiduciare la trojka?

È in quest’orizzonte di disgregazione che viene a cadere il referendum sulla Brexit.

La domanda seria che ci si dovrebbe porre è quindi: può la permanenza inglese aiutare a risolvere questi problemi? Può Londra facilitare i radicali cambiamenti cui l’Ue deve inevitabilmente sottoporsi se non vuole ridursi a pura area di libero scambio, a mero «mercato comune», un Nafta europeo?

La risposta è un «No» senza sfumature. Come ha scritto Cyrus Sanati su Fortune, «è difficile costruire una squadra forte quando uno dei suoi membri crede di poter scegliere e decidere a ogni momento quel che vuole fare» 2.

Va ricordato che fin dall’inizio – se è lecita una metafora coniugale – quello tra Regno Unito e Comunità (poi Unione) europea è stato un sodalizio d’interesse, mai una storia d’amore. Un menage in cui uno dei due partner accetta di continuare a convivere solo a patto di deroghe sempre più ampie, esigendo che gli venga riconosciuto il diritto di tirarsi fuori da qualunque attività comune, il diritto di «ritagliarsi i propri spazi», come dicono i consulenti matrimoniali. E francamente, oltre a essere umilianti, queste relazioni asimmetriche finiscono sempre in un divorzio, più spesso acrimonioso.
Il fatto è che fin dalla sua adesione, Londra ha adottato una concezione di «Europa alla carta», in cui scegliere il piatto che piace e rifiutare le voci sgradite del menu. In gergo si dice che il Regno Unito si è arrogato il diritto permanente di opting out. E continua a riaffermarlo: quando l’ormai ex sindaco di Londra, Boris Johnson, annunciò che avrebbe appoggiato la Brexit, il 22 febbraio di quest’anno David Cameron affermò davanti alla Camera dei Comuni: «Il nostro messaggio a tutti è che noi vogliamo un Regno Unito che abbia il meglio dei due mondi: tutti i vantaggi di posti lavoro e investimenti che derivano dall’essere nell’Unione europea, senza gli svantaggi di essere nell’euro e delle frontiere aperte». E ribadì: «Il Regno Unito resterà fuori da tutto ciò che in Europa non funziona per noi – noi saremo legalmente protetti dal far parte di un’unione più stretta».
Il Regno Unito aderì all’allora Comunità economica europea il primo gennaio 1973. Ma già nel 1979 rifiutò di entrare nel Sistema monetario europeo. Nello stesso anno Margaret Thatcher iniziò la sua battaglia per «lo sconto inglese» (British rebate), per ottenere cioè sia la restituzione dei due terzi (66 per cento) del contributo britannico al bilancio europeo, sia l’esenzione dall’iva di una serie di articoli (nel Regno Unito sono esenti da iva molti beni tra cui libri, cibi, bevande – tranne gli alcolici – come non è obbligato ad aprire una partita iva chiunque fatturi meno di 83 mila sterline annue): la battaglia fu vinta cinque anni dopo, nel 1984. Il risultato è che oggi il contributo netto della Francia al bilancio dell’Ue è quasi il doppio di quello inglese (6,4 miliardi di euro contro 3,8; anche il contributo netto italiano, di 6,1 miliardi di euro, è nettamente superiore a quello britannico) 3.
La tradizione del tirarsi fuori è stata consolidata nel 1992 dall’uscita di Londra (quella volta insieme all’Italia) dal meccanismo di cambio europeo (European Exchange Rate Mechanism) in cui era entrata appena due anni prima. E ha trovato il suo esito naturale nel rifiuto di aderire all’euro nel 2002.
Ogni volta la ragione invocata per queste deroghe economiche era che sottostare alle norme comuni avrebbe minato lo status privilegiato della City di Londra, intaccando l’«eccezionalismo» finanziario britannico. La volontà di non danneggiare la piazza finanziaria ha spinto il premier David Cameron a non aderire nel 2012 al patto di stabilità economica, il cosiddetto fiscal compact (l’unico altro paese dell’Ue a chiamarsi fuori fu la Repubblica ceca). Qui non è in discussione se il Regno Unito abbia fatto bene a prendere queste decisioni (restare fuori dall’euro e dal fiscal compact si è rivelata una scelta di lungimirante saggezza), ma si vuole sottolineare la costanza di un atteggiamento che per più di trent’anni ha persistito nel chiamarsi fuori.
Non solo, ma l’aventinismo britannico è stato più deleterio soprattutto nei campi non strettamente economici o finanziari. Così negli anni Novanta del secolo scorso il Regno Unito si è tirato fuori non solo dall’accordo Schengen, ma da qualunque collaborazione sul problema di immigrati e rifugiati. Tanto che la marea umana continua a incagliarsi a Calais, al di qua della Manica (che sulla sponda isolana è chiamata Canale britannico), dove invano qualche disperato cerca d’infilarsi nel tunnel ferroviario sottomarino. E mentre tutti si scandalizzano di fronte ai respingimenti ungheresi o macedoni o austriaci, nessuno spreca il fiato sulla totale impermeabilità inglese.
Ma vi sono questioni ancora più di principio su cui Londra ha esercitato l’opt out. La prima è la Carta europea dei diritti fondamentali approvata dal parlamento europeo nel 2001, ma che non ha avuto un vero status legale fino all’approvazione del Trattato di Lisbona nel 2009. Nel 2000 il Regno Unito rifiutò di ratificare questa Carta con l’argomento che avrebbe danneggiato il mondo degli affari perché avrebbe consentito a cittadini inglesi di procedere legalmente contro aziende e società presso le Corti europee (soprattutto in tema di licenziamenti). Così nel 2009 Londra accettò di ratificare il trattato di Lisbona, ma solo a condizione che la Carta dei diritti non alterasse la giurisprudenza inglese, e quest’esenzione fu estesa alla Polonia e poi alla Repubblica ceca che temeva che cittadini tedeschi potessero reclamare beni e terreni confiscati dopo la seconda guerra mondiale 4.

Perciò la prima ragione per cui un’uscita del Regno Unito sarebbe vantaggiosa per l’Europa è che farebbe cadere un precedente cui si appigliano, come si è appena visto, altri paesi: se Londra restasse in Europa continuando a rivendicare la sua «eccezionalità», molti altri Stati avrebbero di diritto di dire: «E noi chi siamo? Anche noi vogliamo una deroga su questo o su quello». Già ora la sindrome dell’opt out dilaga, come si vede dalle misure unilaterali in tema di rifugiati. Ma una volta che la strategia inglese fosse sancita e riconosciuta vincente, l’Unione europea assumerebbe non una, ma 28 configurazioni a geometria variabile. Il suo svuotamento sarebbe inevitabile.

Ma c’è un motivo più profondo per cui l’uscita del Regno Unito è quasi indispensabile se si vuole salvare l’Europa. Ed è la questione della democrazia. È vero che senza una politica economica comune e senza una difesa comune dello spazio europeo, la nozione stessa di Unione europea si svuota. Ma è altrettanto vero che in assenza di legittimità democratica è assolutamente improponibile la figura di un ministro delle Finanze europeo o di un ministro dell’Interno europeo così spesso evocata in questi mesi. Da quale governo eletto sarebbero nominati questi ministri? A chi dovrebbero rispondere? Chi potrebbe sfiduciarli? Nella situazione attuale di totale vuoto democratico queste figure costituirebbero un’ulteriore prevaricazione, un altro passo verso un regime autoritario dotato di poteri assoluti e non espresso da alcuna volontà popolare.

E qui non si scappa: se si vuole che il potere esercitato dall’Unione europea sia espressione di una volontà democratica, bisogna costruire una sovranità popolare europea. E questa sovranità popolare europea morde sulla sovranità popolare nazionale, come in ogni paese la sovranità nazionale morde su quella regionale. Perciò non c’è scampo. Se si vuole arginare la deriva di dittatura tecnocratica verso cui è incanalata l’Ue, è indispensabile che i parlamenti nazionali alienino una fetta della propria sovranità.

Naturalmente, perché emerga una sovranità popolare europea è necessario che prenda forma quella che Benedict Anderson chiamava una comunità immaginata, bisogna cioè che si formi una comunità di persone che si pensa «europea», oltre che «italiana» o «tedesca» o «francese». L’elezione di un parlamento europeo (benché a base nazionale), l’apertura delle frontiere, la moneta comune (come anche una miriade di norme burocratiche di standardizzazione dei regolamenti dei vari paesi) erano pensate proprio per aiutare a immaginare questa comunità.

Da notare che queste comunità non sono esclusive né reciprocamente escludenti. Negli Stati Uniti una persona può nello stesso tempo pensarsi di origine irlandese, sentirsi proprio californiana, e insieme fortemente statunitense. Ma se qualche decennio fa era facile pensarsi europei, adesso è diventato molto più difficile. È questo il double bind 5 in cui si trova l’Unione europea: non può acquistare realtà politica se non si democratizza, ma non può democratizzarsi perché le sue politiche dell’ultimo decennio hanno suscitato la crescente ostilità dei vari popoli europei. È sotto gli occhi di tutti il dramma di Syriza, il partito greco che è stato schiantato perché, rivoltandosi contro l’austerità imposta, continuava a essere profondamente europeista. Mentre hanno vita più facile e prospettive più rosee quei partiti nazionalisti che sono antieuropeisti e basta.

L’unico modo di superare il dilemma della democratizzazione divenuta irrealizzabile è cambiare le politiche europee e rimettere all’ordine del giorno una sovranità popolare, come aveva – timidamente – provato a fare Jacques Delors. Ma è proprio contro una sovranità popolare europea che ha sempre remato il Regno Unito. L’ostilità più forte si è sempre manifestata non contro la sovranazionalità dell’Europa, ma contro la sua democratizzazione, come fu chiarissimo dalle parole di Margaret Thatcher il 30 ottobre 1990 davanti alla Camera dei Comuni quando da un lato attaccò la Commissione per non avere nessuna legittimità popolare («Sì, la Commissione vuole accrescere i suoi poteri. Sì, è un corpo non eletto e io non voglio che la Commissione accresca i suoi poteri a spese del nostro parlamento»), ma dall’altro lato attaccò Delors perché voleva dare alle istituzioni europee una legittimità popolare: «Il presidente della Commissione, il signor Delors, ha detto l’altro giorno in una conferenza stampa che voleva che il parlamento europeo diventasse il corpo democratico della Comunità, che la Commissione ne diventasse l’esecutivo e il Consiglio dei ministri il suo Senato. No. No. No».

Sarebbe ridicolo, dicono i nostri amici statunitensi, se il governatore del Texas decidesse da solo di chiudere la frontiera degli Stati Uniti agli immigrati messicani (sottintendendo con ciò che ridicoli siamo noi europei). Ma non può farlo perché c’è un governo federale e questo governo c’è perché è eletto da tutti gli statunitensi e non su base semplicemente statale. Mentre invece a tutt’oggi il parlamento europeo è eletto su base nazionale dei singoli Stati membri: alle elezioni europee non si presenta nessun partito transnazionale né è mai stato eletto un candidato originario di un altro paese (tranne il caso tutto particolare del tedesco Daniel Cohn-Bendit che comunque aveva studiato in Francia e vi era stato leader del Sessantotto). Se democrazia europea ha da essere, allora deve formarsi quella che in inglese si chiama una constituency transnazionale, per cui alle urne un voto italiano può andare a Pablo Iglesias e uno tedesco ad Alexis Tsipras.

Tutto rema contro quest’eventualità. Ma certo che finché il Regno Unito (come ogni altro paese) avrà diritto di veto, sarà sbarrata un’evoluzione in questo senso 6.

Ma il Regno Unito non è «la perfida Albione», secondo l’espressione cara ai fascisti italiani. O almeno non più perfida di qualunque Stato nazione che persegue i propri interessi. Se il Regno Unito rema sempre contro una maggiore integrazione europea, non è per perfidia o duplicità, ma perché è preso in una rete di alleanze, e di priorità, che confliggono con le motivazioni europeiste.
Intanto non dimentichiamo mai che ciascuno dei nostri paesi è membro della Nato, l’Alleanza atlantica, in cui il termine «alleati» ricorda la parola latina foederati, che in epoca repubblicana i romani usavano per eufemizzare il concetto di sudditanza: e i popoli foederati, cioè alleati, erano quei sudditi che contribuivano all’esercito romano in uomini e fondi. Gli Stati membri della Nato sono alleati nel senso latino, cioè sudditi dell’impero Usa che si è dato, come Roma repubblicana, il nome di Alleanza. Ma il nome non nasconde la realtà di subalternità. Perciò, ancor prima che membri dell’Unione europea, i nostri Stati devono obbedire a un’istanza superiore situata al di là dell’Atlantico 7.
Ma, a differenza di altri membri della Nato, come Francia, Germania o Italia, il Regno Unito è preso anche in un’altra rete di relazioni interstatali, che per comodità viene chiamata (anche se con un termine un po’ impreciso) Anglosfera. La parola indurrebbe a pensare a una comunità linguistica. Ma così non è visto che da essa sono esclusi tutti i paesi africani, anche grandi, come la Nigeria (con qualche incertezza sull’includere o meno il solo Sudafrica) 8.
In realtà l’Anglosfera di cui parliamo è una versione ridotta, e tutta di razza bianca, dell’ex Commonwealth britannico, solo questa volta egemonizzato dagli Stati Uniti invece che dal Regno Unito, configurando oggi una relazione simile a quella che nel XIX secolo univa Brasile e Portogallo, in cui la precedente potenza coloniale era diventata un protettorato della propria colonia. O, per dirla alla Benedict Anderson, quando i creoli prendono il sopravvento sulla madrepatria.
Quest’Anglosfera è definita in modo preciso da trattati di cooperazione militare, aerea, navale, di intelligence, di intercettazione e di standardizzazione delle armi e dei materiali che accomunano Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, il nucleo bianco dell’ex Commonwealth. Questi trattati sono noti con arzigogolate sigle: Ukusa (United Kingdom-United States Agreement, che però, come tutti gli altri accordi qui elencati, include anche Canada, Australia e Nuova Zelanda), Auscannzukus (Australia, Canada, New Zeland, United Kingdom, United States), Five Eyes, Combined Communication Electronic Board, Technical Cooperation Program, Air and Space Interoperabililty Council, Abca (American, British, Canadian, Australian and New Zeland’s Program). La parte di questi accordi che riguarda l’intercettazione a tappeto delle comunicazioni satellitari, via cavo, internet, è popolarmente nota come Echelon (su cui si sprecano film e teorie dietrologiche). Ma senza alcuna ipotesi complottistica, da un punto di vista bellico, i cinque paesi dell’Anglosfera agiscono come un’unica potenza militare integrata.
D’altronde, a differenza di quello che avvenne per Unione Sovietica, Francia e Cina (e poi India, Pakistan, Israele, Nord Corea), l’accesso britannico all’armamento atomico fu enormemente facilitato dagli Usa, tanto che le prime bombe trasportate da bombardieri inglesi Vickers Valiant nel 1955 furono americane. Forse anche da qui derivò la nozione di «relazione speciale» tra Usa e Uk, nonostante la splendida battuta del cancelliere tedesco Helmut Schmidt secondo cui «la relazione tra Usa e Uk è talmente speciale che solo uno dei due ne è al corrente».
La contemporanea partecipazione alla Nato e all’Anglosfera definisce perciò i limiti dell’adesione del Regno Unito all’Unione europea. Un piede dentro/un piede fuori non è una scelta snobbistica, è la ricerca del massimo equilibrio possibile tra tutti i vincoli posti dalle differenti alleanze.

Ma allora è la domanda contraria che sorge spontanea: perché viene esercitata tutta questa pressione per trattenere il Regno Unito in Europa? Se io fossi un votante inglese mi irriterei per questa processione di grandi della terra che si succedono a implorare, minacciare, ricattare l’elettorato britannico di non uscire dall’Europa. Mentre prima erano tutti distaccati e critici, adesso un abbandono dell’Europa suonerebbe lo squillo dell’Apocalisse e precipiterebbe il Regno Unito in un baratro sociale, economico e diplomatico. Il presidente francese François Hollande avverte: «Se il Regno Unito lascia l’Unione europea, ci saranno conseguenze in molti campi, sul mercato unico, la circolazione dei prodotti e delle persone» (Le Monde, 3 marzo 2016: la minaccia sottintesa è che la Francia non tratterrebbe più migranti e rifugiati dal riversarsi nell’isola). Barack Obama rincara: «Se il Regno Unito esce dall’Europa, per quanto riguarda gli accordi commerciali, gli Usa sono interessati a firmarli con l’Unione europea come blocco e quindi il Regno Unito deve mettersi in fila» (parole che hanno irritato parecchio, facendo parlare di «arroganza» 9). Per il premier inglese David Cameron, con l’uscita del Regno Unito, c’è «un rischio di guerra» in Europa (la Repubblica, 10 maggio 2016).

Sul versante economico, il cancelliere dello Scacchiere George Osborne terrorizza i colletti bianchi sbandierando un orizzonte di disoccupazione e licenziamenti: con la Brexit «decine di migliaia di posti andrebbero persi nella City», in cui ben 285 mila impieghi sarebbero legati alla permanenza in Europa (Financial Times, 10 maggio 2016). Il Fondo monetario internazionale avverte: «La Brexit potrebbe produrre severi danni regionali e globali rompendo le tradizionali relazioni commerciali» (FT, 12 aprile 2016); mentre il presidente amministratore delegato della Deutsche Bank, John Cryan, predice che, in caso di Brexit, «Londra perderà la sua posizione lucrativa come principale hub per trattare le valute e i debiti sovrani europei» (FT, 14 aprile 2016).

Il signor John Cryan ha ragione. Come ha scritto Karel Lannoo del Center for European Policy Studies, «il predominio di Londra, come centro finanziario dell’Unione europea è un fenomeno piuttosto “recente” e la sua crescita negli ultimi due decenni è coincisa con il completamento del mercato unico, che permette il libero movimento di capitali e la libera fornitura di beni e servizi in tutta l’Ue. A ogni paese fu permesso di crescere nel proprio campo di vantaggio comparato. La Germania si specializzò nell’industria e nelle automobili. Londra, e anche altre parti del Regno Unito, si specializzarono nella finanza e nei servizi commerciali».

Ancora più inaspettato è quanto ci ricorda Lannoo: «Negli anni Sessanta e Settanta, a seconda degli indicatori usati, Londra stava alla pari con Parigi come centro finanziario. Londra era più internazionale e più centrata sul mercato, mentre la dimensione degli assets bancari e il loro contributo al pnl erano più alti in Francia. Anche il contributo del settore finanziario all’occupazione era simile nei due centri fino a circa vent’anni fa. Ma il big bang di Londra, combinato con le riforme del mercato del lavoro britannico, le nazionalizzazioni dei primi anni di Mitterrand in Francia, e più tardi il mercato unico e la prospettiva di unione monetaria cambiarono tutto ciò. Londra riuscì ad adattarsi rapidamente per servire come testa di ponte per le operazioni delle istituzioni finanziarie straniere, soprattutto Usa, nell’Unione europea» 10.

Proprio per la sua appartenenza all’Unione, Londra consente ai capitali, alle banche, alle istituzioni statunitensi libero investimento e movimento in tutta Europa, vantaggio che andrebbe perso in caso di Brexit. Più in generale gli Stati Uniti hanno bisogno di una testa di ponte nell’Unione europea, il cui profilo ha cambiato fisionomia con la fine della guerra fredda. Infatti nel secondo dopoguerra furono gli Stati Uniti a spingere per una prima unificazione dei loro alleati/sudditi europei in funzione antisovietica: e di questa spinta gli europei dovrebbero essere loro perpetuamente grati. Ma con il crollo dell’Urss il vantaggio strategico di un’Europa unita è diventato più discutibile. Agli occhi degli Stati Uniti, un’Europa unita poteva acquistare una connotazione antiamericana, come l’euro poteva essere considerato una potenziale minaccia al monopolio del dollaro come unica valuta di riserva mondiale. A credere al giornalista francese Georges-Marc Benamou, nei suoi ultimi anni François Mitterrand era persuaso che lo scontro tra Europa e Usa fosse inevitabile: «La Francia non lo sa, ma noi siamo in guerra con l’America. Sì, una guerra permanente, una guerra economica, una guerra senza morti apparentemente. Sì, sono durissimi gli americani, sono voraci, vogliono un potere totale sul mondo. È una guerra sconosciuta, una guerra permanente, una guerra senza morti e però una guerra a morte» 11.

I segni di questo distacco tra le due sponde dell’Atlantico si sono moltiplicati col tempo, non ultimi i rifiuti di Francia e Germania di partecipare nel 2003 all’invasione dell’Iraq. Perciò è importante per gli Usa avere un alleato fidato in campo europeo.

Ma perché Francia e Germania vogliono a tutti i costi che il Regno Unito rimanga in Europa? Perché accettano con tanto buon grado pretese sempre più esose, condizioni sempre più privilegiate? Dal lato tedesco, la ragione è inversa a quella della finanza americana. I tedeschi hanno un interesse vitale a dotare di una dimensione finanziaria internazionale la loro capacità industriale e la loro vocazione mercantilistica, di grande potenza esportatrice. Lo testimonia il progetto di fusione da venti miliardi di euro tra la Deutsche Börse di Francoforte e il London Stock Exchange, progetto la cui rilevanza strategica è dimostrata dalla sua lunga storia: il primo tentativo risale a 14 anni fa.

Dal lato della Francia, la presenza del Regno Unito è vitale in Europa per bilanciare lo strapotere tedesco che sarebbe libero di dilagare una volta che Londra fosse fuori dall’Ue.

Ma ambedue queste ragioni ci mostrano che le potenze europee continuano a muoversi in una logica di «potenza» appunto, intesa nel senso ottocentesco. Assistiamo infatti al balletto diplomatico già iniziato nel XVIII secolo e che fu chiamato balance of power, una strategia, già allora prediletta dal Regno Unito, che consisteva nel cambiare alleanze con i vari Stati, nel passare da una coalizione all’altra, in modo che nessuna potenza raggiungesse il predominio totale.

Da parte di tutti i protagonisti siamo ancora perciò a un’impostazione tremendamente vecchiotta, prigioniera dell’ottica nazionale, e quindi antitetica con un qualunque tentativo di superare le frontiere e le barriere. Francia e Germania vogliono che il Regno Unito resti in Europa per ragioni antieuropee, perché intrappolate ancora nella loro vecchia, e ormai ridicola, se non fosse micidiale, rivalità franco-tedesca. E qui il cerchio si chiude perché mostra come da tutte le parti le ragioni invocate per spingere gli elettori inglesi a votare contro la Brexit siano in realtà ragioni antieuropee. Per parafrasare una frase celebre pronunciata durante la battaglia di Fontenoy nel 1745: «Messieurs les anglais, sortez les premiers».

P.S. L’unica conseguenza assolutamente stravagante di un’eventuale Brexit sarebbe che la lingua comune dell’Unione europea, cioè l’inglese, sarebbe la lingua ufficiale solo di Irlanda e Malta.

NOTE
1 P. de Grauwe, «Why the European Union Will Benefit from Brexit», Social Europe, 24/2/2016, goo.gl/BELGzG.
2 C. Sanati, «Why the British Should Leave the EU: The Eu in Its Current Form, is fundamentally Broken. And It Won’t Be Fixed with the UK on the Board», Fortune, 22/2/2016.
3 I dati del 2009 sono tratti da N. Heinen, «EU Net Contributor or Net Recipient just a matter of Your Standpoint?», Deutsche Bank Research, 11/5/2011, goo.gl/sULfML, consultato il 3/5/2016.
4 L’articolo 1 (1) del «Protocollo sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito» del Trattato di Lisbona suona così: «La Carta [dei diritti fondamentali] non estende la competenza della Corte di giustizia dell’Unione europea o di qualunque altro organo giurisdizionale della Polonia o del Regno Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti o le disposizioni, le pratiche o l’azione amministrativa della Polonia o del Regno Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà e ai princìpi fondamentali che essa riafferma».
5 Concetto originariamente elaborato da Gregory Bateson nella sua ricerca sulla schizofrenia, il «doppio vincolo» si è rivelato utile in tutti i campi in cui si attua una teoria dei sistemi. Così è sottoposto a double bind un malato che deve assumere una medicina per salvarsi la vita ma non può assumerla perché la medicina ha una controindicazione che lo ucciderebbe.
6 Il diritto di veto sulle «aree fondamentali di politica comune» di ognuno dei 28 Stati membri avrebbe dovuto essere limitato dalla nuova Costituzione europea che però fu respinta da francesi e olandesi nel 2005. Ma è chiaro che senza una modifica di questo diritto ogni tentativo di democratizzare le istituzioni di Bruxelles è vanificato sul nascere.
7 Cinque membri dell’Unione europea – Austria, Finlandia, Irlanda, Malta e Svezia – si dichiararono «neutrali» durante la guerra fredda, ma ora son integrati in vari organi di consultazione e cooperazione atlantica. La partecipazione di Cipro è in sospensione a causa della disputa tra Turchia e Grecia.
8 Per esempio, in «The Anglosphere Project», The New Statesman, 13/3/2000, John Lloyd include paesi – come Sudafrica e Irlanda – che sono in realtà esclusi dal nucleo duro dell’Anglosfera.
9 T. Montgomerie, «Obama’s Brexit Overreach Is Typical of His Arrogance», The Spectator, 23/4/2016.
10 «Brexit and the City», Ceps, 22/1/2016, consultabile in goo.gl/Jf9cAX. 11 G.-M. Benamou (avec François Mitterrand), Mémoirs interrompus, Odile Jacob, Paris 1996, ripreso in Le dernier Mitterrand, Plon, Paris 1996, p. 52.

(24 giugno 2016)

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Reddito per tutti (coming soon)

L'economista Christian Marazzi

L’economista Christian Marazzi

In Svizzera si è tenuto all’inizio di questo mese un referendum sul reddito minimo o di cittadinanza. E’ stato bocciato, ma ha avviato una discussione che in Italia non ha quasi avuto nessun eco. D’altronde, come si accenna anche qui, la stampa economica più attenta e quindi il mondo della teoria economica, hanno appena cominciato ad annusare il nuovo oggetto. Uno dei miei autori preferiti, Christian Marazzi, in pochi giorni è tornato sul tema almeno con un paio d’interviste. La prima a commento del referendum, la seconda sull’idea del governo Renzi di anticipare i pensionamenti facendo indebitare i cittadini coinvolti. Le riporto e le evidenzio entrambe (ma i testi, come sempre con Marazzi sono tutti interessanti, dall’inizio alla fine).

Reddito per tutti: prossimamente su questi schermi
intervista a Christian Marazzi, a cura di Cristina Morini
Ti chiedo innanzitutto di inquadrare, a livello generale, il referendum sul reddito per il quale si è votato in Svizzera il 5 giugno scorso.
La prima osservazione che vorrei fare è che questa iniziativa è partita da un gruppo promotore sganciato da un tessuto sociale, da legami con quelli che chiamiamo “movimenti sociali”. Questo mi porta a domandarmi se programmi di questo tipo non vadano invece sempre ancorati a una spinta che prende le mosse dal basso. La popolazione svizzera ha vissuto, sin dall’inizio, con interesse questo progetto, ma un po’ come fosse caduto dal cielo. Per avere la chance di riuscire ad avviare un serio confronto non si può evitare di partire dai collegamenti reali, concreti, con la società.
La proposta in sé consisteva nella modifica di un articolo della Costituzione elvetica che introduceva il diritto dei cittadini svizzeri a percepire un reddito universale e incondizionato. Tale modifica avrebbe poi trovato concreta attuazione, a diversi livelli, nei prossimi 10 anni. Si puntava innanzitutto a introdurre il principio all’interno della Costituzione, organizzando poi nel tempo l’aspetto più spinoso delle forme di finanziamento. In tutto questo, a mio avviso, il punto più critico e più fragile dell’iniziativa è che comunque si fondava su un’impostazione fortemente redistributiva: dare un reddito incondizionato a tutti i cittadini in sostituzione dell’assetto di assicurazione sociale oggi vigente in Svizzera per quanto riguarda le forme di sostegno al reddito (dai sussidi di disoccupazione all’invalidità alle pensioni sociali). Ora, lo stato sociale svizzero è tra i più sviluppati e anche tra i più complessi in Europa e i cittadini svizzeri, che tra l’altro tendono a essere conservatori, ne sono orgogliosi. Ma in generale le forme di abolizione anche di parti dello stato sociale comportano sempre il rischio di un peggioramento. Ovviamente, non era questa l’intenzione dei promotori perché c’era margine per negoziare tra le prestazioni vigenti e il reddito erogato. Tuttavia, sappiamo bene che le declinazioni del reddito di stampo ultraliberista, alla Friedman, le interpretazioni della destra liberale, puntano a cancellare completamente il sistema di welfare. La proposta si prestava insomma ad alcuni possibili equivoci.
Tuttavia, il referendum ha aperto un dibattito molto interessante, in Svizzera e non solo.
Dal mio punto di vista la campagna è stata un’ottima occasione per porre questioni inaggirabili: innanzitutto, si è sviscerato il tema della precarietà, visto il forte aumento delle forme di lavoro “atipiche” che diventano sempre più “tipiche”. In Svizzera possiamo parlare di una “piena occupazione precaria”, come spesso dico, cioè abbiamo una disoccupazione molto bassa in presenza di un livello crescente di precarietà. Inoltre, si è sentito l’effetto di un dibattito che ci proietta direttamente nella quarta rivoluzione industriale, aprendo il capitolo degli effetti del capitalismo algoritmico: se stiamo alle analisi previsionali della Mckinsey nel giro di un ventennio il 50-60% delle professioni spariranno e questo è un orizzonte con il quale è urgente confrontarsi. Infine, nella discussione è entrato il tema del “finanziamento dell’ozio”. Quest’ultimo aspetto si lega all’impianto che aveva la proposta, come accennavo prima: se tu la imposti in termini distributivi, prevedendo che lo stesso reddito venga finanziato attraverso un prelievo fiscale progressivo sui salari dei lavoratori, ti infili in una posizione scivolosa perché fai virare il discorso verso una contrapposizione tra occupati e non occupati, tra attivi e non attivi, tra chi lavora e chi “non fa nulla”. Gli occupati percepiscono la tassazione che viene imposta per finanziare il reddito come una sottrazione del loro salario, a cui non sono invece tenuti i disoccupati, i quali ottengono per intero la cifra (2.500 franchi elvetici, circa 2.250 euro, per gli adulti e 625 franchi, 560 euro, per i minorenni, ndr). L’effetto finale che si propone è assolutamente corretto dal punto di vista dei principi perché punta a una perequazione tra bassi e alti salari, dunque a una riduzione del problema delle diseguaglianze. Tuttavia, il reddito non può essere posto in termini sostitutivi ma sempre aggiuntivi.
Quello che dici ci proietta a pensare il reddito come “reddito primario”…
Questo ci porta soprattutto a ragionare sul fatto che c’è sempre una quota di lavoro invisibile: il lavoro di cura, il lavoro delle donne, il lavoro di riproduzione sono esempi centrali, cui si aggiungono oggi le forme algoritmiche di “estrazione” del lavoro. Il reddito di cittadinanza – per tornare a una dizione che abbiamo molto adoperato proprio per segnalare il meccanismo dell’inclusione, nello spazio pubblico, che il reddito deve garantire – va pensato dentro questo quadro. Allora, non è sostituzione di lavoro salariato, né viene inteso come sottrazione di salario, ma è diretta distribuzione di un valore del lavoro non salariato che tutti e tutte facciamo, un lavoro in aumento, disperso nel corpo vivo della società. L’errore della proposta svizzera, come di altre, sta qui: nel porre la questione della redistribuzione sempre e solo a partire dal riferimento al lavoro salariato, che tra l’altro si sta sbriciolando progressivamente con l’effetto logico che si riduce pure la base del finanziamento. Ecco perché è fondamentale insistere su un’altra interpretazione, spostarsi lungo tutt’altra direttrice: il reddito non è sostituzione dello stato sociale esistente ma è monetizzazione di lavoro gratuito, distribuzione coerente con i nuovi modi di produzione e di creazione della ricchezza.
Da queste ispirazioni possiamo fare discendere anche la proposta di un Quantitative easing for the people, a cui da tempo stai pensando. Essa è entrata nel dibattito sul referendum svizzero come possibile forma di finanziamento?
Il ragionamento sul Quantitative easing non è entrato a fare parte delle riflessioni sulle possibili forme di finanziamento del reddito svizzero. Tuttavia, io penso proprio che il Quantitative easing for the people vada inteso come una possibile risposta al nuovo ordine del discorso e ai problemi che sottolineavo, dal tema della produttività sociale a quello della gratuità del lavoro contemporaneo. È una risposta in termini di creazione monetaria erogata dalla Banca centrale europea e va ad aggiungersi a quelle che sono le prestazioni dei vari sistemi sociali nazionali. Considero fondamentale fare riferimento a tale dibattito perché esso parte dall’osservazione concreta della stagnazione della domanda e dalla necessità di rilanciare i consumi.
Ribadisco inoltre che parlare oggi, seriamente, di reddito di cittadinanza significa soprattutto tenere in conto i nuovi processi di creazione del valore. L’impostazione “di principio” della proposta di reddito in Svizzera risentiva invece molto delle suggestioni della filosofia morale, à la Van Parijs. Tali proposizioni si sono progressivamente sviluppate proprio in termini redistributivi, mostrando una modalità che forse è troppo forte definire auto-contraddittoria. Certamente, poiché si basa sulla vigenza e sulla centralità del lavoro salariato, è corretto dire che è un impianto che ha fatto il suo tempo.
Il risultato del voto come lo interpreti? Per molti, nonostante la proposta non sia passata, si è trattato di un esito incoraggiante.
È molto importante che si sia avviato il discorso, come sostenevo, anche se a mio avviso il risultato (23% di sì) non è eclatante: l’avrei considerato un successo qualora si fosse raggiunto un 30% di adesioni alla proposta. Tuttavia, è indicativo di un clima che sta cambiando: l’Economist o il Financial Times ne hanno molto parlato il che significa che in qualche misura esiste ormai una diffusa sensibilità riguardo l’ineluttabilità del reddito. Questa prova della Svizzera è stata un po’ come il trailer di un film prossimo a uscire nelle sale, dopo il quale a un certo punto compare la scritta coming soon. Del resto, il capitalismo stesso è consapevole del rompicapo della produttività di fronte al quale ci troviamo. Come calcolare la produttività contemporanea? E perché è così bassa? Il punto è, chiaramente, che la produttività che conta di più, il lavoro che facciamo in rete, nelle varie connessioni che agiamo, imprescindibili dentro le nostre vite, nel lavoro sociale, non è calcolabile perché è “fuori”. Dunque, non c’è modo di farla rientrare nel calcolo statistico. Questo è un grosso problema e l’Economist, il Financial Times se ne rendono conto per primi, perciò guardano a tutto questo e alla prospettiva del reddito con un misto di apprensione e di interesse insieme. Quindi, insomma, piano piano i nostri discorsi sul reddito guadagnano legittimità.
D’altro lato, lo stato sociale così come è adesso, forgiato sul fordismo, sta andando incontro a seri problemi di finanziamento poiché l’architettura del welfare risente della crisi del lavoro salariato. Dunque è assolutamente necessario intervenire con una nuova ingegneria sociale per tamponare tale punto di blocco. La bizzarria è che, di solito, chi attacca il reddito di base contemporaneamente vuole anche lo smantellamento dello stato sociale e appoggia le politiche di austerity e il rigore.
Alla fine, verrebbe da dire, anche se pare un paradosso, non è così semplice “dare” del denaro alle persone, tra etica del lavoro, competizioni, diseguaglianze…
Abbiamo assoluta necessità di avviare una riflessione sul significato sociale del denaro. Penso ad alcuni studi della sociologa americana Vivian Zelizer: non è vero che il denaro è un equivalente generale, ogni gruppo sociale ne fa un uso diverso e dà al denaro un significato, un senso diverso che è frutto dei vissuti, delle proiezioni, del sistema di valori del singolo o della singola. Zelizer lo ha studiato rilevando interessanti discrepanze anche sulle spinte all’acquisto che dipendono dal lavoro che fai, dal tuo campo di interessi, da tensioni affettive. Del resto, io stesso mi ricordo che a casa mia si facevano buste differenti per i soldi destinandoli ai vari scopi, dalle vacanze ai compleanni: ognuna di queste buste non conteneva solo una quota di denaro, conteneva un’idea, un simbolo, un valore diversificato che andava ben oltre quello del denaro in sé. Oppure, per fare un altro esempio, nelle comunità ebraiche è sempre stato ritenuto fondamentale tenere da parte una cifra per garantire funerali dignitosi a chi se ne andava ed è da lì che prende avvio l’idea delle assicurazioni sulla vita.
Un’ultima cosa: per immaginare seriamente il reddito bisogna soprattutto entrare nell’idea di ricostruire una comunità di rischio. La diseguaglianza crescente, l’individualismo connesso ai sistemi di precarizzazione giocano contro la messa in comune del rischio, “privatizzano” il rischio, lo addossano alla singola persona. Noi dobbiamo ritornare a sentirci parte di una comunità di rischio e trovare nuovi modi e strumenti per difenderci insieme.
(da www.effimera.org, giugno 9th, 2016)
«Tutta la vita con il debito grazie al piano Renzi sulle pensioni»
intervista a Christian Marazzi, a cura di Roberto Ciccarelli
Cosa pensa della proposta del governo Renzi?
Sembra di sognare. Devo dire che una cosa del genere fin’ora non l’ho mai vista proposta e tantomeno applicata altrove. Per il momento prendiamola solo come idea. Siamo nel pieno della bioeconomia nel senso della messa a valore finanziario della vita. Quella del governo italiano è una pura e semplice titolarizzazione dei diritti sociali. La sua logica assomiglia a quella delle strategie finanziarie che hanno portato alla catastrofe dei mutui subprime. Si vuole coinvolgere le banche e dare di nuovo una bella spinta alla privatizzazione di parti dello stato sociale.
Quali rischi potrebbe comportare?
Quello di una cartolarizzazione sull’onda di quanto già sperimentato e che peraltro è una pratica ricorrente: questi titoli di credito cartolarizzato saranno sicuramente differenziati al loro interno, per quanto riguarda il rischio di rendimento e di ripagamento. La cartolarizzazione potrebbe rendersi necessaria per permettere alle banche di far fronte alla difficoltà di rendere remunerativi i titoli di credito in un periodo di tassi praticamente nulli, se non proprio negativi. È possibile che le banche tenteranno di aumentare i volumi degli anticipi pensionistici liberando i bilanci attraverso la cartolarizzazione.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini sostiene che questa non è una penalizzazione ma una rata di ammortamento, varierà a seconda della categoria dei lavoratori coinvolti e non graverà sui loro eredi.
La pensa così perché altrimenti non l’avrebbe proposta. Mi sembra evidente che il credito e il debito che permetteranno di anticipare e rendere flessibile il pensionamento graveranno sui beneficiari. Dovranno pure pagarlo, anche nell’arco di vent’anni, ma dovranno restituirlo. Con i livelli di pensione che ci sono mi chiedo se questa non sia un’istigazione a lavorare in nero. Sono pur sempre somme che calcolate sull’arco di un anno possono essere importanti per una persona che ha una pensione bassa.
È un altro passo per sostituire l’uomo indebitato al lavoratore salariato nel welfare europeo?
Si è quello che intendo per bioeconomia. La bioeconomia ruota attorna all’uomo indebitato ed è la forma di governance della società attraverso la generalizzazione dell’indebitamento. Vedo un forte parallelismo tra i giovani che si indebitano per studiare negli Stati Uniti e gli anziani che si indebitano per potere smettere di lavorare in Italia. Ormai il nostro ciclo di vita attiva inizia con il debito per finire con il debito. I diritti sociali che abbiamo maturato nel corso del Novecento, a partire dalle lotte dei movimenti operai, si stanno trasformando in titoli finanziari. Nel settore immobiliare, nel credito a consumo o in quello previdenziale, la logica è sempre la stessa: anticipare in modo tale da ipotecare il futuro.
Come giudica la politica previdenziale dalla riforma Fornero a oggi?
È costituita da misure tampone per tenere testa a un disastro creato attraverso l’esperimento del governo tecnico Monti che ha commissariato l’Italia con il Fiscal compact. Bisogna capire che il sistema pensionistico non è riformabile nei termini della Fornero e non può esserlo nemmeno con la finanziarizzazione. Lo stato sociale è una cosa molto articolata e metterci mano con questi espedienti denota a volte creatività ma il più delle volte porta a alchimie improvvisate e pericolosissime che destano preoccupazione. È sempre la stessa storia: in una situazione politica a rischio di Brexit e della deflagrazione dell’Ue, si continua a rispondere alle rivendicazioni di sovranità nazionale di destra con misure che non fanno altro che rafforzare vie d’uscita nazionalistiche a problemi che sono strutturali e di fatto riguardano tutta l’Europa.
Cosa dovrebbe fare il governo?
Chiedere l’istituzione di un sistema di mutualizzazione e di intervento in termini di redistribuzione e monetizzazione delle rendite in Europa.

I nati dal 1980 in poi non avranno pensione o dovranno lavorare fino a oltre 75 anni. La finanziarizzazione della previdenza cosa comporterà per loro?

Anche questo è un problema europeo: il cumulo di lacune contributive dovute alla precarizzazione del lavoro riguarda sia l’Italia che addirittura la Svizzera dove vivo. Ha un margine di sopportabilità che non va oltre il 2020. Il finanziamento di questo sistema pensionistico si rivelerà sempre più problematico. Perche il lavoro precario è per definizione l’opposto del lavoro salariato sulla base del quale sono stati costruiti i nostri stati sociali. Più si erode il lavoro salariato, più si erode il finanziamento dello stato sociale. Il finanziamento dell’intero sistema della sicurezza sociale e, in particolare, della pensione è un problema inaggirabile.
Qual è soluzione per lei?
Il reddito di base incondizionato permette di colmare queste lacune ed evitare che portino all’esclusione dal sistema delle tutele sociali. Questo è il senso del referendum che si è tenuto in Svizzera. Il problema non può essere più rimandato. Siamo entrati in una fase in cui la riforma del sistema previdenziale va veramente portata a livello europeo. Sul piano nazionale è praticamente impossibile effettuare riforme in positivo, ma solo in termini repressivi o semplicemente di taglio e smantellamento del welfare.
(il manifesto, 16 giugno 2016)

 

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Ttip, il mostro misterioso da nascondere

Giulio Marcon è deputato indipendente di Sinistra Italiana, membro della Commissione Bilancio e già coordinatore della campagna “Sbilanciamoci!” Secondo me è uno dei pochi parlamentari italiani preparati in questione economiche. Invito a leggere questo articolo pubblicato da L’Espresso sul come si può conoscere e quindi discutere le negoziazioni in atto tra Ue e Usa sul Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership). (Il grassetto è quello originale sul sito del settimanale.)

Giulio Marcon

Due ore tra 
i misteri del Ttip
di Giulio Marcon
Lunedì 30 maggio, ore 10.00, via Veneto, Roma: sono davanti al palazzone che ospita il ministero dello Sviluppo economico. È qui che è stata allestita la Sala di lettura dei documenti della bozza di accordo del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), tra Unione Europea e Stati Uniti. Da questo accordo dipendono per i prossimi anni i commerci ma anche gli standard ambientali, sanitari e sociali e delle tutele per i cittadini.
Le trattative sono state condotte finora nella massima segretezza. Soltanto un “leak” di Greenpeace , a inizio maggio, ne ha rivelate alcune parti. Adesso, a seguito delle pressioni per una maggiore trasparenza, è stata istituita questa Sala di Lettura a cui sono ammessi solo i parlamentari e alcuni alti funzionari governativi.
Sono il primo ad arrivare. Al portone del ministero in Via Veneto mi ferma un carabiniere «Lei è nella lista?». Sì, sono un deputato. «L’accompagno al quarto piano. Sa le regole?». Le regole sono quelle stabilite dai negoziatori europei e dal governo italiano. «Gliele anticipo», dice il maresciallo: non si possono fare fotocopie, non si possono fare foto, non si possono trascrivere le pagine. Solo appunti a penna, da controllare alla fine.
Arrivo alla Sala lettura. Sulla porta mi aspettano quattro funzionari ministeriali. Mi rispiegano le regole: «Qui c’è l’armadietto dove può sistemare il suo cellulare. Ha tablet, computer?». No, solo un quadernino. Sulla porta della stanza c’è una targhetta “Sala lettura Ttip” e due bandiere: quella degli Stati Uniti e quella dell’Unione Europea. Nella stanza ci sono quattro scrivanie, su ciascuna qualche foglio bianco e un paio di penne. Un dizionario inglese-italiano per tutti (la bozza dell’accordo è solo in inglese).
Mi consegnano il faldone con otto voluminosi plichi. I funzionari rimangono nella stanza e mi scrutano con attenzione: sembrano i commissari di un concorso. Dopo un po’ arriva anche il mio collega di Sinistra Italiana, Florian Kronbichler. Si è alzato alle cinque del mattino per prendere il treno da Bolzano. Segue da sempre la vicenda Ttip, ha presentato interrogazioni parlamentari e question time. È anche grazie alla sua ostinazione altoatesina che la Sala di lettura è stata aperta.
Arriva il capo di gabinetto del ministro Carlo Calenda. Fa un giro dei tavoli con le braccia dietro la schiena, come fosse il capo dei commissari d’esame. Ci dà la mano, è laconico: «Tutto a posto? Buona lettura». Difficile fare una buona lettura visto che gli otto plichi (700-800 pagine) si possono leggere solo per un’ora. Dobbiamo fare un po’ di compassione, così i nostri controllori ci concedono un po’ di tempo in più: «Vi diamo il permesso di rimanere fino alle 12.15».
I plichi sono numerati con un pennarello, ma ogni volume non ha un indice e non c’è la numerazione della pagine. Sembra fatto apposta per far perdere tempo a chi legge. Ci vuole una mezz’ora per orientarsi in fascicoli di fotocopie allestiti alla buona.
Saltando di pagina in pagina trovo conferma dei rischi che questo accordo ci presenta: diminuzione degli standard sociali e ambientali dei prodotti e subalternità degli Stati alle imprese, che potranno chiamarli a rispondere davanti ad una sede arbitrale privata, qualora i governi vogliano introdurre norme a tutela dei consumatori. Noi riduciamo gli standard ambientali e sociali: in cambio avremo l’abbassamento dei dazi americani sulle merci europee.
In una pagina trovo la frase dei negoziatori «Ci impegniamo a mantenere la segretezza del trattato». Per l’arbitrato gli europei propongono un «periodo sperimentale di applicazione» e organismi di mediazione volontaria sulle controversie. «Ci penseremo», rispondono gli americani. Che dicono agli europei: «Bisogna eliminare le misure di controllo ridondanti». Si intende quelle sociali e ambientali. I negoziatori europei non fanno una piega.
Tutto viene previsto nei dettagli. Per i liquori superalcolici va tolta dalle etichette la data di fabbricazione, di imbottigliamento e di scadenza. “Ridondante”, evidentemente. Per le nuove autovetture gli europei vogliono che ci sia l’ultima versione del test Crashworthiness, cioè la capacità di un’autovettura di proteggere da un impatto i suoi occupanti. Gli americani vogliono la seconda versione, la terza costa troppo e gli americani sono “uncommitted” (non disponibili) a introdurlo.
“Ridondanti” sono evidentemente anche le spiegazioni sulle etichette dei cosmetici, magari per dire se ci sono sostanze pericolose o se si fanno test sugli animali. «Gli Stati Uniti», si dice nel primo fascicolo che sfogliamo, «non vogliono spingere le imprese in questa direzione». Per l’uso dei coloranti, gli europei chiedono di rispettare le regole sanitarie. Gli americani rispondono: «Mandateci una relazione, la studieremo».
Continuiamo a sfogliare le carte. Il tempo passa. Il funzionario guarda l’orologio e alza il sopracciglio, mancano 30 minuti. Ci affrettiamo. Gli Stati Uniti vogliono procedure non vincolanti per tanti aspetti dell’accordo. Talvolta i negoziatori europei balbettano qualche obiezione, spesso accettano. Così per la questione dei diritti sulla proprietà intellettuale. «Slow down», dicono gli americani e gli europei rallentano.
In realtà a leggere il Ttip sembra che a guadagnarci non siano nemmeno gli americani (intesi come cittadini), ma le medie e grandi imprese e – soprattutto – le multinazionali. A rimetterci i consumatori (americani ed europei) e le piccole imprese (americane ed europee). Ancora non c’è niente di deciso, i negoziati sono in corso.
Quasi 200 pagine delle bozze degli accordi che leggiamo sono occupate dalla stime degli effetti presunti del Ttip sull’economia europea. Secondo le stime europee, il Pil Ue avrebbe un aumento extra dello 0,5 per cento l’anno, le esportazioni aumenterebbero dell’8,2 (e le importazioni del 7,4 ) e i salari dello 0,5 per cento. Tra le righe ci dicono anche che la produzione europea di auto calerà del 3 per cento, quella di acciaio del 2,5 e anche i produttori agricoli se la vedranno male.
Tutte stime per le quali non è fornito nelle carte del trattato alcun modello econometrico e di simulazione statistica credibile. Gli europei però sembrano ingoiare tutto: primato delle multinazionali sugli Stati, riduzione degli standard ambientali, meno tutele per i cittadini e meno sicurezza sui prodotti alimentari. Sono le 12.15. Il funzionario ci guarda accigliato. Le nostre due ore di trasparenza e di informazione le abbiamo avute. Mi accompagnano alla porta.
(L’Espresso, 3 giugno 2016)
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Ue/Migranti: Cresce lo stato confusionale

Questo blog seguirà sempre la questione dei migranti perché è uno dei problemi principali che abbiamo, perché è destinato a durare molto tempo e perché su questo regna una grande confusione e disinformazione. Una delle fonti preferite sono i commenti di Guido Viale che per quanto possibile cercherò di documentare. Questo è l’ultimo, pubblicato su il manifesto di oggi (31 maggio 2016). (Grassetto e evidenziazioni sono miei.)

Dalla «governance» è nato il caos
di Guido Viale
Cresce nella governance dell’Unione lo stato confusionale sul problema dei profughi, e non solo. Otto anni di austerity non hanno dato ai cittadini europei nessuno dei risultati promessi, ma i suoi fautori non possono ammetterlo: così si barcamenano tra “flessibilità”, sforamenti dei deficit e moneta facile senza ottenere il minimo effetto su occupazione, redditi, investimenti.
Anche l’altalena di dichiarazioni e smentite sulle richieste alla Grecia è prova di confusione: vorrebbero strangolarla, ma non vanno a fondo per paura, con la minaccia del Brexit alle porte, di innescare fughe a valanga. Ma otto anni di austerity hanno reso un problema insolubile, in un continente che perde tre milioni di abitanti all’anno, anche l’arrivo di un milione di profughi: tanti quanti erano i «migranti economici» che arrivavano ogni anno in Europa.
E si sistemavano, prima che i cordoni della borsa venissero stretti con il fiscal compact. Ma il campanello di allarme sono state le elezioni austriache. L’elettorato si è spaccato: metà per i respingimenti, metà per l’accoglienza. Con i due partiti che avevano governato il paese per settant’anni dissolti nello spazio di pochi mesi. In questo esito i partiti che, insieme o alternandosi, hanno governato finora i rispettivi paesi e l’Unione, impediti a schierarsi con gli uni, per non esserne divorati, e incapaci di dare una risposta agli altri, per la ristrettezza mentale che li divora, hanno letto il proprio futuro. Così si cercano di barcamenarsi anche su questo terreno, mentre migliaia di profughi continuano a morire, a perdersi, a soffrire.
Angela Merkel si è adoperata per imporre un accordo con la Turchia che dovrebbe liberare la Germania e i suoi vassalli dall’«incubo dei profughi» lungo la rotta dei Balcani. Ma accortasi che Erdogan la teneva ormai al guinzaglio, ha accennato a una marcia indietro. Lo stesso ha fatto Schulz, dichiarando che l’Unione non abolirà mai i visti di ingresso finché la Turchia non rispetterà “tutte” le regole della democrazia (ma non ne sta rispettando nessuna); in compenso è sicuro che i profughi rispediti a Erdogan sono trattati molto bene (lo avrebbe constatato di persona, in una visita ad hoc). Alfano progetta hot spot galleggianti per rispedire subito in Libia i naufraghi raccolti in mare, proprio mentre è evidente che in Libia, come in tutti gli Stati africani con cui sono stati conclusi o si vuol concludere accordi di rimpatrio, quei profughi vengono massacrati, torturati e rapinati in ogni modo. Il tutto sullo sfondo dello «strepitoso» (parole sue) migration compact messo a punto da Renzi, che non propone altro che l’estensione del vacillante accordo con la Turchia a tutti i paesi di origine o transito dei profughi in arrivo dall’Africa; a un costo dieci volte superiore a quello che i governi dell’Ue già rifiutano di pagare alla Turchia; mentre nessuno accetta di rilocalizzare i profughi sbarcati in Grecia e in Italia, contando di scaricare sui due paesi il peso dei nuovi arrivi presenti e futuri.
È ora di dire che la questione dei profughi non è un’emergenza; ma non, come sostiene Renzi, perché il numero degli sbarchi di quest’anno non è eccezionale (ma lo è il numero dei morti, che già era intollerabile gli anni scorsi). Ma, al contrario, perché non è un fenomeno temporaneo, ma è destinato a durare per decenni con pari se non maggiore intensità. Ma non è un problema italiano; riguarda tutta l’Unione europea. Che o si attrezza per accogliere tutti i nuovi arrivati, senza distinguere tra profughi e migranti economici, per inserirli nel tessuto sociale e nel sistema economico con una svolta di 360 gradi nelle politiche fiscali, e imboccando definitivamente la strada della conversione ecologica; oppure si dissolverà insieme ai partiti che l’hanno governata finora, spalancando la strada alle forze che vogliono trasformarla non solo in una fortezza verso l’esterno, ma anche in una caserma all’interno. Oppure alle forze, ancora tutte da costruire, da raccogliere intorno alle migliaia di volontari che hanno capito l’importanza della posta in gioco, e che sanno che alle politiche di accoglienza non ci sono alternative; perché i respingimenti sono sì un crimine contro l’umanità, ma sono anche impraticabili.
(il manifesto, 31 maggio 2016)
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Cacciari: Sì, è una cazzata, ma forza Renzi!

Pubblico un articolo del politologo Gianfranco Pasquino in immediata risposta ad un’intervista rilasciata da Massimo Cacciari a la Repubblica del 27 maggio. (Le evidenziazioni sono mie.)

Cacciari irresponsabile: si sottomette a Renzi (ma non riesce a dirlo)
di Gianfranco Pasquino
Il filosofo dice Sì – Giustificazioni immaginarie: non è vero che questa riforma è meglio di niente
Cacciari s’inventa, nell’intervista fattagli da Ezio Mauro (Repubblica, 27 maggio) un’immaginaria “responsabilità repubblicana” per giustificare la sua personale, effettiva sottomissione al ricatto plebiscitario. Cacciari parte da un presupposto falso e falsificabile: l’assenza negli ultimi quaranta anni di riforme. Questo presupposto, magnificato e drammatizzato sia dalla propaganda renziana sia dalla ignoranza della grande maggioranza dei commentatori, è smentito da duri fatti: l’elaborazione di due leggi elettorali, Mattarellum e Porcellum, l’approvazione parlamentare di una buona, se non ottima, legge per l’elezione dei sindaci, l’abolizione di quattro ministeri, l’eliminazione del finanziamento statale dei partiti, la stesura di un nuovo titolo V della Costituzione. Non vale l’obiezione, a doppio taglio, che si tratta di brutte riforme poiché a) nient’affatto tutte sono brutte, b) il Titolo V è stato ratificato da un referendum, c) anche le riforme renzianboschiane sono suscettibili della stessa valutazione e d) la riforma del bicameralismo è pasticciata nella composizione del nuovo Senato e confuse nell’attribuzione delle competenze.
Proseguendo attraverso un’autocritica generazionale e facendo leva sulla sua personale visione apocalittica della storia, del mondo e, quindi, dell’Italietta, Cacciari supera le sue stesse critiche alla riforma “concepita male e scritta peggio” e pronuncia il suo fatale, neppure molto sofferto, “sì”. Sposerà la riforma renziana. Poco gli importa che si tratti di una “riforma modesta e maldestra” e che la legge elettorale, che è un cardine della riforma, sia “da rifare”. Ancora meno sembra preoccuparlo che “la partita si gioca su Renzi” che ha personalizzato il referendum. Pudicamente, il filosofo evita l’espressione più precisa e pregnante, quando un leader chiede il voto sulla sua persona e sulla sua carica, di plebiscito si tratta, come tutta la storia del pensiero politico ha sempre affermato.
No, lui, per responsabilità repubblicana, voterà a favore, evidentemente non della riforma modesta e maldestra, ma di Renzi. Più che di responsabilità, forse, sarebbe il caso di parlare di preoccupazione per le presunte temibilissime conseguenze che Renzi e i renziani agitano: crisi di governo e elezioni anticipate. Brillantemente e prescientemente, Cacciari addirittura anticipa una, troppo spesso trascurata, conseguenza della riforma: il presidente del Consiglio sconfitto impone al Presidente della Repubblica lo scioglimento del Parlamento. Invece, no: il presidente della Repubblica ha, in primo luogo, il potere e il dovere, “repubblicano”?, di esplorare se esiste un’altra maggioranza in grado di fiduciare e fare funzionare un nuovo governo. In secondo luogo, può invitare Renzi a restare il tempo necessario per approvare una legge elettorale migliore dell’Italicum (non è affatto difficile), magari facendo rivivere il, a lui ben noto, Mattarellum.
Insomma, l’Apocalisse non è alle porte a meno che sia Renzi sia Mattarella sia, con l’enorme potere che gli è rimasto e che usa platealmente, Napolitano, dimentichino le loro, al plurale, responsabilità repubblicane. Certo, vorremmo saperne di più sulla concezione e sui contenuti della responsabilità repubblicana formulata da Cacciari. No, non intendo affatto esibirmi in una difesa della Costituzione com’è (e non ho mai fatto parte del clan dei riformatori falliti menzionati da Cacciari). Tuttavia, preso atto che, come tutti hanno il dovere di sapere, la Repubblica siamo noi, che è il significato profondo dell’ultimo comma dell’art. 3 della Costituzione che ci chiede di rimuovere gli ostacoli alla effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica, mi chiedo se la nostra responsabilità non debba tradursi in una vigorosa battaglia per riforme non “modeste” e non “maldestre”, concepite bene e scritte meglio (ce ne sono, eccome se ce ne sono), per una legge elettorale decente, per un referendum che non sia né un plebiscito né, meno che mai, il giudizio di Dio.

La responsabilità repubblicana esige che le riforme della Costituzione e del sistema elettorale, il decisivo meccanismo che traduce le preferenze (e le volontà) degli elettori nel potere politico di rappresentanti e governanti, siano poste molto al di sopra della vita di un governo, di qualsiasi governo. La responsabilità repubblicana respinge i ricatti dei governanti e non si traduce mai in sottomissione plebiscitaria.
(Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2016)
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La bicicletta e la vita secondo Nibali e Chaves (e Illich)

 Ansa

Nibali nell’attacco decisivo a Chaves e Valverde durante la tappa Guillestre (F) – Sant’Anna di Vinadio del 28 maggio 2016

Vincenzo Nibali ha vinto il 99° Giro d’Italia, ma non è stata proprio una passeggiata, anzi. Dopo due settimane di corsa aveva palesato una strana situazione psicofisica che lo vedeva attaccare per poi soccombere all’avversario di turno, prima l’olandese Steven Kruijswijk, poi il colombiano Esteban Chaves. Così, alla vigilia della 19a tappa, la Pinerolo – Risoul (F), era staccato di quasi cinque minuti dall’olandese in maglia rosa.

Poi è successo un po’ di tutto. Il coraggio, la determinazione, l’aiuto della squadra e soprattutto di Michele Scarponi, un grande gregario di quasi 38 anni, la fortuna. Già anche la fortuna, perché contro questa non si vince. E non penso tanto alla spettacolare caduta in discesa di Kruijwijk in maglia rosa, imputabile anche ad imperizia, quanto alle condizioni di salute del giovane colombiano Chaves che sul traguardo della penultima tappa tossiva ripetutamente. Però alla domanda del cronista televisivo sul fatto che fosse sotto antibiotici da giorni, questo giovane filosofo della bicicletta, cioè della vita, ripeteva che tutto era dovuto al semplice fatto che “Oggi io e Vincenzo abbiamo dato spettacolo. Nibali è stato più forte, io non avevo la gamba: è la vita. Ci sono cose più importanti di una corsa: i miei genitori sono qui per la prima volta in Europa a vedermi. Questa è la vita, la vera vita” – e sorrideva.

E io ne approfitto per ricordare che in bicicletta è bello andarci, il Giro è bellissimo da vedere in tv, ma – magari fuori stagione – sulla bicicletta si può anche leggere. (Non ‘in’ bicicletta, ma sulla bicicletta come oggetto letterario e filosofico.) Così indico alcuni libri più o meno recenti (non è un elenco completo, solo un mio elenco).
Augé M., Il bello della bicicletta [2008], Bollati Boringhieri, Torino 2009.
Bernardi W., La filosofia della bicicletta. Socrate, Pantani e altre fughe, Ediciclo, Portogruaro 2013.
Fottorino É., Piccolo elogio della bicicletta [2007], Excelsior 1881, Milano 2009.
Leblay J., Il tao della bicicletta. Piccole meditazioni ciclopediche [2010], Ediciclo, Portogruaro 2012.
Marthaler C., Lo zen e l’arte di andare in bicicletta [2004], Ediciclo, Portogruaro 2010.
Marthaler C., L’insostenibile leggerezza della bicicletta, Ediciclo, Portogruaro 2012.
Pauletto G., Amati giri ciclici. Pensieri emozioni e piccole storie in bicicletta, Ediciclo, Portogruaro 20062.
Pauletto G., Il ciclista impenitente. Divagazioni a ruota libera di un passista felice, Ediciclo, Portogruaro 2011.
Rigatti E., Minima pedalia.Viaggi quotidiani su due ruote e manuale di diserzione automobilistica, Ediciclo, Portogruaro 2004.
Tronchet D., Piccolo trattato di ciclosofia. Il mondo visto dal sellino [2007], Il Saggiatore, Milano 2009.
Senza dimenticare il più importante, che non è un libretto di ciclosofia ma un piccolo ma denso trattato di filosofia politica):
Illich I., Elogio della bicicletta [1973], Bollati Boringhieri, Torino 2006 – dove si scrive che:

“Un paese si può definire sottoattrezzato quando non è in grado di dotare ogni cittadino d’una bicicletta o di fornire come supplemento un cambio a cinque velocità a chi voglia trasportare gente pedalando. E’ sottoattrezzato se non può offrire buone strade ciclabili oppure un servizio pubblico gratuito di trasporto motorizzato (ma alla velocità delle biciclette!) per chi intende viaggiare per più di poche ore consecutive. Non esiste alcuna ragione tecnica, economica o ecologica perché in qualsiasi luogo si debba oggi tollerare una simile arretratezza.
Un paese si può considerare sovraindustrializzato  quando la sua vita sociale è dominata dall’industria del trasporto, che determina i privilegi di classe, accentua la penuria di tempo e lega sempre più strettamente la popolazione ai binari ch’essa le traccia. 
” (p. 64)
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“Una costituzione democratica ha innanzitutto l’obbligo della chiarezza”

Gustavo Zagrebelsky è stato membro della Corte Costituzionale italiana per nove anni e suo presidente negli ultimi nove mesi di questo lungo mandato ed è una delle menti più lucide e spiritose del quadro culturale e politico nazionale. Non è un caso che Ezio Mauro, già direttore di Repubblica nell’ultimo ventennio si sia rivolto a lui per capire le ragione del No al referendum costituzionale previsto all’inizio del prossimo ottobre. (Le evidenziazioni sono mie.)

“Renzi e il referendum – Il mio No per evitare una democrazia svuotata”
di Ezio Mauro
Per l’ex presidente della Consulta la riforma del Senato sommata all’Italicum “realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie”
Professor Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del “no” alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos’è successo?
“Nel “fronte del no” convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L’atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l’allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?”.
Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
“Non penso a una “Spectre”, per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l’autoritarismo, di “democratura”. Ripeto: non c’è da preoccuparsi?”.
Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
“Il Senato è un dettaglio, o un’esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all’insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall’altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l’umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è “non ci sono alternative”, e così il pensiero è messo fuori gioco”.
Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
“Con “i vertici” ho poche occasioni d’incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell’alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l’insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli”.
Ad esempio?
“Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c’è l’esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone”.
Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l’economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare?
“Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all’enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il “sì” spianerebbe una strada; il “no” farebbe resistenza”.

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
“Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all’impotenza e all’irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità”.
Anche lei pensa che l’Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
“Per nulla. Ma l’Europa è una scelta, non un guinzaglio. L’articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l’Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un’abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L’Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia”.
Sta dicendo che l’Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
“È l’opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un “plebiscito d’ogni giorno” dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi”.
Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
“C’è un pensiero unico in campo, tra l’altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L’implosione è sempre in agguato”.
Professore, non è troppo pessimista?
“Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile”.
Sta facendo un problema di forma?
“Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l’obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità”.
 Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
“Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis! “.
Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all’eterna tentazione del consociativismo?
“A patto di non considerare la vittoria come un’unzione sacra che permette di insultare chi non è d’accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l’idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato”.
Ma nel Paese dell’eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
“Perché “diretto” sarebbe “non democristiano”? A me pare che proprio l’idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d’essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c’è stata e c’è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?”.
Lei teme l’abuso del vincitore?
“Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della “paura del tiranno”. Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c’è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene”.
Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell’esecutivo: è così?
“Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della “velocità” nella politica e dell’elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato”.
Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
“Semplice: perché c’erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi”.
Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
“Non voglio personalizzare. Tra l’altro oggi c’è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano”.
Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
“Lo voglio anch’io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all’antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente”.
Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
“L’idea di Ingrao era la “centralità del Parlamento”. Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi”.
E’ questa la vera ragione del suo “no”?
“E’ fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono “designati” dagli elettori non possono essere “eletti” dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio”.
Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
“Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni”.
Dal governo non può venire niente di buono?
“Perché? Sono buone le unioni civili, l’autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del “a casa nostra” verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto”.
Professore, non l’ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
“Potrei dirle che l’antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l’ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica”.
A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
“Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?”.
Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
“C’è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono sempre tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell’esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l’eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell’oggi e improvvisa.”
(la Repubblica, 26 maggio 2016)

 

 

 

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Piccola immersione notturna

Ieri sera sono andato in municipio, al Consiglio comunale sul bilancio triennale preventivo e sul corrispondente piano delle opere pubbliche. Un consiglio per niente secondario. Ma ci sono stato solo un’ora, dalle undici a mezzanotte, ed erano già nel cuore del dibattito o quello che doveva essere tale. Ci voleva infatti un vignettista o ci vorrebbe qui un buon scrittore satirico per riprendere, con cura e leggerezza, facce, atteggiamenti e parole. Infatti, a Porto già in passato non è mancata la macchietta tra i consiglieri, ma era unica e seduta al banco dell’opposizione, ora sono più assortite. Ieri sera per esempio c’era Paolo Scarpa che stava più in piedi e fuori dalla sala che al suo posto e che commentava spesso a voce alta, con vaga noncuranza per l’assemblea. Ma c’era soprattutto il sindaco Maria Teresa Senatore che masticava qualcosa – spero chewing gum – e trafficava col suo smartphone, senza mai dare una palese attenzione a chi parlava in quel momento. Un atteggiamento ineffabile. In compenso, accanto a lei, il presidente Gastone Mascarin troneggiava, col suo indubbio physique du rôle. Almeno lui, mi sono detto, ha il doveroso rispetto del proprio ruolo.

In quell’ora hanno parlato in sequenza l’assessore Angelo Morsanuto, rispondendo con sciatteria ad alcune domande che non avevo udito e che non ho certamente capito dalle risposte. Poi (ma l’ordine potrebbe essere diverso, che tanto il prodotto non cambia) è stato il caso del consigliere Luciano Gradini, capo del nuovo gruppo misto, che ha sostanzialmente raccontato le ragioni del suo distacco dalla maggioranza che non l’avrebbe praticamente mai ascoltato (ma sullo stile politico di questo consigliere bisognerebbe scrivere un saggio che attraversa quarant’anni della vita politica portogruarese). Tra i punti citati, emerge con chiarezza la sua opposizione al parcheggio di via Valle. (Da smisurato ottimista, ho pensato che le vie delle alleanze sono infinite!)

Quindi ha parlato Marco Terenzi criticando l’impostazione di fondo del cosiddetto piano triennale dell’Amministrazione: “un bilancio piatto, senza nessuna visione strategica (…), nessuna certezza per la cultura e per l’ambiente, l’ambiente…” (ribadito). Il capogruppo del “Csx Avanti insieme” ha tratteggiato anche il quadro storico e giuridico della torre campanaria, il campanile simbolo della nostra città. E qui almeno ha trovato l’attenzione dell’assessore Bertilla Bravo, che pareva anche un po’ sorpresa di tante notizie.

A ruota hanno poi parlato prima Claudio Fagotto del M5S, fermo a ricordare i difetti gravi degli amministratori precedenti, una sorta di apologia indiretta degli amministratori attuali che nove mesi dopo le elezioni non pare più necessaria se non a qualche imprevedibile futuro politico. Costui va però segnalato per aver affermato che finché ci sarà lui l’ambiente sarà tutelato. Siamo a posto. Quindi la capogruppo leghista Alessandra Zanutto ha avuto occasione di farci sapere che lei raccoglie nel suo giro settimanale, tutti i sabato dalle 9.30 alle 11, i sentimenti dei commercianti e che questi si dichiarano molto contenti della nuova viabilità in centro. Quando stava parlando Cristian Moro, ma verso la fine, assieme a Patrizia Daneluzzo me ne sono andato. Stava infatti raccontando come i vecchi amministratori ascoltassero la gente nei vari incontri, ma facendo poi quello che volevano loro. Non so se fosse consapevole dell’implicito apprezzamento rispetto all’andazzo che si è avviato. Mentre parlava ho pensato che dopo l’uscita di Gradini, il peso del suo voto e degli altri consiglieri della maggioranza è notevolmente cambiato, chissà cosa potrà fare adesso. E se non riuscirà con questa maggioranza avrà molto tempo per passare al Gruppo Misto e giocarsela sui numeri, praticamente alla morra.

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