Guerre di religione? E’ un problema d’interessi

Sul tema delle cosiddette guerre di religione vorrei evitare collegamenti a pensatori troppo laici ed illuministi, così riporto la voce di Georges Corm, definito un “eclettico intellettuale cristiano” dal quotidiano cattolico Avvenire che la riporta. (Le evidenziazioni sono mie.)

Medio Oriente – Chi strumentalizza le fedi
di Chiara Zappa
Dacca, Istanbul, Nizza. E ancora le vittime di Bruxelles come quelle di Tunisi, il Bataclan come il bar Pulse, a Orlando: l’attualità ci obbliga a una terribile contabilità di morte che sembra non doversi esaurire mai. La scia di terrore a matrice fondamentalista che sta insanguinando il mondo dà le vertigini e porta inevitabilmente argomenti all’interpretazione di chi, dai salotti tv ai think tank geopolitici, mette in relazione la violenza con un insanabile conflitto tra culture e religioni.
La teoria dello scontro di civiltà, esposta da Samuel Huntington nel suo saggio del 1996 e poi diffusasi con stupefacente fortuna dal mondo accademico a quello dei media, è oggi alla base di tutte le letture più accreditate delle tensioni che attraversano il presente, le quali si auto-ammantano di motivazioni confessionali e affermazioni identitarie. «Ma cascare in questa trappola significa fare proprio il gioco dei terroristi»: ne è convinto Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali (tra cui Unione Europea e Banca Mondiale), che ad analizzare le dinamiche dell’area mediterranea ha dedicato decenni di studi.
Per l’eclettico intellettuale cristiano nato ad Alessandria nel 1940, ministro libanese delle Finanze dal 1998 al 2000, docente in varie università anche europee – attualmente alla Saint Joseph University di Beirut –, a cent’anni esatti dagli accordi di Sykes-Picot che spartirono tra Francia e Regno Unito le province arabe dell’impero ottomano, gli effetti nefasti della famosa «linea nella sabbia» che gettò le basi geopolitiche dell’odierno Medio Oriente restano evidenti nel caos endemico della regione. Un’instabilità che ha ben poco a che vedere con le presunte differenze irriducibili tra civiltà, come ha sostenuto in testi come Oriente Occidente. Il mito di una frattura (Vallecchi, 2003), Il mondo arabo in conflitto (Jaca Book, 2005), o il più recente Il nuovo governo del mondo (Vita e Pensiero, 2013).
Ma è nel saggio Contro il conflitto di civiltà. Sul «ritorno del religioso» nei conflitti contemporanei del Medio Oriente, ora tradotto da Guerini e Associati (pp. 234, euro 19,50), che Corm si dedica in modo sistematico a confutare letture considerate troppo semplicistiche e “comode” di fenomeni dalla ben più profonda complessità storica, economica e politica.
Lei cita alcuni eventi della storia recente che hanno effettivamente riportato la religione sulla scena globale: perché sostiene che siamo di fronte non a un «ritorno del religioso» bensì a un «ricorso al religioso» per fini strumentali?
«Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo assistito all’emergere di Stati che pretendevano di essere portavoce di una religione: pensiamo al Pakistan, basato sull’islam, o a Israele, costituito sull’ebraismo, malgrado il fatto che i fondatori si sentissero laici. Ma anche all’Arabia Saudita, dove il sostegno degli Usa permise alla famiglia Saud in alleanza con la corrente wahhabita di creare un regno fondato sul radicalismo sunnita, la cui ricchezza dovuta al petrolio ha poi pesantemente influenzato le politiche nell’area. È la stessa logica che spiega l’addestramento da parte degli Usa di combattenti islamisti in funzione anti-sovietica in Afghanistan, che pose poi le basi di Al Qaeda: un frutto della strategia del consulente di Jimmy Carter per la sicurezza nazionale, Zbigniew Brzezinski, che puntava a strumentalizzare la religione contro il comunismo. Ecco allora il punto: in tutti questi casi, la fede viene chiamata in causa per essere messa al servizio di altri interessi».
L’analisi politica oggi si concentra però su fattori come l’identità e la cultura, più che sulle cause profane dei conflitti…
«Sebbene sia un dato di buon senso il fatto che le guerre provengano dall’ambizione umana – per l’accesso alle risorse, alle rotte strategiche, agli scambi economici internazionali – la cornice intellettuale fornita da Huntington, in sostanza una rivisitazione della vecchia tesi razzista del XIX secolo che vedeva la contrapposizione tra ariani e semiti, ha dato legittimazione a una serie di scelte geopolitiche, in primo luogo le invasioni statunitensi di Afghanistan e Iraq. In questo contesto, i princìpi del diritto internazionale sono ormai applicati in modo differente a seconda dell’identità confessionale dei diversi Stati e della loro relazione con le potenze occidentali».
Per non parlare di chi usa la fede per mobilitare le masse…
«Esatto. Con l’aggravante che, più essa viene utilizzata come legittimazione per atti di governo, interni o internazionali, meno i cittadini osano mettere in discussione tali atti. Si tratta di un metodo efficace per paralizzare lo spirito critico del popolo nei confronti del potere, in Occidente come in Medio Oriente. Dopo lo choc delle guerre mondiali nel Novecento, quando ci si scontrò drammaticamente con i limiti dei valori illuministi e marxisti, si è verificato uno spostamento verso il multiculturalismo: il concetto dell’uguaglianza di fronte alla legge è stato abbandonato a favore del “diritto ad essere diversi”, come forma avanzata di democrazia in grado di assecondare le specificità etniche o religiose dei cittadini. Questo, tuttavia, spiana la strada a molte ambiguità. Ad esempio, secondo alcuni gli immigrati non hanno il dovere di integrarsi nei contesti di accoglienza, poiché bisogna permettere loro di affermare la propria identità. Ma è un concetto pericoloso».
È ciò che lei definisce il rischio della comunitarizzazione del mondo: che cosa intende?
«La storia dimostra che, quando le differenze di ogni singola comunità vengono organizzate politicamente all’interno di una società, si va incontro a tensioni permanenti: lo osserviamo in contesti che vanno dal Belgio (con i contrasti tra fiamminghi e valloni) all’Iran (con la fossilizzazione dell’identità sciita dopo la rivoluzione del ’79) e in modo eclatante nel mio Libano, dove vige una divisione anche istituzionale tra cristiani, musulmani e gruppi diversi che fanno riferimento all’islam. Un meccanismo che, più che tutelare le diversità, alla fine sembra favorire il divide et impera. Io sostengo per esperienza che, se da una parte è sacrosanto perorare i diritti delle minoranze, per esempio quelle oggi minacciate in Medio Oriente, dall’altro la cornice di uno Stato laico è indispensabile alla democrazia».
(Avvenire, 27 luglio 2016)
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Una risposta a Guerre di religione? E’ un problema d’interessi

  1. Adriano Zanon scrive:

    Ma non posso ignorare questo articolo di Angelo d’Orsi. Buona lettura.
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    Gli intellettuali di «armiamoci e partite»
    di Angelo d’Orsi

    Il mondo sembra non avere più senso, e nella confusione delle nostre menti, nell’angoscia dei nostri cuori, nell’ansia che ci accompagna ormai in ogni situazione pubblica (da un treno a un ristorante affollato), ci abbandoniamo alla deprecazione, all’invocazione a qualche entità superiore, minacciamo di ritirarci nel cenobio, piangiamo le vittime di tutti i giorni di questo terrore cieco. Tutto ciò è legittimo e comprensibile. Persino giusto, almeno in quanto serve a scaricare le nostre paure. Eppure dobbiamo conservare accanto all’occhio caldo dei sentimenti, quello freddo della razionalità.

    Non dobbiamo smettere di ricordare, a noi stessi e agli altri, che l’Afghanistan è stato demolito dagli Stati uniti foraggiando i Taliban, facendo prosperare Al Qaeda, salvo poi punire un intero Paese per catturare Osama bin Laden, fino a poco prima amico dei Bush & Co. In Iraq sappiamo come è andata: si cercavano anche là gli amici di Osama, poi le «armi di distruzione di massa», e in mancanza degli uni e delle altre, a Washington si decise di procedere comunque contro «Saddam, minaccia per il mondo» e perché «gli iracheni meritano la democrazia».

    Sulla base del successo per l’eliminazione di Saddam, con una impiccagione coram populo si decise che si poteva bissare con Gheddafi. In questo caso furono le potenze europee, Francia e Gran Bretagna, ad intervenire, trascinandosi dietro gli alleati, timorosi che Londra e Parigi potessero collocare le loro imprese estrattive in posizioni di vantaggio sulla concorrenza, e Gheddafi risultava un osso duro per tutti gli occidentali. La sua uccisione è un capitolo della barbarie dell’Occidente. Infine, sullo stesso modello Saddam-Gheddafi si era puntato l’obiettivo su Assad, un altro dittatore da eliminare per restituire la democrazia al suo popolo.
    E l’Isis che colpisce a destra e manca, e dove non colpisce comunque lucra del terrore, da chi è stato sostenuto negli scorsi anni, fino a non troppo tempo fa? Dagli occidentali, Usa in testa, fino almeno alla Turchia di Erdogan, che ora si dedica amorevolmente a custodire il suo popolo, sgominando il “nemico interno”, vero o immaginario, sulla base di un disegno politico preciso, semplicemente di tipo dittatoriale.

    Rispetto ai tanti progetti Usa-Nato, sappiamo come è andata. La vita non assomiglia più a niente, scriveva Tahar Ben Jalloun dopo una visita a Baghdad, qualche anno fa; una frase che vale per Kabul, Baghdad, Tripoli, Damasco, Aleppo, e l’elenco può continuare, in una lista collana di morte disperazione dolore. Insensatezza. Le armi che vengono impiegate in quei luoghi sono quasi sempre nostre. I mercenari inviati a combattere per la democrazia sono perlopiù sul libro paga di agenzie occidentali. La grande regia è a Washington, a cui si accoda senza fiatare Londra (Tony Blair che chiede scusa ammettendo di aver sbagliato nel 2003 è un po’ penoso).

    Seguono, gli altri, praticamente tutti gli altri, nel coacervo criminale della Nato, partecipano alla mattanza, ora frenando, ora accelerando, a seconda degli interessi nazionali; che sono poi gli interessi di gruppi dominanti, legati al mercato delle armi, a interessi finanziari e imprenditoriali.

    Ma naturalmente i morti non sono tutti uguali, come uguali non sono i vivi. E lo sdegno per la Francia, per la Germania, e così via non si riproduce per le notizie che giungono dall’Africa, dal Medio e dall’Estremo Oriente, a cominciare dallo stillicidio di nefandezze portate avanti dai governanti israeliani a danno dei Palestinesi. E la nostra pietas di occidentali viene opportunamente distribuita, in base a convenienze, dei media, dei governanti, dei potenti. Ma anche in base alla nostra capacità di attenzione critica, che lo stesso susseguirsi di eventi tragici finisce per abbassare, fino al suo obnubilamento. E sta proprio qui il problema. La perdita dell’attenzione critica.

    Certo, noi comuni cittadini non siamo in grado di fare alcunché contro i governanti stranieri. Ma possiamo almeno tenere sotto osservazione e sotto pressione i nostri. E possiamo, anzi dobbiamo, puntualmente sbugiardare i giornalisti, commentatori, intellettuali che, per stupidità, ignoranza, disonestà intellettuale, si sono resi complici di menzogne e inganni in tutti questi anni, sostenendo la favola velenosa della esportazione della democrazia, credendo o fingendo di credere a Bush, a Blair, a Sarkozy, e compagnia cialtrona. «Io so», diceva Pasolini, «so i nomi, ma non ho le prove», in riferimento alle colpe della Dc.

    Noi abbiamo le prove. Basta sfogliare i giornali dei 20/25 anni alle nostre spalle, e oggi con la Rete tutto è assai agevole. Andiamo a rileggere i commenti, le analisi, e le pseudo-verità di questo esercito degli «armiamoci e partite», le grottesche macchiette di «eroi in pantofole», che hanno incitato l’Occidente a «difendere i suoi valori», a suon di bombe. Andrebbero invitati quanto meno a usare il loro intelletto in modo meno disonesto, e a fare una robusta autocritica, pur nella convinzione che non la faranno, ma almeno ricordargli cosa hanno scritto e detto li inchioda alle loro responsabilità. Costoro, a furia di predicare vento, hanno raccolto tempesta. Purtroppo questa tempesta, non solo colpisce e travolge tutti, indiscriminatamente, colpevoli e, soprattutto, innocenti; ma suscita mostruosi giochi dell’orrore, imitazioni sadiche, e un nichilistico desiderio di morte, che prende a oggetto gli altri e sé stessi.

    E mentre orrore e terrore si propagano, a noi che rimane? Rimane il dovere della denuncia, il compito della documentazione, l’impegno della militanza dalla parte degli innocenti. A cominciare da quei bambini siriani che, facendoci versare più di una lacrima, hanno issato cartelli con le immagini dei maledetti Pokemon, e un amaro invito: «Venite a cercare anche noi».

    (il manifesto, 26 luglio 2016)

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