Reddito per tutti (coming soon)

L'economista Christian Marazzi

L’economista Christian Marazzi

In Svizzera si è tenuto all’inizio di questo mese un referendum sul reddito minimo o di cittadinanza. E’ stato bocciato, ma ha avviato una discussione che in Italia non ha quasi avuto nessun eco. D’altronde, come si accenna anche qui, la stampa economica più attenta e quindi il mondo della teoria economica, hanno appena cominciato ad annusare il nuovo oggetto. Uno dei miei autori preferiti, Christian Marazzi, in pochi giorni è tornato sul tema almeno con un paio d’interviste. La prima a commento del referendum, la seconda sull’idea del governo Renzi di anticipare i pensionamenti facendo indebitare i cittadini coinvolti. Le riporto e le evidenzio entrambe (ma i testi, come sempre con Marazzi sono tutti interessanti, dall’inizio alla fine).

Reddito per tutti: prossimamente su questi schermi
intervista a Christian Marazzi, a cura di Cristina Morini
Ti chiedo innanzitutto di inquadrare, a livello generale, il referendum sul reddito per il quale si è votato in Svizzera il 5 giugno scorso.
La prima osservazione che vorrei fare è che questa iniziativa è partita da un gruppo promotore sganciato da un tessuto sociale, da legami con quelli che chiamiamo “movimenti sociali”. Questo mi porta a domandarmi se programmi di questo tipo non vadano invece sempre ancorati a una spinta che prende le mosse dal basso. La popolazione svizzera ha vissuto, sin dall’inizio, con interesse questo progetto, ma un po’ come fosse caduto dal cielo. Per avere la chance di riuscire ad avviare un serio confronto non si può evitare di partire dai collegamenti reali, concreti, con la società.
La proposta in sé consisteva nella modifica di un articolo della Costituzione elvetica che introduceva il diritto dei cittadini svizzeri a percepire un reddito universale e incondizionato. Tale modifica avrebbe poi trovato concreta attuazione, a diversi livelli, nei prossimi 10 anni. Si puntava innanzitutto a introdurre il principio all’interno della Costituzione, organizzando poi nel tempo l’aspetto più spinoso delle forme di finanziamento. In tutto questo, a mio avviso, il punto più critico e più fragile dell’iniziativa è che comunque si fondava su un’impostazione fortemente redistributiva: dare un reddito incondizionato a tutti i cittadini in sostituzione dell’assetto di assicurazione sociale oggi vigente in Svizzera per quanto riguarda le forme di sostegno al reddito (dai sussidi di disoccupazione all’invalidità alle pensioni sociali). Ora, lo stato sociale svizzero è tra i più sviluppati e anche tra i più complessi in Europa e i cittadini svizzeri, che tra l’altro tendono a essere conservatori, ne sono orgogliosi. Ma in generale le forme di abolizione anche di parti dello stato sociale comportano sempre il rischio di un peggioramento. Ovviamente, non era questa l’intenzione dei promotori perché c’era margine per negoziare tra le prestazioni vigenti e il reddito erogato. Tuttavia, sappiamo bene che le declinazioni del reddito di stampo ultraliberista, alla Friedman, le interpretazioni della destra liberale, puntano a cancellare completamente il sistema di welfare. La proposta si prestava insomma ad alcuni possibili equivoci.
Tuttavia, il referendum ha aperto un dibattito molto interessante, in Svizzera e non solo.
Dal mio punto di vista la campagna è stata un’ottima occasione per porre questioni inaggirabili: innanzitutto, si è sviscerato il tema della precarietà, visto il forte aumento delle forme di lavoro “atipiche” che diventano sempre più “tipiche”. In Svizzera possiamo parlare di una “piena occupazione precaria”, come spesso dico, cioè abbiamo una disoccupazione molto bassa in presenza di un livello crescente di precarietà. Inoltre, si è sentito l’effetto di un dibattito che ci proietta direttamente nella quarta rivoluzione industriale, aprendo il capitolo degli effetti del capitalismo algoritmico: se stiamo alle analisi previsionali della Mckinsey nel giro di un ventennio il 50-60% delle professioni spariranno e questo è un orizzonte con il quale è urgente confrontarsi. Infine, nella discussione è entrato il tema del “finanziamento dell’ozio”. Quest’ultimo aspetto si lega all’impianto che aveva la proposta, come accennavo prima: se tu la imposti in termini distributivi, prevedendo che lo stesso reddito venga finanziato attraverso un prelievo fiscale progressivo sui salari dei lavoratori, ti infili in una posizione scivolosa perché fai virare il discorso verso una contrapposizione tra occupati e non occupati, tra attivi e non attivi, tra chi lavora e chi “non fa nulla”. Gli occupati percepiscono la tassazione che viene imposta per finanziare il reddito come una sottrazione del loro salario, a cui non sono invece tenuti i disoccupati, i quali ottengono per intero la cifra (2.500 franchi elvetici, circa 2.250 euro, per gli adulti e 625 franchi, 560 euro, per i minorenni, ndr). L’effetto finale che si propone è assolutamente corretto dal punto di vista dei principi perché punta a una perequazione tra bassi e alti salari, dunque a una riduzione del problema delle diseguaglianze. Tuttavia, il reddito non può essere posto in termini sostitutivi ma sempre aggiuntivi.
Quello che dici ci proietta a pensare il reddito come “reddito primario”…
Questo ci porta soprattutto a ragionare sul fatto che c’è sempre una quota di lavoro invisibile: il lavoro di cura, il lavoro delle donne, il lavoro di riproduzione sono esempi centrali, cui si aggiungono oggi le forme algoritmiche di “estrazione” del lavoro. Il reddito di cittadinanza – per tornare a una dizione che abbiamo molto adoperato proprio per segnalare il meccanismo dell’inclusione, nello spazio pubblico, che il reddito deve garantire – va pensato dentro questo quadro. Allora, non è sostituzione di lavoro salariato, né viene inteso come sottrazione di salario, ma è diretta distribuzione di un valore del lavoro non salariato che tutti e tutte facciamo, un lavoro in aumento, disperso nel corpo vivo della società. L’errore della proposta svizzera, come di altre, sta qui: nel porre la questione della redistribuzione sempre e solo a partire dal riferimento al lavoro salariato, che tra l’altro si sta sbriciolando progressivamente con l’effetto logico che si riduce pure la base del finanziamento. Ecco perché è fondamentale insistere su un’altra interpretazione, spostarsi lungo tutt’altra direttrice: il reddito non è sostituzione dello stato sociale esistente ma è monetizzazione di lavoro gratuito, distribuzione coerente con i nuovi modi di produzione e di creazione della ricchezza.
Da queste ispirazioni possiamo fare discendere anche la proposta di un Quantitative easing for the people, a cui da tempo stai pensando. Essa è entrata nel dibattito sul referendum svizzero come possibile forma di finanziamento?
Il ragionamento sul Quantitative easing non è entrato a fare parte delle riflessioni sulle possibili forme di finanziamento del reddito svizzero. Tuttavia, io penso proprio che il Quantitative easing for the people vada inteso come una possibile risposta al nuovo ordine del discorso e ai problemi che sottolineavo, dal tema della produttività sociale a quello della gratuità del lavoro contemporaneo. È una risposta in termini di creazione monetaria erogata dalla Banca centrale europea e va ad aggiungersi a quelle che sono le prestazioni dei vari sistemi sociali nazionali. Considero fondamentale fare riferimento a tale dibattito perché esso parte dall’osservazione concreta della stagnazione della domanda e dalla necessità di rilanciare i consumi.
Ribadisco inoltre che parlare oggi, seriamente, di reddito di cittadinanza significa soprattutto tenere in conto i nuovi processi di creazione del valore. L’impostazione “di principio” della proposta di reddito in Svizzera risentiva invece molto delle suggestioni della filosofia morale, à la Van Parijs. Tali proposizioni si sono progressivamente sviluppate proprio in termini redistributivi, mostrando una modalità che forse è troppo forte definire auto-contraddittoria. Certamente, poiché si basa sulla vigenza e sulla centralità del lavoro salariato, è corretto dire che è un impianto che ha fatto il suo tempo.
Il risultato del voto come lo interpreti? Per molti, nonostante la proposta non sia passata, si è trattato di un esito incoraggiante.
È molto importante che si sia avviato il discorso, come sostenevo, anche se a mio avviso il risultato (23% di sì) non è eclatante: l’avrei considerato un successo qualora si fosse raggiunto un 30% di adesioni alla proposta. Tuttavia, è indicativo di un clima che sta cambiando: l’Economist o il Financial Times ne hanno molto parlato il che significa che in qualche misura esiste ormai una diffusa sensibilità riguardo l’ineluttabilità del reddito. Questa prova della Svizzera è stata un po’ come il trailer di un film prossimo a uscire nelle sale, dopo il quale a un certo punto compare la scritta coming soon. Del resto, il capitalismo stesso è consapevole del rompicapo della produttività di fronte al quale ci troviamo. Come calcolare la produttività contemporanea? E perché è così bassa? Il punto è, chiaramente, che la produttività che conta di più, il lavoro che facciamo in rete, nelle varie connessioni che agiamo, imprescindibili dentro le nostre vite, nel lavoro sociale, non è calcolabile perché è “fuori”. Dunque, non c’è modo di farla rientrare nel calcolo statistico. Questo è un grosso problema e l’Economist, il Financial Times se ne rendono conto per primi, perciò guardano a tutto questo e alla prospettiva del reddito con un misto di apprensione e di interesse insieme. Quindi, insomma, piano piano i nostri discorsi sul reddito guadagnano legittimità.
D’altro lato, lo stato sociale così come è adesso, forgiato sul fordismo, sta andando incontro a seri problemi di finanziamento poiché l’architettura del welfare risente della crisi del lavoro salariato. Dunque è assolutamente necessario intervenire con una nuova ingegneria sociale per tamponare tale punto di blocco. La bizzarria è che, di solito, chi attacca il reddito di base contemporaneamente vuole anche lo smantellamento dello stato sociale e appoggia le politiche di austerity e il rigore.
Alla fine, verrebbe da dire, anche se pare un paradosso, non è così semplice “dare” del denaro alle persone, tra etica del lavoro, competizioni, diseguaglianze…
Abbiamo assoluta necessità di avviare una riflessione sul significato sociale del denaro. Penso ad alcuni studi della sociologa americana Vivian Zelizer: non è vero che il denaro è un equivalente generale, ogni gruppo sociale ne fa un uso diverso e dà al denaro un significato, un senso diverso che è frutto dei vissuti, delle proiezioni, del sistema di valori del singolo o della singola. Zelizer lo ha studiato rilevando interessanti discrepanze anche sulle spinte all’acquisto che dipendono dal lavoro che fai, dal tuo campo di interessi, da tensioni affettive. Del resto, io stesso mi ricordo che a casa mia si facevano buste differenti per i soldi destinandoli ai vari scopi, dalle vacanze ai compleanni: ognuna di queste buste non conteneva solo una quota di denaro, conteneva un’idea, un simbolo, un valore diversificato che andava ben oltre quello del denaro in sé. Oppure, per fare un altro esempio, nelle comunità ebraiche è sempre stato ritenuto fondamentale tenere da parte una cifra per garantire funerali dignitosi a chi se ne andava ed è da lì che prende avvio l’idea delle assicurazioni sulla vita.
Un’ultima cosa: per immaginare seriamente il reddito bisogna soprattutto entrare nell’idea di ricostruire una comunità di rischio. La diseguaglianza crescente, l’individualismo connesso ai sistemi di precarizzazione giocano contro la messa in comune del rischio, “privatizzano” il rischio, lo addossano alla singola persona. Noi dobbiamo ritornare a sentirci parte di una comunità di rischio e trovare nuovi modi e strumenti per difenderci insieme.
(da www.effimera.org, giugno 9th, 2016)
«Tutta la vita con il debito grazie al piano Renzi sulle pensioni»
intervista a Christian Marazzi, a cura di Roberto Ciccarelli
Cosa pensa della proposta del governo Renzi?
Sembra di sognare. Devo dire che una cosa del genere fin’ora non l’ho mai vista proposta e tantomeno applicata altrove. Per il momento prendiamola solo come idea. Siamo nel pieno della bioeconomia nel senso della messa a valore finanziario della vita. Quella del governo italiano è una pura e semplice titolarizzazione dei diritti sociali. La sua logica assomiglia a quella delle strategie finanziarie che hanno portato alla catastrofe dei mutui subprime. Si vuole coinvolgere le banche e dare di nuovo una bella spinta alla privatizzazione di parti dello stato sociale.
Quali rischi potrebbe comportare?
Quello di una cartolarizzazione sull’onda di quanto già sperimentato e che peraltro è una pratica ricorrente: questi titoli di credito cartolarizzato saranno sicuramente differenziati al loro interno, per quanto riguarda il rischio di rendimento e di ripagamento. La cartolarizzazione potrebbe rendersi necessaria per permettere alle banche di far fronte alla difficoltà di rendere remunerativi i titoli di credito in un periodo di tassi praticamente nulli, se non proprio negativi. È possibile che le banche tenteranno di aumentare i volumi degli anticipi pensionistici liberando i bilanci attraverso la cartolarizzazione.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini sostiene che questa non è una penalizzazione ma una rata di ammortamento, varierà a seconda della categoria dei lavoratori coinvolti e non graverà sui loro eredi.
La pensa così perché altrimenti non l’avrebbe proposta. Mi sembra evidente che il credito e il debito che permetteranno di anticipare e rendere flessibile il pensionamento graveranno sui beneficiari. Dovranno pure pagarlo, anche nell’arco di vent’anni, ma dovranno restituirlo. Con i livelli di pensione che ci sono mi chiedo se questa non sia un’istigazione a lavorare in nero. Sono pur sempre somme che calcolate sull’arco di un anno possono essere importanti per una persona che ha una pensione bassa.
È un altro passo per sostituire l’uomo indebitato al lavoratore salariato nel welfare europeo?
Si è quello che intendo per bioeconomia. La bioeconomia ruota attorna all’uomo indebitato ed è la forma di governance della società attraverso la generalizzazione dell’indebitamento. Vedo un forte parallelismo tra i giovani che si indebitano per studiare negli Stati Uniti e gli anziani che si indebitano per potere smettere di lavorare in Italia. Ormai il nostro ciclo di vita attiva inizia con il debito per finire con il debito. I diritti sociali che abbiamo maturato nel corso del Novecento, a partire dalle lotte dei movimenti operai, si stanno trasformando in titoli finanziari. Nel settore immobiliare, nel credito a consumo o in quello previdenziale, la logica è sempre la stessa: anticipare in modo tale da ipotecare il futuro.
Come giudica la politica previdenziale dalla riforma Fornero a oggi?
È costituita da misure tampone per tenere testa a un disastro creato attraverso l’esperimento del governo tecnico Monti che ha commissariato l’Italia con il Fiscal compact. Bisogna capire che il sistema pensionistico non è riformabile nei termini della Fornero e non può esserlo nemmeno con la finanziarizzazione. Lo stato sociale è una cosa molto articolata e metterci mano con questi espedienti denota a volte creatività ma il più delle volte porta a alchimie improvvisate e pericolosissime che destano preoccupazione. È sempre la stessa storia: in una situazione politica a rischio di Brexit e della deflagrazione dell’Ue, si continua a rispondere alle rivendicazioni di sovranità nazionale di destra con misure che non fanno altro che rafforzare vie d’uscita nazionalistiche a problemi che sono strutturali e di fatto riguardano tutta l’Europa.
Cosa dovrebbe fare il governo?
Chiedere l’istituzione di un sistema di mutualizzazione e di intervento in termini di redistribuzione e monetizzazione delle rendite in Europa.

I nati dal 1980 in poi non avranno pensione o dovranno lavorare fino a oltre 75 anni. La finanziarizzazione della previdenza cosa comporterà per loro?

Anche questo è un problema europeo: il cumulo di lacune contributive dovute alla precarizzazione del lavoro riguarda sia l’Italia che addirittura la Svizzera dove vivo. Ha un margine di sopportabilità che non va oltre il 2020. Il finanziamento di questo sistema pensionistico si rivelerà sempre più problematico. Perche il lavoro precario è per definizione l’opposto del lavoro salariato sulla base del quale sono stati costruiti i nostri stati sociali. Più si erode il lavoro salariato, più si erode il finanziamento dello stato sociale. Il finanziamento dell’intero sistema della sicurezza sociale e, in particolare, della pensione è un problema inaggirabile.
Qual è soluzione per lei?
Il reddito di base incondizionato permette di colmare queste lacune ed evitare che portino all’esclusione dal sistema delle tutele sociali. Questo è il senso del referendum che si è tenuto in Svizzera. Il problema non può essere più rimandato. Siamo entrati in una fase in cui la riforma del sistema previdenziale va veramente portata a livello europeo. Sul piano nazionale è praticamente impossibile effettuare riforme in positivo, ma solo in termini repressivi o semplicemente di taglio e smantellamento del welfare.
(il manifesto, 16 giugno 2016)

 

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