Il riempitivo

Il pomeriggio di lunedì 17 ascoltando dalla Rai3 il programma radiofonico Fahrenheit, ho sentito la Presidente della nostra Provincia Francesca Zaccariotto che – in dialogo con lo storico Luciano Canfora sulla questione della proposta esclusione dalle biblioteca pubbliche del nostro territorio dei libri dei firmatari di un appello del 2004 a favore di Cesare Battisti – prendeva le distanze dal suo Assessore alla Cultura, Raffaele Speranzon. Purtroppo per noi della provincia, il caso rimane però di risonanza nazionale.

Poiché non conoscevo quest’uomo politico, ho navigato un po’ nel web e ben presto ho trovato un profilo di quand’era consigliere comunale di Venezia: “Ama la lettura, lo sport e la tecnologia. I suoi scrittori preferiti sono Junger, Solgenitsin, Prezzolini, Sprengler e Veneziani. Gli sport che continua a praticare sono il basket, il calcio, il tennis e lo sci.” Così si legge all’inizio.

A parte tale Sprengler – che senz’altro è Oswald Spengler, il celebre autore del Il tramonto dell’Occidente, protagonista di un caso culturale notevole negli anni Venti e considerato una figura molto influente su pensatori la cui fortuna è ancora tra noi, ma di cui qui non si sa e non si corregge neppure il cognome vero – è chiaro che ci troviamo di fronte a riferimenti culturali piuttosto mediocri, oltre che di destra, e fermiamoci qui.

Io mi chiedo solo questo: come si fa a ridurre l’Assessorato alla Cultura di una provincia come quella di Venezia, con la sua storia, le sue biblioteche, la sua necessità di alta rappresentanza, ad un riempitivo per un (senz’altro) buon sportivo?

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No se deve badar all’impostura

Podemo ben ruzar quanto volemo
De sta nostra infelice condizion,
Dei mali de sto mondo buzaron,
Ch’alla passion bisogna che ghe stemo.
Tutti sotto sta leze nú nascemo,
Tanto nasce ‘l pittocco che ‘l riccon,
No va esente ‘l virtuoso né ‘l cogion,
Ma l’ha d’andar cussí finché vivemo.
No me lagno del mal della natura,
Se far de meggio no la ga podesto,
Me diol del mal ch’ha fatto l’impostura.
Ma ‘l filosofo vero anca in questo
S’ha d’acquietar, e con disinvoltura
Andar in mona, e aver in culo ‘l resto.

Giorgio Baffo (1694-1768)

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Il binomio

«Giovani, combattete sempre per la libertà, per la pace, per la giustizia sociale. La libertà senza giustizia sociale non è che una conquista fragile, che per alcuni si risolve semplicemente nella libertà di morire di fame. Libertà e giustizia sociale sono un binomio inscindibile. Lottate con fermezza, giovani che mi ascoltate, e lo dico senza presunzione, ma come un compagno di strada, tanto mi sta a cuore la vostra sorte. Io starò sempre al vostro fianco.»

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica italiana (dal discorso augurale 1983).

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“Meglio la terra dei soldi”

“… così i contadini veneti dicono no al cemento.”

E proprio così titola La Repubblica di oggi, a pagina 22, un articolo di Francesco Erbani che si può leggere anche sul sito all’indirizzo indicato qui sotto.

E’ la storia di due famiglie, i Favaro di Morgano, un comune trevigiano, e i Caldato di Treviso. Sono alle prese con la volontà delle rispettive amministrazioni comunali di cambiare la destinazione dei loro terreni da agricola ad edificabile, con tutti i vantaggi economici che sappiamo: il prezzo del terreno aumenterebbe infatti da cinque a dieci volte. Ma loro sono contadini e non ne vogliono sapere.

«Rischiamo di perdere la nostra terra e la nostra libertà. Ma ancora preserviamo il nostro modo di pensare e di vivere. I soldi? Non possiamo portarceli dietro quando saremo morti».

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Ritorno al 1847

Al momento del passaggio dal sistema “5 per 3” al sistema “6 per 3”, “le parti   valuteranno anche l’eventuale sperimentazione, per un periodo non inferiore ai 12 mesi” di uno schema che prevede turni di 10 ore (due al giorno) per sei giorni alla settimana. I lavoratori che lavoreranno dieci ore per quattro giorni potranno riposare i successivi tre. L’azienda avrà mano libera sugli straordinari: potrà ordinare ai lavoratori fino a 120 ore all’anno (oggi sono 40) e contrattare con i sindacati altre 80 ore per ogni lavoratore.

Così si legge su La Repubblica di oggi (pp. 2-3) a proposito del nuovo contratto di Mirafiori.

Per la storia: il passaggio alla giornata lavorativa di dieci ore avvenne in Inghilterra dal 1° maggio 1848 a seguito di una legge del 18 giugno 1847. Nel frattempo si stima che la produttività industriale sia aumentata di 150 volte, ossia basta un minuto di lavoro per fare ciò che allora si faceva in due ore e mezza.

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Buona e felice decrescita!

Lo so che Natale è una grande festa di speranza. Per tutti, cristiani e non, è un momento di ripartenza, ma purtroppo siamo dentro tempi bui e per uscirne bisogna essere assolutamente realisti. Una buona iniezione di realismo è l’ultimo libro di Marco Revelli (Poveri, noi – Einaudi, pp. 127 , euro 10.-).

La fotografia non è bella da vedere perché “l’Italia non è come ce la raccontano, abbiamo creduto di crescere e stiamo declinando, la nostra presunta «modernizzazione» è un piano inclinato verso la fragilità e l’arretratezza. E’ nello spazio sempre più ampio che si apre tra presunto benessere e fatica quotidiana del vivere crescono l’invidia, i rancori, le intolleranze.”

Revelli dunque non ci mette insieme solo dei numeri ma ci spiega come questi siano alla base degli umori sociali e politici di questi tempi. Impoverimento e diseguaglianze crescenti sono un terreno fertile per le peggiori soluzioni politiche, da sempre.

Che fare? Intanto, prender atto che siamo su un piano inclinato, senza tante piroette per far finta che si riesce a stare bene in piedi. Poi valutare attentamente come rimetterci in piano. Certo, quasi tutti gli opinion makers ci dicono quotidianamente che dobbiamo tornare a crescere, da Emma Marcegaglia a Pier Luigi Bersani. C’è anche chi pensa a scorciatoie, tipo le grandi opere, cioè grandi spese, attingendo da risorse inesistenti mentre siamo già pieni di debiti. E’ chiaro che non si può continuare a seguire un simile delirio.

Noi pensiamo che la decrescita si possa governare, che il cortocircuito economico tra produzione e consumo possa essere interrotto e che si possano fare delle scelte consapevoli di crescita sociale e civile che passano anche attraverso una decrescita economica, e che questo non sia una strana fantasia ma un grande e consapevole progetto fondato sui processi reali, quindi necessario. Naturalmente è necessario cambiare molto, non poco poco, a partire dall’idea che crescere sempre, crescere all’infinito è bello e possibile.

Ma qui mi fermo, è un tema da affrontare come si mangerebbe (metaforicamente) un elefante, un boccone alla volta.

Intanto faccio a tutti noi i migliori auguri di una BUONA E FELICE DECRESCITA!

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Se non ora, quando?

Ivo Simonella ed io su La Città Futura di ottobre abbiamo pubblicato un articolo (L’Asvo ad una svolta – I rifiuti come bene comune) dove facevamo delle precise proposte sulla ‘governance’ dell’Asvo, alla vigilia di alcuni cambiamenti societari previsti nel 2011 ed imposti per legge. 

Leggo oggi su NordEst, l’inserto de Il Sole 24 Ore, la notizia che la Friulia, la finanziaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sta modificando il suo sistema di governo aziendale, non senza difficoltà visti i molti azionisti (da un lato i politici, dall’altro banche e assicurazioni). In particolare, il Cda passa da 11-13 a 7 membri ed il Collegio sindacale da 5 a 3, “nell’ottica della riduzione e del risparmio”, si afferma. E anche il compenso è previsto solo per presidente e vice, mente gli altri cinque consiglieri avranno solo il gettone di presenza. Ci sarà inoltre un sistema ‘duale’, con la gestione operativa in mano al direttore generale e la strategia in capo al presidente.

Insomma, anche le organizzazioni più ricche e complesse cercano di contenere i costi e di aumentare le singole responsabilità. Se non ora, quando?

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La fine del dragoncello

“Ma la vera tragedia non è quello che ha fatto: è quello che non ha fatto. Neanche i suoi più fedeli ammiratori sono in grado di elencare cinque decisioni degli ultimi quindici anni di cui andare davvero orgogliosi.” Così ha scritto in settimana Tobias Jones sull’inglese The Guardian, come riportato da Internazionale N. 877 (pag.13).

Se qualcuno ha pensato di aver vissuto in una commedia, che so… nel grande Falstaff verdiano che riprende Le allegri comari di Windsor di Shakespeare, si è sbagliato di grosso. Dall’estero, con il minimo distacco, ci fan sapere che siamo proprio dentro una tragedia. Secondo me però non di spirito e finale shakespeariano, piuttosto siamo nel teatro dell’assurdo di Samuel Beckett. Ma dove? In Aspettando Godot o in Finale di partita?

La prima opera ha protagonisti Estragone e Vladimiro, inseparabili nella loro inerzia. Mi viene quindi naturale associarmi a questa, mettendo assieme destra e sinistra. Ricordo poi che Estragone è un nome molto evocativo, è infatti anche sinonimo di dragoncello, una pianta che in Italia non è spontanea ma solo coltivata. Ma la seconda opera, oltre al titolo beneaugurante, ha protagonisti che hanno una storia, nonostante la situazione sospesa e assurda del momento.

Forse però in Italia stiamo vivendo contemporaneamente dentro entrambe le tragedie di Beckett, a  testimonianza della sua grande arte e della nostra (italiana) assoluta capacità di adattamento al delirio e all’assurdo.

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Del resto

L’uomo impara ad usare per i propri scopi l’attività degli animali, e così accresce in modo non comune la sua forza. Nell’associazione acquista esperienze sull’alto valore del lavoro umano. Ciò lo porta a non uccidere i prigionieri di guerra, bensì a costringerli a lavorare. Sta qui l’origine della schiavitù, un pilastro del mondo antico e che in forme diverse continua a sussistere fino in età moderna. Oggi in Europa e in America la schiavitù è negata formalmente e di nome, ma nella sostanza – lo sfruttamento di molti uomini da parte di pochi – è rimasta. L’assoggettamento di individui della stessa specie, o di specie diverse, del resto, non è consuetudine esclusiva dell’uomo: la troviamo anche altrove, ad esempio nello stato delle formiche.

Ernst Mach, Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca (1905)

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Sleepy Park

Perché scegliere Eastgate Park? Sul sito si elencano tante buone ragioni per insediarvi un’attività, dalla localizzazione strategica (nel Corridoio 5!), alla presenza della Polins, alla sensibilità ambientale, tra le più importanti.

Eppure non decolla… A causa della crisi, mi direte… Ma la ZIPR (Zona Industriale Ponte Rosso) di San Vito è in tutt’altra situazione. C’è addirittura una lista d’attesa di sette progetti d’insediamento. Sul Nordest, l’inserto settimanale de Il Sole 24 Ore sull’economia triveneta, ieri, a pag. 15, c’era una colonnina con un titolo “Ponte Rosso scommette sull’ecologia”, ma purtroppo non è questa la ragione.

La ragione principale è in una politica industriale arcinota, come conferma la stessa pagina di giornale: “Non soltanto prezzi dei terreni più bassi, ma anche aiuti pubblici di una regione autonoma. Questo mix garantisce alle zone industriali del Friuli Venezia Giulia una maggiore attrattività nei confronti delle aziende non soltanto venete, ma più in generale italiane.”

Soluzioni? Tante, non serve grande fantasia, ecco qualche esempio. La soluzione istituzionale: il portogruarese entra nel FVG. Una di politica regionale: il NE del Veneto ottiene un’attenzione particolare da parte della sua Regione che l’aiuti ad essere competitivo con il vicino FVG. Ma forse potrebbe esserci una soluzione mediana: le due regioni fanno un accordo e promuovono un unico consorzio per gestire industrialmente le due aree limitrofe.

Resta però anche l’ipotesi già fattiva: Eastgate Park sarà solo un interporto, un luogo di connessione logistica, un dormitorio notturno per camionisti. Ci va bene così? Allora continuiamo a dormirci sopra.

Riferimenti:
Zona Industriale Ponte Rosso: http://www.zipr.it/index.asp
Eastgate Park: http://www.eastgatepark.it/perche-scegliere-eastgate.html

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