Forza Zaia!

Dopo due settimane torniamo all’Est più vicino, il nostro. Su NordEst, l’inserto settimanale de Il Sole 24 Ore, oggi si parla sia d’infrastrutture (Mose, strade, Tav) che di green economy.

Sulla prima questione, le infrastrutture, la situazione è chiara già dai titoli: “Per le opere viarie mancano fondi e concertazione – Non c’è accordo tra politica e cittadini – Forse nel 2012 il finanziamento per la Tav”. In particolare, un eminente personaggio della Confindustria veneta, Franco Miller, in un’intervista afferma con sicumera: «La priorità è la Tav. (…) Sulla Tav le decisione sono ormai prese (…). Anche per la Venezia-Trieste sul tracciato rimane poco da definire. Il motivo dei ritardi adesso è solo la mancanza di fondi.»

Sulla seconda questione, la chiarezza si fa certezza. Il Veneto ha attualmente qualcosa come 2.500 occupati diretti e 40 mila nell’indotto del comparto fotovoltaico ed il blocco degli incentivi del decreto Romani colpisce un business di 2 miliardi di euro. Come si vede, cifre precise, non vaghe – d’altronde siamo sul giornale della Confindustria.

Così adesso abbiamo avuto conferma della strategia economica in atto per il Veneto: bloccare l’innovazione e l’occupazione, cercare capitali da buttare per devastare il territorio contro la volontà della gente. E tutto ciò dopo solo il primo anno di Zaia governatore. Ma ne vedremo senz’altro delle altre in questi anni. Non aspetto altro.

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Souvenir da Cernòbil

Guido Ceronetti, con il suo solito stile tagliente, su La Stampa di oggi ci ricorda cosa fu Cernòbil. “Chi ha ricordi ricorda”, inizia, chi non li ha legga tutto l’articolo. Qui riporto solo la fine che ci proietta al futuro.

Dell’atomo-colomba-bianca, delle centrali adulate come pulite e soprattutto pacifiche, non fui mai persuaso. Ormai sono parecchie centinaia (con una Italia che maledice il suo «essere rimasta indietro») e certamente non furono fatte senza motivi di profondità che non riguardano né risparmio né convenienza, e restano dovunque un mistero da indagare e un dramma escatologico. Resta un altro mistero la quantità impressionante di centrali fatte in Giappone (più di cinquanta dove ancora fa vittime il Dopo Nagasaki-Hiroshima). Disciplinati troppo, passivi troppo, uguali troppo, questi sconosciuti giapponesi, oggi attanagliati tra Fukushima e tsunami. Che vogliano, per la seconda volta, lanciare al mondo un avvertimento?
Quanti occhi aprirà il rogo appestato di Fukushima?
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La strada dopo l’apocalisse

L’articolo di Guido Viale pubblicato su il manifesto di ieri e intitolato “L’apocalisse è già qui” è quanto di più critico e saggio ho letto finora in seguito alla tragedia giapponese. Bisogna leggerlo tutto, ma per incentivarne la lettura riporto alcuni brani, ma – ripeto – va letto tutto.

Apocalisse significa rivelazione. Che cosa ci rivela l’apocalisse scatenata dal maremoto che ha colpito la costa nordorientale del Giappone? (…) L’apocalisse ci rivela che la normalità – quella che ha contraddistinto la vita di molti di noi per molti degli anni passati, ma che non è stata certo vissuta dai miliardi di esseri umani che hanno fatto le spese del nostro “sviluppo” e del nostro finto “benessere” – è finita o sta per finire per sempre. (…) Quello che l’apocalisse dello tsunami in Giappone ci rivela è la “normalità” di domani. L’apocalisse è già tra noi, in quello che facciamo tutti i giorni e soprattutto in quello che non facciamo. Dobbiamo imparare ad attraversare e a vivere dentro un panorama devastato, dove niente o quasi funziona più: non solo per il crollo o il degrado delle sue strutture fisiche; o per l’intasamento della loro “capacità di carico”; ma anche e soprattutto per la manomissione delle linee di comando, per la paralisi delle strutture organizzate, per la dissoluzione dello spirito pubblico calpestato dalle menzogne e dall’ipocrisia di chi comanda.

Come “vivere dentro [questo] panorama devastato”? Riporto l’intera conclusione, completa e chiusa in sé.

Dobbiamo adoperarci per mettere a punto strumenti di autogoverno a livello territoriale, in un raggio di azione che sia alla portata di ciascuno, in modo da avvicinare le risorse fisiche alle sedi della loro trasformazione e queste ai mercati del loro consumo e alle vie del loro recupero: perché solo di lì si può partire per costruire delle reti sufficientemente ampie e flessibili che siano in grado di far fronte a una improvvisa crisi energetica, alle molte facce della crisi ambientale, a una nuova crisi finanziaria che è alle porte, al disfacimento del tessuto economico e alla crisi occupazionale che si aggrava di giorno in giorno; e persino a una crisi alimentare che potrebbe farsi improvvisamente sentire anche in un paese del “prospero” Occidente. Le fonti rinnovabili, l’efficienza e il risparmio energetici, il riciclo totale dei nostri scarti, un’agricoltura a chilometri zero, la salvaguardia e il riassetto del nostro territorio, ma soprattutto uno stile di vita più sobrio e restituito alla socievolezza sono i cardini e la base materiale di una svolta del genere. Va bene tutto ciò che va in questa direzione; anche le piccole cose. Va male tutto ciò che vi si oppone: soprattutto la rinuncia a un pensiero radicale.

Evocato anche da Viale e (a costo di passare per catastrofista) raccomando anche la lettura del romanzo di Cormac McCarthy, La strada (2006, trad. it. Einaudi  2007) e/o la versione cinematografica fatta da John Hillcoat, presentata a Venezia nel 2009, ma che pochi hanno visto in sala.

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Giappone, la solidarietà

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Giappone, cronaca vera

Leggo da la Repubblica (pp. 10-11) di oggi un bellissimo e terribile reportage di Giampaolo Visetti intitolato “Tra i fantasmi di un’ecatombe i cadaveri nelle reti dei pescatori”. E’ una lettura per me non facile, dalla quale comincia ad emergere la durissima realtà delle zone più colpite.

Visetti trova il modo di finire l’articolo con la cronaca di un matrimonio già programmato e la redazione mette in occhiello questa riflessione:

“Perdere amici e parenti – dice Hiroshi Suzuki, docente all’università di Sendai – è un trauma personale che modifica il carattere. Assistere al crollo di una società ritenuta invincibile, di un intero territorio, delle strutture più avanzate della nazione-simbolo della modernità globale, può segnare il capolinea di una generazione e di un modello di sviluppo”.

E come vedete non scrivo ancora niente sulla questione nucleare. Temo ci sarà l’occasione.

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Dal Giappone, con ansia

Negli ultimi tre anni ci sono stati due grandi terremoti. A maggio 2008, nel  Sichuan cinese con 70 mila vittime, nel gennaio 2010 ad Haiti i morti sono stati addirittura 222.517, secondo i dati ufficiali di un mese dopo. Ma, ammettiamolo, di queste tragedie noi ci siamo già scordati.

Oggi sappiamo bene che il terremoto che ci ricorderemo più a lungo sarà questo giapponese, quello geograficamente più lontano. Qui i morti sembrano al momento molti di meno, forse 10 mila, pochissimi a causa delle scosse telluriche, ma causati soprattutto dal terribile tsunami, forse non previsto in quelle dimensioni. 

Sanriku, il giorno dopo.

Lo discuteremo ancora per molto perché è in atto una grave crisi delle centrali nucleari coinvolte, crisi su cui non è il caso di fare tante considerazioni in una fase come questa. L’unica cosa certa infatti è che non abbiamo informazioni sufficienti e forse veritiere e che dobbiamo aspettare.

Aspettiamo notizie dal Giappone dunque, con ansia.

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Fuori dal tempo

Massimo Cacciari fu deputato (dal 1976 al 1983) e sindaco di Venezia (nei periodi 1993-2000 e 2005-2010), per questo è stato intervistato per l’inserto NordEst de Il Sole 24 Ore del 9 marzo a proposito dei problemi della riconversione di Marghera (p. 4). Riporto una fettina della breve intervista.

“Il treno è stato perso negli anni ’70, quando la politica industriale italiana è andata al collasso. E non parlo solo della chimica, ma anche dell’elettronica e altri settori in cui eravamo leader.”
“Cosa si sarebbe dovuto fare per Marghera in quel momento?”
“Investire sulla chimica fine, sulle produzioni di qualità e sostenibili da un punto di vista ambientale. Investire sulla ricerca e su Marghera, che avrebbe dovuto essere la chimica italiana. Invece, si sono dispersi milioni e milioni su altri siti industriali. Se penso a quello che avrebbe potuto essere Marghera a la chimica in questo paese… Una cosa da galera. Errori clamorosi che nessuno mai è chiamato a pagare.”

Concordo sugli errori clamorosi. Purtroppo però qualcuno paga, anche personalmente, ma non tra i politici, parlamentari o sindaci che siano o siano stati, pagano quei disgraziati dei lavoratori dipendenti. Qui però mi colpisce soprattutto l’affermazione che negli anni Settanta a Marghera si sarebbe dovuto fare prodotti “sostenibili da un punto di vista ambientale”.

Cacciari, si sa, è un grande intellettuale, un grande filosofo, e qui ne abbiamo conferma. Praticamente lui non vive in mezzo a noi, se non saltuariamente, occasionalmente, quando concede interviste. Normalmente vive nei libri, non sui libri, proprio nei libri o in un altro mondo, adesso chissà quale, forse inaccessibile a noi. E’ come don Chisciotte di Cervantes o Gulliver di Swift o lo stesso Dante Alighieri, è sempre in viaggio, quindi ha un senso relativo del tempo, come ci ha spiegato bene Italo Calvino (Lezioni americane, Garzanti 1992, p. 38):

La relatività del tempo è il tema d’un folktale [ndr: racconto popolare, leggenda] diffuso un po’ dappertutto: il viaggio all’al di là che viene vissuto da chi lo compie come se durasse poche ore, mentre al ritorno il luogo di partenza è irriconoscibile perché sono passati anni e anni.

Anzi per Cacciari passato, presente e futuro non hanno distinzione alcuna. Beato lui.

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Ippolito Nievo

Ippolito Nievo (1831-1861)

Centocinquanta anni fa, la notte tra il 4 ed il 5 marzo 1861, morì Ippolito Nievo. Fu probabilmente il 5 non il 4, come scrivono certe biografie, e aveva meno di trent’anni, essendo nato a Padova il 30 novembre 1831. Ufficialmente il Nievo, vice-intendente cioè vice-cassiere dei garibaldini, perì nel naufragio dell’Ercole sulla tratta Palermo-Napoli. Le cronache dicono di un tempesta che colpì la zona nella prima mattina, ma tutte le altre imbarcazioni entrarono tranquillamente in porto, non la sua, di cui non si trovò più traccia

Il primo a dubitare seriamente sul semplice incidente di mare fu il pronipote Stanislao Nievo, buon scrittore anche lui, che nel 1974 pubblicò Il prato in fondo al mare (ripubblicato nel 2010 da Marsilio), un romanzo a più strati, un’indagine serrata sul tragico viaggio e anche un tributo al grande antenato.

Più recentemente Cesaremaria Glori con La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo ‘Ercole’ (Solfanelli, 2009) ha ricostruito in altro modo la vicenda. In viaggio col Nievo c’erano circa 80 persone, ma anche una cassa che non conteneva solo documenti contabili della missione garibaldina, carte che servivano in difesa di certe accuse alla gestione. C’era anche la testimonianza dei finanziamenti inglesi alla missione stessa, in particolare delle elargizioni agli ufficiali borbonici che così opposero scarsa resistenza all’impresa dei Mille. Documenti che non potevano girare troppo e che non arrivarono mai a Napoli.

La ricostruzione del Glori è stata plagiata, a sua detta, nell’ultimo romanzo di Umberto Eco (Il cimitero di Praga, Bompiani, 2010) che fa raccontare la vicenda nella storia del suo protagonista, Simone Simonini, non senza giudizi sommari sul Nievo stesso.

Scrivo ciò per spirito di cronaca bibliografica, ma è chiaro che non è storiograficamente indifferente sapere che siano successe o no certe cose: a scuola si studiano le imprese dei Mille solo sulla base di certe notizie, forse è il caso di aggiornarle. Così – come abbiamo già scritto qui – è il caso di riscrivere attentamente la storia del cosiddetto brigantaggio del decennio 1861-1870.

Oggi però vorrei soprattutto ricordare lo scrittore Nievo, quello che a 27 anni scrisse Le Confessioni di un italiano. E’ stato scritto dallo stesso Stanislao che “era scritto bene, ma troppo lungo” e che non era “ancora spurgato dall’autore”, ma resta uno dei pochi grandi romanzi italiani dell’Ottocento, per me il migliore, anche perché ha dedicato molte pagine alle nostre terre.

Perciò io invito sempre alla lettura di un testo che ha ancora qualcosa da dirci perfino sui comportamenti dei nostri concittadini. Più di 150 anni dopo.

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Nordest, due guru sul lettino

Su la Nuova Venezia del 3 marzo (p. 41) è comparso un articolo di Emilio Randon su una vicenda intellettuale e scientifica che a suo tempo m’interessò molto, anche per ragioni di lavoro. La vicenda ha due protagonisti, Enzo Rullani e Bruno Anastasia. Il primo è uno dei più produttivi docenti universitari locali (ha insegnato molto tra Venezia e Udine), il secondo è da sempre un analista della vita economica veneta nonché nostro compaesano, in senso lato.

Il giornalista li ricorda dapprima “entrambi periferici all’Accademia”, anzi come coloro che “si opposero ai riflessi d’ordine di un’intellighenzia accademica formatasi sulla vulgata marxista”. Poi afferma che “Rullani e Anastasia devono solo difendersi da un eccesso di compiacimento” (così scrive!). Ma cosa fecero di tanto bello? Scrissero a quattro mani La nuova periferia. Saggio sul modello Veneto, pubblicato nel lontano 1982, che era una descrizione in tempo reale dei cambiamenti in atto nella struttura produttiva, quindi sociale, veneta. Ebbene, ammettiamolo, furono “scientifici” (diciamo così) mentre altri “resistevano” (come scrive il giornalista) , quindi non vedevano. Ma adesso? 

«Ci siamo accorti in ritardo e con qualche rimpianto del potere dissipativo dello sviluppo avviato a Nordest. Erodeva risorse, territorio, operosità, infrastrutture.»

Cazzo! Ho sobbalzato: “potere dissipativo dello sviluppo”! E’ un’espressione mica da poco. Ma di seguito, “Anastasia fa la somma di torti e ragioni”, scrive il nostro giornalista, anzi riporta le sue parole: «avevamo visto giusto, il modello era forte, è cresciuto». E quelle di Rullani: «sono passati 30 anni, la realtà è andata dove noi dicevamo». Ho capito, ho capito, ma allora è ancora tutto giusto, tutto bello, tutto previsto? Ma no, purtroppo:

«Oggi abbiamo a disposizione una forma di flessibilità negativa, diciamo che finora è stata la non-organizzazione che ci ha reso flessibili. Ciò può diventare una iattura. C’è materiale per un nuovo patto per lo sviluppo. Bisogna imparare a vivere e lavorare in rete, adottando oltre alla propria identità anche una visione dei problemi e dei traguardi da raggiungere.»

Così finisce anche l’articolo, piuttosto strano. Sembrava scritto per esaltare e finisce con un’affabulazione da lettino psicoanalitico (“dottore, sono felice ma sento che devo cambiare completamente vita”). Ma forse servono più sedute, forse è ancora un problema di linguaggio, di termini usati, forse. Magari andando avanti non si penserà solo alle imprese, ai fatturati, al PIL. Magari più in là non si chiamerà più ‘sviluppo’ solo la crescita del PIL. Speriamo di non dover attendere altri trent’anni per la prossima seduta.

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L’assessore alla caccia grossa

Daniele Stival, noto esponente leghista di Pramaggiore, è l’attuale assessore regionale a “identità veneta, protezione civile, caccia, flussi migratori, semplificazione amministrativa, devoluzione ai comuni e alle province, antincendio boschivo”.

Con tutti questi mandati non c’è dubbio che sia una delle persone delle nostre bande più titolate a parlare della situazione nordafricana. Infatti, oggi si può leggere su la Nuova Venezia (p.7):

«La Libia è solo un caso, c’è tutto il bacino del Mediterraneo che si sta rivolgendo verso l’Italia. Dovremmo arrivare a metodi forti per fermarli. L’altra sera qualcuno prospettava l’ipotesi di pattugliare con le navi da guerra. Ma non serve a niente se non spara.» [Sul giornale era scritto “spari”, ma penso ad un refuso.]

Tranquilli veneti, siamo nelle mani giuste.

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