Quattro porcate in un colpo solo

E’ ancora lì, anche se inutilizzabile dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la legge elettorale nota come porcellum (l’allora ministro per le Riforme, il senatore leghista Calderoli, la definì lui stesso «una porcata»), ma di porcate parlamentari – e più d’una – si torna a parlare. Riproduco infatti un articolo sulla legge delega sul lavoro approvata dal Senato l’8 ottobre.

Una legge, quattro porcate
di Christian Raimo
Ieri il Senato ha approvato la legge delega sul lavoro, intitolato con un tracotante anglismo Jobs Act. Da settimane non si parlava d’altro, ma il voto di ieri ha cambiato e di molto le diverse analisi che si sono sviluppate in queste settimane, e ha dato la forma definitiva a una porcata – la peggiore del già mediocre governo Renzi – per diverse ragioni. Proviamo a metterle in fila.
La ragione istituzionale
Il governo Renzi ha voluto che questa legge delega si votasse attraverso un voto di fiducia. Ora, lo capisce pure un troglodita istituzionale che questa forzatura vuol dire estromettere del tutto il potere legislativo per appiattirlo su quello esecutivo. Il governo chiede la delega per legiferare nei prossimi mesi sul lavoro, rilasciando soltanto poche e terribili linee guida, di fatto quindi arrogandosi un potere d’arbitrio assoluto in materia. Qual è il luogo della discussione? Non la dialettica interna del partito di maggioranza annullata a colpi di scherno, non il parlamento ritenuto un impiccio, non il confronto con il sindacato relegato a un appuntamento di un’oretta prima di colazione tre giorni fa. Questo da parte di un governo che, ricordiamolo, fonda la sua legittimazione sul consenso delle Europee, e non su un voto a un programma per le elezioni politiche, e che non si attiene neanche al programma delle ultime primarie.
La decisione di ieri del senatore PD Walter Tocci di votare la fiducia, per fedeltà al partito, ma di rassegnare subito dopo le dimissioni è l’espressione tragica di questo disastro.
La ragione politica
Questa legge delega, vi invito a leggerla: qui. Pur nelle sue formulazioni vaghe e contradditorie, in una cosa è chiara: è un inno alla precarizzazione, all’esternalizzazione, alla dequalificazione. Di fatto elimina il principio costituzionale che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro. Introduce tanti e tali inviti alla cosiddetta flessibilità che distrugge lo stesso ideale di una tutela dei diritti dei lavoratori. Quando per esempio si dice: “rivedere i criteri di concessione ed utilizzo delle integrazioni salariali escludendo i casi di cessazione aziendale”, io leggo che di fatto si possono prevedere forme di ammortizzatori sociali spalmati a pioggia in maniera totalmente arbitraria. Tipo contratti di solidarietà anche per aziende sotto i 15 dipendenti, tipo contratti di solidarietà anche se non viene dichiarato lo stato di crisi. Mi sbaglio? In pratica, la traduzione di quello che Renzi è andato proclamando nelle infinite interviste nelle ultime settimane – “lo Stato si deve interessare di chi è senza lavoro, non di chi ha lavoro” – non è certo un progetto iperkeynesiano, ma la messa in pratica di un nuovo tipo di Repubblica, fondata sulle toppe, sugli ammortizzatori sociali pensati come benevolenza. Renzi immagina lo Stato come un elemosinatore compassionevole, uno Stato assistenzialista (ma senza soldi: la consistenza delle coperture, essendo tutto così vago, è l’unico dettaglio importante che invece manca), che si dice pronto a riparare a qualche eccesso di povertà o di disoccupazione, ma soprattutto prono alle esigenze delle aziende. Confindustria non si è spellata abbastanza le mani: il Jobs Act è un regalo esagerato per qualunque imprenditore, gli lascia mano libera su tutto. Può licenziare, riprendere, utilizzare dei voucher di prestazioni occasionali per un monte ore che non è definito. A leggerla, pagina dopo pagina, pensavo: ok, mi metto anche io a aprire un’azienda. Ho tante e tali possibilità di sfruttare il lavoro, senza che i lavoratori possano appellarsi a nulla. Nei casi di disperazione, lo Stato – forse – interviene.
L’idea stessa di un diritto legato al lavoro viene minata; per questo Renzi è sincero quando dice che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica: rispecchia veramente l’immagine di un mondo che non esiste nella cultura politica del renzismo, che invece si presenta sempre di più come un craxismo di seconda generazione. Trent’anni dopo la battaglia sulla scala mobile che mise fine alle conquiste sul lavoro degli anni ’70, il modello renziano affronta la questione della società del post-lavoro, non assumendosi la responsabilità di redditi minimi di cittadinanza o similari, ma legando il reddito alle elargizioni di uno Stato impoverito, e il lavoro alle esigenze di imprenditori senza alcuna cultura industriale.
La ragione giuridica
A pagina 31 del disegno di legge, c’è scritto: “razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione, del medesimo rapporto, di carattere amministrativo”. Tutta la discussione sull’articolo 18 finisce qua. Nella più totale indefinizione. Il governo si arroga la possibilità di poter legiferare in seguito, attraverso i decreti attuativi, anche qui in maniera indefinita e arbitraria. Questo porterà a un busillis di non poco conto, che è il risultato del monstrum istituzionale di cui sopra. Perché per fortuna la Costituzione agli articoli 76 e 77 limita il ricorso alle leggi delega, giusto per dividere appunto potere legislativo e potere esecutivo. Lo sintetizza bene Civati in un post di ieri quando scrive
«Prima di presentare emendamenti (che non emendano granché) e di mettere la fiducia su una legge delega vaga e imprecisa, varrebbe la pena di rileggersi l’articolo 76 della Costituzione (e magari anche l’articolo 77): perché la furbizia di non mettere in delega alcun riferimento all’articolo 18 per ottenere la fiducia comporta una banale conseguenza. Che in base a questa delega il governo non potrà legittimamente modificare l’articolo 18. E, se lo farà, chiunque potrà ricorrere alla Corte costituzionale e avere ragione, come dimostra una vasta giurisprudenza in questo senso. Ma tanto non è importante essere, importante è sembrare».
Di fronte a questo non capisco se Poletti e Renzi confondano il senso delle istituzioni con il senso del ridicolo.
Ragione comunicativa
Un paio di miei amici oggi, mentre discutevamo del Jobs Act, mi chiedevano: ma insomma non c’è scritto niente sull’articolo 18?
Cioè tutta questa rottura di coglioni di mesi, e poi sulla carta non c’è niente di esplicito? Un altro mio amico, dopo aver letto il testo, era abbacinato: ci sono una serie di misure di non si è discusso per niente in queste settimane di dibattito invadente. Qualcuno di voi ha sentito parlare dell’estensione dei voucher per le prestazioni occasionale? Già. La comunicazione renziana, pervasiva, martellante, enfatica, non ha nemmeno il pregio di essere informativa e trasparente. Le leggi non soltanto non passano al vaglio parlamentare, ma nemmeno possono essere emendate dall’opinione pubblica.
(il Post, 9 ottobre 2014)
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La camicia bianca

Quello che non ho
di Fabrizio De André
Quello che non ho è una camicia bianca
quello che non ho è un segreto in banca
quello che non ho sono le tue pistole
per conquistarmi il cielo per guadagnarmi il sole.
Quello che non ho è di farla franca
quello che non ho è quel che non mi manca
quello che non ho sono le tue parole
per guadagnarmi il cielo per conquistarmi il sole.
Quello che non ho è un orologio avanti
per correre più in fretta e avervi più distanti
quello che non ho è un treno arrugginito
che mi riporti indietro da dove sono partito.
Quello che non ho sono i tuoi denti d’oro
quello che non ho è un pranzo di lavoro
quello che non ho è questa prateria
per correre più forte della malinconia.
Quello che non ho sono le mani in pasta
quello che non ho è un indirizzo in tasca
quello che non ho sei tu dalla mia parte
quello che non ho è di fregarti a carte.
Quello che non ho è una camicia bianca
quello che non ho è di farla franca
quello che non ho sono le sue pistole
per conquistarmi il cielo per guadagnarmi il sole.
(Dall’album Fabrizio De André, 1981)
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“La fiducia è in calo”

“Fiducia delle imprese in calo ad agosto: segno meno per tutti i settori” – così titola la Repubblica online oggi. Ma questo è per me solo uno spunto. La fiducia in calo non è certamente solo quella misurabile mensilmente dei consumatori o delle imprese.

Infatti, non è sfiducia ma depressione quella che vive molta parte della società italiana, dove molti cittadini non vedono più vie d’uscita alla loro progressiva miseria materiale e dunque anche morale. Certo, c’è anche una grande resilienza, fondata soprattutto sulle risorse familiari. Ci sono anche nuovi e germinali processi di aggregazione, ma molto limitati e frammentati geograficamente.

Qui ci sarebbe il compito della politica, di chi governa e di chi si oppone. Ma qual’è la situazione?

L’opposizione parlamentare più forte, il M5S, è alle prese con meccanismi interni che sembrano progettati da un pazzo protagonista di un film di fantascienza. Così una nuova generazione di cittadini, perlopiù vergini alla partecipazione politica, è bloccata in schemini di basso contenuto intellettuale anziché libera nell’esercizio della critica. Inoltre tutto è in mano ad un comunicatore, diciamo così, che esercita al massimo l’uso della minaccia e dell’insulto, piuttosto che del confronto. Costui non pare far caso alla parabola di un suo predecessore padano, ora sprofondato nella sua melma.

Anche chi governa punta tutto sulla comunicazione piuttosto che sul dibattito, sui cinguetii piuttosto che sulla polifonia, facendo leva sul ventennale rincoglionimento televisivo e sul definito scioglimento della sostanza politica dei grandi partiti che furono. La grande stampa (si fa per dire) si adegua. Tutti tengono famiglia.

Questi due poli della politica italiana si ritengono ormai gli unici protagonisti in campo, tanto da competere sui contenuti per raccogliere le spoglie dell’area che era di destra, quella ancora gestita da pregiudicati e manutengoli, ma che comincia a scarseggiare di mezzi. Potrebbero sbagliare i loro calcoli, però, i tempi sono molto fluidi.

Il dato invece certo e costante è che l’area dell’astensione elettorale, quindi della sfiducia, è in continuo aumento. D’altronde come si fa ad aver fiducia di politici professionisti che non hanno principi, coerenza, umiltà?

Eppure la fiducia è proprio fondamentale, è questo il problema di questo nostro paese. Lo sappiamo, lo sanno tutti. La fiducia è il plasma della società, Confucio (551-479 a.C.) lo scrisse duemilacinquecento anni fa:

Zigong chiese:«Cosa significa governare?»
Il Maestro rispose:«Significa vigilare perché il popolo abbia cibo ed armi a sufficienza e assicurarsi la sua fiducia».
Zigong chiese ancora:«E se si dovesse fare a meno di una di queste tre cose, quale sarebbe?»
Il Maestro rispose: «Sarebbero le armi».
L’altro chiese di nuovo:«E delle altre due, quale sarebbe?»
Il Maestro disse: «Sarebbe il cibo. In ogni epoca gli uomini sono stati sempre soggetti alla morte. Ma un popolo privo di fiducia non è in grado di reggersi».
(Confucio, Dialoghi XII, 7)
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Gaza, round 2014: [2.138+(67+3)]= 2.208 morti

Dopo 50 giorni e 2.208 morti, di cui 2.138 palestinesi e 70 israeliani (67 militari e 3 civili), senza contare i feriti e i danni materiali, è stata stabilita la tregua a tempo indeterminato nello scontro (si fa per dire) tra Israele e la Striscia di Gaza, guidata dall’organizzazione di Hamas.

Un primo commento è quello di Lucio Caracciolo, direttore di Limes, su la Repubblica di oggi (pp. 1-27), che va a sottolineare che “non si è trattato dell’ennesimo, periodico scontro israelo-palestinese, ma di un atto di una vasta tragedia che sta incendiando Nordafrica, Levante e Medio Oriente, dalla Libia all’Iraq passando per ciò che resta della Siria.”

Poi, dopo aver detto della vittoria ai punti di Hamas e la sconfitta di Israele (mah!), nota lo “smarcamento degli Sati Uniti” di un Obama che “nell’ostentato nichilismo degli ultimi mesi, sembra incapace di scelte davvero strategiche”. Così, anche in questa occasione (1) si sottovaluta o minimizza la questione palestinese, sia in sé che come valore simbolico, anche se si nota che “acquista valore nel nuovo contesto regionale” e (2) non si accenna minimamente ad un possibile ruolo dell’Ue.

Ormai siamo al punto in cui la politica, quella grande e vera, non è pensata da nessuno, non solo da quei ridicoli personaggi che ci governano, ma neanche da quelli pagati per descrivere le pezze lacerate del mondo attuale.

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Sull’ISIS e dintorni

Il gruppo di scrittori che si firma Wu Ming (cioè “senza nome” e si può seguire sul loro sito che si chiama Giap) ha pubblicato su Twitter trenta punti di considerazioni sulla situazione in atto tra Siria e Iraq. Lo stesso gruppo segnala la disinformazione italiana (v. punti 5 e 17), sulle forze veramente in campo, la loro struttura e gli obiettivi delle stesse. (Ma ognuno è libero di pensare che la nostra stampa è la migliore del mondo.)

1) Un mese fa il PKK ha scompigliato le previsioni sulla guerra in Nord Iraq / Sud Kurdistan. Oggi è la principale forza anti-IS sul campo.
1b) Per semplicità diciamo “PKK”, includendo anche la sua forza “cugina” siriana, che ha già liberato dall’IS il Kurdistan occidentale.
2) Di questo ruolo del PKK, intorno a cui ruota gran parte delle decisioni prese in questi giorni da USA e UE, parlan tutti i media globali.
3) Una delle chiavi per capire la situazione è proprio quel che è successo nel Kurdistan “siriano”, oggi zona libera del Rojava.
4) Da quasi 2 anni la guerriglia curda siriana (YPG) infligge pesanti sconfitte all’ISIS/IS, lo stesso accade da circa un mese in Iraq.
5) Ora, provate a cercare sui siti dei giornali italiani, periodo ultimi 30 giorni, queste parole: PKK, YPG, Rojava.
6) Il PKK è una forza di massa laica, socialista libertaria, femminista. In Medio Oriente. E guida una resistenza popolare all’ISIS.
7) Ci sono altre resistenze all’ISIS, episodi di rivolta e di risposta armata anche da parte di popolazioni arabe sunnite.
8 ) Correttamente, le forze menzionate considerano l’ISIS il mostro di Frankenstein della guerra di Bush e della politica americana in M.O.
9) Di questo protagonismo i nostri media non parlano. Nello scenario spettrale che dipingono, solo ISIS, gruppi filo-USA e armi USA/UE.
10) C’è gente che fino a ieri l’ISIS manco sapeva cos’era e oggi dice che senza gli USA avanzerà la barbarie, quei popoli sono spacciati ecc
11) Di contro, c’è gente che non ha certo aspettato le cazzate lavacoscienza dei nostrani leoni da tastiera per sfidare (e battere) l’ISIS.
12) Mentre PKK e compagni fermavano l’ISIS e salvavano civili, USA/UE le tenevano (tuttora le tengono) nella lista dei gruppi “terroristi”.
13) Dal giorno stesso in cui PKK e YPG son intervenuti in Nord Iraq, diffondiamo notizie e analisi sulla situazione e sulla guerra all’ISIS.
14) PKK e YPG sono intervenuti quando i Peshmerga curdi filo-USA si sono sbandati a Sengal e altrove di fronte all’avanzata ISIS.
15) L’ISIS era in Nord Iraq da settimane, faceva stragi, stuprava, decapitava, occupava città che poi PKK e YPG hanno liberato.
16) Mentre l’ISIS faceva tutto questo, Obama era fermo come un paracarro. Appena PKK e YPG hanno “sconfinato”, ha annunciato bombardamenti.
17) Ribadiamolo: di tutto questo i giornali italiani hanno scritto poco o – più spesso – niente. La controprova è facile, fate la ricerca.
18) Dopo la morte di Foley, c’è il ricatto morale: o con gli USA o con l’ISIS! Come se gli uni non avessero colpa dell’esistenza dell’altro.
19) Come se non esistessero forze che da tempo sconfiggono sul campo l’ISIS in totale autonomia, nel disinteresse dei ns. “falchi”.
20) Per inciso, molti combattenti in prima linea sono donne. Cosa che fa sclerare una forza ultra-misogina come l’IS/ISIS.
21) Ogni volta che gli USA sono intervenuti in M.O. hanno prodotto mostri sempre peggiori, ormai lo dicono molti analisti americani.
22) Se qualcuno ancora pensa che saranno gli USA a togliere le castagne dal fuoco e riparare la situazione in Iraq, è illuso o in malafede.
23) Dall’altra parte (ma solo in apparenza) ci sono gli idioti che hanno scambiato l’IS/ISIS per una resistenza antimperialista.
24) L’ISIS è una forza d’invasione multinazionale che ha un progetto non di “liberazione” ma di conquista. Sono predoni capitalisti.
25) L’ISIS, fin dal nome, è un progetto coloniale e imperialista. “Sub-imperialista”, se preferite. Non c’è liberazione nel Califfato.
26) L’ISIS è una forza nata grazie a potenze reazionarie (regionali e globali), e aspira allo status di potenza reazionaria.
27) L’«antimperialismo degli imbecilli» si basa sul pensiero bidimensionale: «Il nemico del mio nemico è mio amico».
28) Ma non sempre il nemico del mio nemico è “davvero” suo nemico, e a prescindere da questo, spesso è a pari modo “mio” nemico.
29) Pensare che per andare contro gli USA si possa essere un po’ più “teneri” con l’ISIS è un’aberrazione, chi lo pensa è un nemico, punto.
30) Di contro, chi dice che l’unico modo di essere contro l’ISIS sia appoggiare nuovi interventi USA, o ignora i fatti, o sta truffando.
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Anni bui

Nel 1936 Ludwig Wittgenstein fece visita a Dublino al suo ex allievo ed amico Maurice O’Connor Drury, con il quale parlava quasi di tutto. Come è noto, ci sono pochissimi commenti di natura politica negli scritti o nelle memorie del grande pensatore austriaco, ma lo scambio di battute riportato qui sotto mi pare una notevole eccezione e – ahinoi – anche molto attuale.

Wittgenstein: “Pensa solo che cosa significa che il governo di un paese è in mano a un gruppo di malviventi. Gli anni bui stanno tornando. Non sarei sorpreso, Drury, se tu e io vivessimo fino a vedere gli orrori di gente bruciata viva come streghe.”
Drury: “Pensi che Hitler sia sincero in ciò che dice nei suoi discorsi?”
Wittgenstein: “Un ballerino è sincero?”
(Da Ludwig Wittgenstein, Conversazioni e ricordi, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 189-190)
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Decrescita, la parolina difficile ma giusta

Anche sotto Ferragosto c’è qualcuno che riflette seriamente sui massimi sistemi partendo dalle notizie quotidiane. Propongo quindi l’articolo di Tonino Perna che prende lo spunto dalle nuove stime del Pil nazionale.

Per inciso, sia sul giornale cartaceo che sul digitale online, la parola decrescita non c’era… Tant’è che l’ho messa io tra parentesi quadra. Un atto mancato piuttosto chiaro. Perfino per un giornale come il Manifesto resta ancora una parola che non esiste sul dizionario giornalistico e scartata dal correttore, automatico o meno.

Vivere al tempo della «cre­scita zero»
di Tonino Perna
Come vole­vasi dimo­strare! L’Istat ha cer­ti­fi­cato quello che con­su­ma­tori, lavo­ra­tori e impren­di­tori spe­ri­men­tano nella vita mate­riale: siamo ancora in reces­sione ed al più pos­siamo aspi­rare ad una «cre­scita zero».
Dal 2007 l’abbiamo detto e scritto in tanti su que­sto gior­nale: la cre­scita eco­no­mica, la ripresa della nostra eco­no­mia, è una pura illu­sione. Spec­chietto per i giornalisti-allodole che, incre­di­bil­mente, ci cascano ogni anno.
Dopo la dura reces­sione del 2009, 2011–2013, il mas­simo che ci pos­siamo aspet­tare è una cre­scita zero per quest’anno e per il pros­simo. Ma, par­titi e sin­da­cati, dei lavo­ra­tori e degli indu­striali, insi­stono: ci vogliono misure per la cre­scita. Nes­suno vuole pren­derne atto, per­ché la «cre­scita zero», peg­gio ancora la reces­sione, ha un effetto dirom­pente, fa sal­tare equi­li­bri sociali e visioni del mondo che hanno fatto da col­lant per tutto il Nove­cento. Il capi­ta­li­smo senza la cre­scita eco­no­mica avrebbe perso il con­senso della popo­la­zione, il suo mastice sociale. È, infatti, sul piano quan­ti­ta­tivo dello svi­luppo eco­no­mico che il capi­ta­li­smo ha vinto la sua gara con il socia­li­smo reale, è gra­zie alla cre­scita eco­no­mica che si è rag­giunta, in pas­sato, una pax tra le classi sociali in base all’ideologia, forte e vin­cente, che solo l’allargamento della torta avrebbe per­messo il benes­sere per tutti. Chi par­lava di ridi­stri­buire «hic et nunc» la ric­chezza esi­stente, veniva accu­sato di essere un ideo­logo e di volere impo­ve­rire tutti!
Secondo il noto geografo-economista David Har­vey il sistema capi­ta­li­stico, a livello glo­bale, abbi­so­gna di un tasso di cre­scita, nel medio-lungo periodo, di almeno il 3 per cento per ripro­dursi. Finora que­sto tasso è stato assi­cu­rato dalla cre­scita soste­nuta dei Brics e di alcuni paesi «emer­genti» del sud del mondo (Africa sub-sahariana, sudest asia­tico ed Ame­rica Latina). In Occi­dente, solo gli Usa hanno avuto un tasso medio di cre­scita poco al di sotto del 3 per cento , gra­zie alla «droga» della liqui­dità in dol­lari immessa nel sistema dalla Fed negli ultimi tre anni. Così anche il Giap­pone, dopo quasi vent’anni di cre­scita zero, ha visto una ripresa della sua eco­no­mia gra­zie ad un incre­mento abnorme del suo debito pub­blico, che per scelta poli­tica intel­li­gente rimane nelle mani dei giap­po­nesi. In estrema sin­tesi: l’analisi dell’ultimo ven­ten­nio ci dice che le società occi­den­tali a capi­ta­li­smo maturo sono entrate nel grande lago della sta­gna­zione. Pos­sono cer­care di venirne fuori ricor­rendo alla droga finan­zia­ria, ma in que­sto modo creano nuove bolle spe­cu­la­tive che prima o poi esplo­dono e por­tano alla reces­sione. Non se ne esce e biso­gna pren­derne atto.
Siamo entrati, infatti, nell’era della Lunga Stagnazione/Recessione, per ora a livello di paesi occi­den­tali. Sta­gna­zione eco­no­mica che non può che pro­durre i suoi effetti sul piano sociale e poli­tico. Se lo svi­luppo eco­no­mico poteva ane­ste­tiz­zare i con­flitti sociali, con­durli nell’alveo della con­cer­ta­zione tra le parti sociali, la stagnazione/recessione li fa esplo­dere in forme e tempi impre­ve­di­bili. Allo stesso tempo sul piano isti­tu­zio­nale, le vec­chie forme della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva non reg­gono più in que­sta fase, soprat­tutto nei paesi come il nostro con una mon­ta­gna di debito pub­blico da sca­lare. Per soprav­vi­vere alla Lunga Reces­sione il capi­ta­li­smo finan­zia­rio abbi­so­gna di appro­fon­dire lo sfrut­ta­mento di risorse natu­rali e spazi vitali, deve ten­tare di mer­ci­fi­care ciò che finora è sfug­gito al suo con­trollo. Le isti­tu­zioni demo­cra­ti­che sono diven­tate un osta­colo, la demo­cra­zia un lusso dei bei tempi pas­sati, della fase dello svi­luppo economico.
Pren­dere coscienza che siamo entrati nella fase della «cre­scita zero» signi­fica che per dare un futuro ai disoc­cu­pati, agli impo­ve­riti, agli eterni pre­cari, biso­gna con­di­vi­dere la torta che c’è, miglio­rarne la qua­lità, ma non pen­sare più che si possa ancora pun­tare ad una sua cre­scita. La poli­tica eco­no­mica ade­guata a que­sta fase è una sola: Ridi­stri­bu­zione. Dei red­diti, del lavoro, delle oppor­tu­nità. Una poli­tica fiscale vera­mente pro­gres­siva che riduca i gra­vami fiscali alla base della pira­mide sociale, una poli­tica di ridu­zione pro­gres­siva dell’orario di lavoro, una poli­tica che valo­rizzi le capa­cità ed i talenti all’interno di un grande pro­getto di innal­za­mento cul­tu­rale del nostro paese. Que­sto non signi­fica che non dob­biamo più aspi­rare ad avere un piano indu­striale, legato ad una stra­te­gia di ricon­ver­sione eco­lo­gica, che ci porti a for­mu­lare un qua­dro di inter­venti mirati. Signi­fica che non pos­siamo più pen­sare di risol­vere i nostri più assil­lanti pro­blemi aspet­tando Godot , cioè pun­tando solo sulla Crescita.
Ma, prima di tutto, abbiamo biso­gno di uscire dal pen­siero unico dello Svi­luppo Eco­no­mico come alfa ed omega della società, unico scopo dell’agire sociale. In breve: essere capaci di vivere meglio con meno. È lo slo­gan da anni soste­nuto dai teo­rici e dai mili­tanti della [decrescita], che finora poteva essere visto come un bel giar­dino dell’utopia per pochi eletti.
La dura realtà della Lunga Reces­sione ci pone di fare i conti con que­sto obiet­tivo, sia a livello macro che micro, di tra­durlo in atti con­creti. Sia nelle scelte di poli­tica nazio­nale ed euro­pea, che nelle ammi­ni­stra­zioni locali, quanto a livello di vita quo­ti­diana. I segni di que­sto cam­bia­mento radi­cale di pro­spet­tiva sono dif­fusi in tanti ter­ri­tori – dalle «imprese recu­pe­rate» ai «distretti dell’economia soli­dale» — ma si tratta di fare un salto di qua­lità , che coin­volga l’intera società.

(il manifesto, 9 agosto 2014)

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Gaza: [˃1.700+(64+3)]= ˃1.767 morti

Secondo Haaretz ad oggi sono oltre 1.700 i morti palestinesi sulla striscia di Gaza, di cui 400 bambini, e almeno 9.000 i feriti, mentre le case distrutte sono più di 10mila. Tra gli israeliani ci sono 64 militari e 3 civili morti. E naturalmente queste cifre non danno da sole tutta la sofferenza in atto. Infatti, come diceva Stalin, la morte di un individuo è una tragedia, quella di molti un fatto statistico.

Su come uscirne io continuo a pensare che molto, moltissimo, dipende da cosa pensano a Gerusalemme, dove non tutti la pensano allo stesso modo. Così propongo anche oggi l’articolo di Gideon Levy tradotto per Internazionale. (Le evidenziazioni sono mie.)

Tutta colpa di Hamas
di Gideon Levy
È così facile essere un israeliano: la tua coscienza è pura come la neve, perché tutto è colpa di Hamas. I razzi sono colpa di Hamas. Hamas ha cominciato la guerra, senza alcuna motivazione. Hamas è un’organizzazione terrorista. I suoi esponenti non sono altro che bestie, nati per uccidere, fondamentalisti.
Circa 400mila palestinesi hanno dovuto lasciare le loro case. Più di 1.200 sono stati uccisi. L’80 per cento erano civili. La metà erano donne e bambini. Circa 50 famiglie sono state spazzate via. Le loro case sono state distrutte con loro dentro. La tragedia ha raggiunto le dimensioni di un massacro, ma Israele ha le mani e la coscienza pulite. È tutta colpa di Hamas.
Lasciamo l’analisi di questa negazione della realtà agli psicologi. Non si vedeva una simile rimozione da quando Israele accusava i palestinesi di uccidere i loro bambini per mezzo dell’esercito israeliano. La malattia ha incubato per anni e ora si è trasformata in un’epidemia. La coscienza nazionale non ha mosso un muscolo davanti a queste atrocità, e ci sono forze che stanno lavorando per mantenere la situazione com’è.
Nonostante la nube maligna della negazione, pur comprendendo quanto sia facile incolpare Hamas (Israele non ha mai avuto un nemico così conveniente) dobbiamo chiederci se davvero è tutta colpa loro e se Israele è davvero innocente. La verità è che davanti alle immagini di Gaza, insanguinata e distrutta per mano israeliana, questa tesi è del tutto inconcepibile.
Hamas è una spietata organizzazione terrorista? Com’è possibile che in questa guerra sia più colpevole dell’esercito israeliano? Soltanto perché non “bussa sul tetto” 80 secondi prima di distruggere una casa? Perché punta i suoi razzi contro i civili? Lo fa anche Israele, ma in modo molto più efficace. Perché vuole distruggere Israele? Quanti israeliani vogliono distruggere Gaza? In questo momento sappiamo tutti chi sta distruggendo chi.
L’ipocrisia di Israele raggiunge il vertice nell’ostentata preoccupazione per i civili di Gaza: guardate come li tratta Hamas, urlano i democratici israeliani, così attenti ai diritti dei palestinesi. Hamas ha un atteggiamento tirannico, ma la sua tirannia non è nulla in confronto a quella di Israele, che ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio di 7 anni e un’occupazione che dura da 47 anni.
L’assedio è la prima causa della distruzione della società e dell’economia di Gaza, e tante grazie a chi sostiene di volerla salvare, a chi si preoccupa della sua mancanza di democrazia, a chi si stupisce per la corruzione, a chi denuncia il fatto che i leader palestinesi vivono in hotel di lusso o in bunker nascosti, a chi si indigna per i soldi spesi per i tunnel e i razzi anziché per i parchi gioco e le attività ricreative. Grazie, grazie tante.
Ma che dite di Israele? I suoi leader vivono per caso nelle tende? Non è vero che il governo spende cifre enormi per inutili sottomarini ed esplosivi segreti invece che nella sanità, nell’istruzione e nello stato sociale? Hamas è fondamentalista? Israele sta per diventarlo. Hamas opprime le donne? È sbagliato, ma accade anche in Israele, quantomeno all’interno di una grossa comunità.
Ma perché gli abitanti di Gaza hanno eletto Hamas e non dei leader più moderati? Semplicemente perché i moderati hanno provato per anni a ottenere risultati, qualsiasi risultato, e da Israele hanno ricevuto in cambio soltanto umiliazioni e rifiuto. Israele ha mai dato ai palestinesi un motivo per scegliere la diplomazia dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) invece della violenza di Hamas? L’Olp li ha forse avvicinati di un millimetro all’indipendenza e alla libertà?
Hamas, per lo meno, ha ottenuto la liberazione di mille prigionieri e ha mantenuto un po’ di dignità, seppure al prezzo altissimo che gli abitanti di Gaza sono ora disposti a pagare. Cosa ha ottenuto per il suo popolo il presidente palestinese Abu Mazen? Niente. Una foto con Obama.
Personalmente non sono un ammiratore di Hamas, al contrario. Ma il tentativo di Israele di dare tutta la colpa a Hamas è inaccettabile. Presto la comunità internazionale giudicherà le atrocità di questa guerra. Hamas sarà criticata, giustamente, ma Israele sarà condannato e ostracizzato molto di più. E gli israeliani diranno: “È colpa di Hamas”. E il mondo intero riderà.
(Internazionale, 1 agosto 2014)
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Perché l’Unità è in crisi

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Ecco di nuovo la notizia che l’Unità è in crisi. Questo giornale fu voluto e fondato in tempi molto pesanti da Antonio Gramsci, nel febbraio del 1924, tirando subito 20mila copie giornaliere. Cinquant’anni dopo, nel pieno dell’era Berlinguer, le copie sarebbero state più di dieci volte tanto (media 1974 a 239mila). Oggi è tornato alle cifre iniziali (20mila) e non può più reggere. Perché? Io mi son fatto qualche idea e la propongo qui.

Un breve sguardo retrospettivo. L’Unità in realtà è in crisi da almeno quindici anni, da quando nel 1997 si avviò la prima privatizzazione, cioè la dipendenza del giornale da uno o più imprenditori privati. Certo non fu un caso. Nel 1991 con la morte del vecchio Pci, cambiò sottotitolo, già non era più “organo”, ma da “Giornale del Partito comunista italiano” divenne “Giornale fondato da Antonio Gramsci”. Però negli anni della direzione di Walter Veltroni, tra il 1992 ed il 1996, anche grazie all’invenzione dei cosiddetti gadget (fu il primo quotidiano a vendere film in vhs in edicola), stava andando bene, tanto da essere – appunto – venduto ai privati. D’altronde Veltroni nel maggio 1996 andò al governo, vice di Prodi, e da lì cominciò il declino del giornale.
Ma il giornale che fu del Pci (1921-1991) e poi del Pds (1991-1997), non poteva più essere anche il giornale dei Democratici di Sinistra (Ds, 1998-2007), primo allargamento dell’inizio 1998 verso forze che non fossero solo quelle già dentro il Pci. In poco tempo, passando la direzione da Mino Fuccillo a Giuseppe Caldarola, le tirature scesero velocemente fino a 50 mila copie. Tutto ciò nonostante al governo ci fosse un suo ex direttore, Massimo D’Alema. E così questo segmento di storia finì col fallimento giudiziario del luglio 2000.
L’Unità tornò in edicola a fine marzo 2001, in tempo per assistere alla vittoria di Berlusconi su Rutelli, leader (si fa per dire) del residuo Ulivo. Lo rilanciò una cordata attorno all’editore Dalai e visse discretamente grazie al mestiere prima del direttore Furio Colombo (2001-2004) e poi del suo già vice Antonio Padellaro (2004-2008). Le copie calano anche con loro, ma lentamente, passando da 73mila (2001) a 66mila (2004), poi a circa 60mila (2005-2006) e infine a 50mila (2007-2008).
Nel frattempo, il 14 ottobre 2007 viene fondato il Pd. E nel maggio 2008 il giornale cambia anche padrone, la compra Renato Soru, governatore sardo e fondatore di Tiscali. Con un altro grande direttore, Concita De Gregorio (agosto 2008-luglio 2011), la tiratura tiene sulle 50mila copie, ma poi c’è il crollo progressivo, fino alle attuali 20mila copie. L’Unità ha così finito la sua corsa.

Le cause di questa crisi in sede storica possono essere individuate in tre punti,  che vedremo essere riducibili ad una sola dal punto di vista giornalistico.

La prima causa è stato il cambiamento del rapporto con il partito. Prima organo, poi giornale, ma sempre lo strumento più importante per la comunicazione di massa, l’Unità ha vissuto male l’allentamento del legame col partito, che fu evidente fino alla direzione di Veltroni. Se mai fosse stato possibile, non si è mai trasformata in qualcos’altro.

La seconda causa è l’avvento di internet. C’è perfino una grande coincidenza: nel 1991 muore il Pci e nasce il www (World Wide Web, la “ragnatela grande quanto il mondo”). E negli ultimi anni il web esplode. I terminali passano dal personal computer (pc) agli smartphone ed ai tablet. Le notizie e i giornali già stampati si possono leggere senza passare in edicola, questa è la seconda causa. E molti giornali sono solo online. Qui, se si è  curiosi e pazienti non servono neanche abbonamenti, la rete prima o dopo rimbalza tutto.

Oggi si fa politica, e molta, anche attraverso i social network, come Facebook e Twitter. Un “partito” come il M5S (che anche se si chiama movimento è il più tradizionale dei partiti) è nato sul web, le battaglie sui referendum del 2011 sono passate sul web. Il web è il luogo di discussione, ma anche di canalizzazione e controllo del dibattito. Una bestia che comunque ha già quasi mangiato e digerito tutta la carta stampata.

La terza causa mette insieme le prime due e le sublima. Il Pd non ha più bisogno di un giornale, fosse neanche online. E’ un partito che s’identifica con la società italiana così com’è, non è uno strumento di critica radicale degli assetti e dei comportamenti sociali. Anche le cosiddette riforme renziane, messe in cantiere con tanta determinazione, sono un modo per riorganizzare il potere storico in chiara difficoltà, non qualcosa per riequilibrare redditi e destini di vita.

Però qualsiasi giornale, cartaceo o online, è fatto per coltivare un pubblico, uno, non diversi, e non variabili. Si può essere locali (vedi il “nostro” Il Gazzettino), speciali (vedi Tuttosport), di destra (vedi Libero) o di sinistra (vedi Il Fatto Quotidiano), importante è dare al lettore un’informazione coerente con la propria impostazione. Ma un giornale deve anche dare battaglia, fare informazione vera, combattere i propri nemici strutturali in base alla propria impostazione, mai rinunciare, neanche un momento, alla ricerca ed alla critica per cambiare lo stato di cose che si ritiene inaccettabile.

Ora, come può sopravvivere anche solo vicino al Pd il giornale fondato da Antonio Gramsci, uscito dal 1924 al 1927, poi clandestino, quindi “organo” del Pci per quasi cinquant’anni (1944-1991)? Servendo il suo pubblico, abbiamo detto. Ma quale pubblico? Le attuali 20mila copie forse sono anche troppe rispetto al vecchio pubblico già comunista, comunque di sinistra. Un gruppo sociale e politico in estinzione per ragioni generazionali. Non ci sono tanti, forse punto, giovani ventenni e trentenni vicini al Pd attuale che leggono l’Unità, neanche online.

Come vedete non affronto neppure i temi economici della questione. Perché se è vero che gran parte della stampa italiana è in crisi come lo è l’intera società, qualcuno maschera meglio, come i grandi gruppi editoriali o quei giornali che appartengono a gruppi industriali e finanziari, ma qualcuno resiste con i propri scarsi mezzi e c’è anche chi riesce a crescere.

Ma, infine, c’è proprio bisogno di un grande giornale a sinistra, cartaceo e online? C’è la Repubblica che è un contenitore d’area, sempre aperto ai commenti più radicali, ma nella linea editoriale liberista e finanzcapitalista, atlantista e giustificazionista, di fatto piuttosto amorale. C’è il manifesto, libero e coraggioso più di tutti, ma sempre vincolato ad una missione limitata, forse irrinunciabile senza un’area di riferimento più vasta ed organizzata. C’è Il Fatto Quotidiano, nato nell’era di Grillo e fatalmente oscillante tra le ragioni più radicali di certa sinistra e quelle generazionali di certa società italiana.

Io questi giornali li leggo regolarmente per avere dai tre messi insieme uno scandaglio minimamente più profondo del vergognoso livello televisivo. Ma sono certo che anche senza tanti soldi in tasca molti italiani comprerebbero volentieri un quotidiano bello e forte, riflesso di una sinistra bella e forte, forse di un partito (come si chiamava una volta) simile. Insomma, a molti italiani manca quest’ultimo, non solo un buon giornale, come fu anche l’Unità per molti anni. Per cui non vedo proprio come possa essere Renzi quello che lo resuscita.

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La Ghirlanda. (2) Servire realismo

Il politologo Roberto D’Alimonte è considerato un grande esperto di sistemi elettorali e come tale è finito a fare il consulente nella trattativa tra Pd e Fi, cioè Renzi e Berlusconi. Insomma se non l’ha proprio concepito l’Italicum lo ha comunque benedetto, facendo come Arlecchino il servitore di due padroni. Io credo che non servisse un così grande genio per imbastire due riforme simili, il Senato inutile e una legge elettorale peggiore (!!) del Porcellum. Ma sentite come giustifica il tutto, il servitore, quello che serve realismo  a tavola degli italiani.

D’Alimonte: “Serve realismo però vorrei la soglia unica e premio più alto a chi vince”
di Silvio Buzzanca
Il consulente di Renzi sull’Italicum: “Il premio dà 321 seggi. Per governare con margine sicuro ce ne vogliono 340”
ROMA. Professore D’Alimonte, lei come esperto di sistemi elettorale e consulente di Renzi sull’Italicum cosa pensa delle riforme?
“Sono un sostenitore sia del nuovo Senato che dell’Italicum perché sono realista. Ci sono cose che potrebbero essere migliorate, ma se fossi in Parlamento li voterei perché preferisco riforme imperfette a nessuna riforma. Sul Senato poi si è trovato un equilibrio, anche sui poteri. Soprattutto dopo l’opera di revisione fatta dalla Finocchiaro e Calderoli”.
Adesso si riparla di sistema di elezione francese.
“Ci sono molti modelli possibili. Ma adesso sarebbe sbagliato ripartire da zero”.
Nonostante il realismo, lei però ritica le soglie dell’Italicum.
“Oggi ci sono le liste singole e le liste “sposate”. I singoli hanno uno sbarramento all’8 per cento, gli sposati al 4,5. Hanno uno sconto perché si alleano e nascono le “liste scontate”, un’invenzione tutta italiana. A me piacerebbe invece una soglia unica del 4 o 5 per cento per tutti come vogliono Vendola, Alfano e Salvini”.
Ma i patti Pd-Fi dicono di no.
“Non sono d’accordo con Verdini e Renzi. Il premier però, ed ero presente, ha dovuto accettare queste soglie nell’ambito di un compromesso. Ma se non si possono cambiare, pazienza”.
Perché non si possono cambiare?
“Perché le vuole Berlusconi e sono le sue condizioni per l’accordo. Le soglie “scontate” gli servono per riportare all’ovile dissidenti e frammenti. Lo vedete Alfano che supera l’8 per cento? E vuole utilizzare le liste bloccate per tenere in pugno il suo partito, scegliere lui i candidati”.
Questo vale anche per Renzi…
“È vero. Ma a lui interessano di più il ballottaggio e il doppio turno, avere un vincitore la sera del voto. Il suo realismo lo ha portato ad un compromesso con Berlusconi per raggiungere l’obiettivo. Io comunque in Parlamento voterei anche liste bloccate e soglie scontate. Ma come cittadino e studioso ritengo che siano altre le criticità”.
Tipo?
“Ho delle riserve sul possibile voto di preferenza. Nella Prima Repubblica ha fatto molti danni e oggi i lombardi quasi non lo usano, mentre il 90 per cento di campani, calabresi, pugliesi, sì. Bisogna chiedersi il perché. Allora volete il voto di preferenza? Ce lo possiamo anche mettere. Però se restano le liste bloccate non mi scandalizzo”.
Lei pensa a qualche correttivo?
“In Toscana vogliono tenere insieme le preferenze e listino bloccato, lasciando ai partiti su cosa puntare. Inoltre ci sono le liste flessibili. Cioè liste bloccate dove viene eletto il candidato piazzato primo in lista. Ma se il secondo raccoglie una quota X di preferenze, magari il 30% dei voti del partito, passa lui e non il primo in lista. Poi si potrebbe pensare che i capilista siano eletti automaticamente e gli altri posti se li giocano gli altri con le preferenze”.
E le altre criticità?
“Una è quella della parità di genere che si potrebbe risolvere con l’alternanza in lista. Le donne magari non saranno d’accordo, ma un compromesso si potrebbe trovare”.
E poi?
“Bisogna portare la soglia di sbarramento per il ballottaggio al 40%. Ma al vincente non basta dare il 52% dei seggi, pari a 321. Bisognerebbe arrivare al 55%, cioè 340 seggi”.
Lei crede al “rischio autoritario”?
“Queste chiacchiere sono delle cavolate. Il solo nesso fra Italicum e Senato è che i partiti minori per dire sì al monocameralismo vogliono una soglia unica fra il 4 e il 5 per cento”.
Si dice: le due riforme alterano gli equilibri costituzionali.
“Giusto, ma questo rischio c’era anche con il Mattarellum: poteva produrre una distorsione fra voti e seggi molto maggiore del Porcellum. Perché certi costituzionalisti non fecero allora le loro critiche? Io, politologo, dicevo, e vale anche oggi, che bisognava modificare la soglia per l’elezione del presidente della Repubblica”.
(la Repubblica, 28 luglio 2014)

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