La guerra civile europea in corso

Comincia oggi una settimana importante per le sorti dell’Unione Europea e dell’euro, quindi della nostra vita politica e civile, la vita quotidiana.

C’è in scadenza per giovedì 22 la decisione finale della Bce sul cosiddetto Quantitative Easing (QE) , cioè l’acquisto da parte della Bce di titoli di stato stampando moneta, già usato più volte, anche su titoli privati, da parte di Usa, UK e Giappone (dove però non ha funzionato).

Sui mercati valutari il ribasso dell’euro è la prima conseguenza di una decisione annunciata da tempo. E’ infatti in atto una svalutazione verso tutte le monete, particolarmente verso il dollaro con il quale il cambio medio del 2014 è stato 1,33 e ancora a metà dicembre era 1,25: oggi è a 1,16. Quando avrà raggiunto 1,05 avrà svalutato del 20%. I grossi esportatori verso gli Usa e la Cina, quindi soprattutto la Germania, avranno una nuova leva economica in mano. Tutti, soprattutto gli altri, avranno soprattutto un aumento delle materie prime che si quotano in dollari o perlomeno una riduzione del vantaggio della caduta del prezzo del petrolio.

La seconda conseguenza è già stata la rivalutazione del franco svizzero del 20% della scorsa settimana, dopo l’annuncio di Berna che non avrebbe più operato per tenere ancorato il franco all’euro. Ma nell’economia globalizzata tutto si tiene e questo balzo ha già fatto le prime vittime tra i broker.

Ma – soprattutto – domenica 25 gennaio si vota in Grecia per il rinnovo del parlamento. Verosimilmente, la propaganda che si farà in questa settimana sarà notevole e non solo all’interno del paese. La possibilità che Syriza, la coalizione della sinistra guidata da Alexis Tsipras, vinca le elezioni è oggetto di aspettative e di ansie che non sono di certo diminuite in questi mesi e settimane.

Perché Syriza fa paura? Sostanzialmente perché è la prima vera forza politica che potrebbe governare un paese UE con in programma un vero cambiamento delle politiche in atto da oltre un decennio. Un cambiamento che non può essere indolore per chi finora ha egemonizzato la linea europea, Germania in testa, e per chi invece ha sempre subìto e viene oggi minacciato in tutti i modi, a partire dall’espulsione dall’eurozona e dall’Ue, opzioni peraltro non previste dai trattati esistenti. Lo scontro in atto da anni non è però solo verbale. E’ in atto una vera e propria guerra civile europea, con i suoi vincitori e con le sue vittime. Vittime non in senso figurato. Facciamo parte di un’unione in cui larghi strati di popolazioni soffrono fisicamente e moralmente e vogliono almeno tentare una via d’uscita.

Su come uscirne ci sono naturalmente diverse opzioni. Io propongo qui sotto un articolo dell’aprile 2014 di Bernard Maris (foto), l’economista ucciso il 7 gennaio nell’eccidio del Charlie Ebdo. (Le evidenziazioni sono mie.)

bernard-maris<

La seconda guerra civile
di Bernard Maris
Nel 1992, François Mitterrand ha dato il via ad una seconda guerra dei 30 anni credendo di poter legare la Germania all’Europa attraverso la moneta unica.
La Germania realizza senza volerlo attraverso l’economia ciò che un cancelliere folle aveva già realizzato attraverso la guerra: essa sta distruggendo a poco a poco l’economia francese. Di certo, essa non è responsabile di questa situazione, tutt’altro; essa non è mai intervenuta nella politica interna della Francia e ha dato una mano ai francesi ai tempi di Balladur per realizzare un abbozzo di unità fiscale e di bilancio (che le fu rifiutata).
È François Mitterand che, in due riprese, ha voluto legare la politica monetaria della Francia a quella della Germania, distruggendo un’industria che già andava indebolendosi: la prima volta nel 1983, con la svolta del rigore e la politica del «franco forte»; la seconda volta nel 1989, andando in panico dopo la riunificazione tedesca e avallando quest’ultima al prezzo d’una moneta unica e d’un funzionamento della BCE ricalcato su quello della Bundesbank.
Sono passati da allora più di venti anni di guerra economica, e l’industria tedesca ha annientato le industrie italiane e soprattutto francesi. Oggi la guerra è finita e ha un vincitore. La parte delle esportazioni della Germania nell’Eurozona rappresenta il 10% del totale. Il resto va invece al di fuori, verso gli USA e in Asia. La Germania non ha più bisogno dell’Eurozona. Al contrario: la zona Euro comincia a costarle cara, a causa dei piani di sostengo alla Grecia, al Portogallo e alla Spagna a tal punto che essa stessa comincia a sognare di uscire dall’Euro.
È evidente che né la Grecia, né il Portogallo, né la Spagna, e neppure la Francia o l’Italia non potranno mai rimborsare i loro debiti avendo una crescita debole e una industria devastata. L’Eurozona scoppierà dunque al prossimo grande attacco speculativo rivolto ad uno dei cinque Paesi appena citati. La Cina e gli USA contemplano incantati questa seconda guerra civile interminabile, e si preparano (per quanto riguarda gli USA, una seconda volta) a togliere le castagne dal fuoco.
La Cina e gli USA praticano una politica monetaria astuta e lassista. Si potrebbero aggiungere alla lista dei Paesi che praticano una politica monetaria intelligente la Corea del Sud e, oggi, il Giappone. La Gran Bretagna prepara sic et simpliciter un referendum per uscire dalla UE.
La vera scelta da fare è: uscire dall’Euro o morire a poco a poco. In altri termini, il dilemma per i Paesi dell’Eurozona è abbastanza semplice: uscire in modo coordinato e di soppiatto, o attendere lo tsunami finanziario.
Un’uscita cooperativa e di soppiatto avrebbe il merito di preservare un pochino la costruzione europea, uno tsunami sarà l’equivalente del Trattato di Versailles, dove i perdenti questa volta saranno i Paesi del Sud. E, al di là dei Paesi del sud, l’Europa intera.
L’uscita morbida e coordinata è abbastanza semplice, ed è stata prospettata da molti economisti. Si tratta semplicemente di ritornare a una moneta comune, che serva da riferimento alle differenti monete nazionali. Questa moneta comune, definita da un «paniere di monete» nazionali attenuerebbe la speculazione contro le monete nazionali.
Sarebbe il ritorno allo SME (Sistema monetario europeo)? Sì. Avremmo dei margini di fluttuazione interno alla moneta comune. Una stabilizzazione della speculazione attraverso delle limitazioni dei movimenti di capitale, stabilizzazione che potrebbe essere accresciuta attraverso una tassa di tipo Tobin sugli stessi movimenti di capitale. Ma lo SME è fallito direte voi… Sì, perché lo SME non aveva l’obiettivo di lottare contro la speculazione, e non aveva adottato una «Camera di compensazione» come si augurava Keynes nel suo progetto per Bretton Woods (abbandonato a favore del progetto americano).
Il modo migliore di rendere l’Europa odiosa, detestabile per un lungo periodo, di dare spazio ai nazionalismi più biechi, e di proseguire questa politica imbecille della moneta unica associata a una «concorrenza libera e senza distorsioni» che fa saltare di gioia coloro che ne approfittano, Cinesi, Americani, e gli altri BRICs.
Con tutta evidenza, il dominio della politica sulla moneta non è sufficiente a rendere forte un’economia: la ricerca, l’istruzione, la solidarietà sono certamente altrettanto importanti… Tuttavia, lasciare che i «mercati» governino i Paesi è, molto semplicemente, una vergognosa viltà.
(Economia e Politica, 19 gennaio 2015)
Pubblicato in Economia, Politica | Contrassegnato | Lascia un commento

Ricreare il concetto di pubblico

Mariana Mazzuccato è un’italiana che insegna in un’università inglese. Ha pubblicato di recente un libro che ha avuto u successo internazionale ed è stato pubblicato anche in Italia: Lo stato innovatore (Laterza, Roma-Bari 2014). L’intervista qui sotto riportata ne sintetizza già il senso. (Le evidenziazioni sono mie.)

Mariana Mazzuccato: «E’ l’idea di pubblico che va ripensata»
Intervista a cura di m.fr.
In Ita­lia non sap­piamo più par­lare di pub­blico. Dire che serve un “new Deal” è scon­tato. Ma oltre agli inve­sti­menti pub­blici e pri­vati man­cano anche buoni “deal” fra pub­blico e pri­vato, dove si sono messi assieme, le part­ner­ship, non fun­zio­nano per lo stesso motivo: il pub­blico è visto come nega­tivo. Nel resto del mondo non è così».
Mariana Maz­zu­cato usa il «noi» per­ché è ita­liana di nascita («sono stata qui fino ai 5 anni») ma lavora alla Sus­sex Uni­ver­sity di Brighton (Inghil­terra) ed ha stu­diato negli Stati Uniti, dove il padre è emi­grato per inse­gnare fisica a Prin­ce­ton (New Jer­sey). Pro­prio dall’America parte l’analisi del libro (“Lo Stato inno­va­tore”) con cui ha avuto noto­rietà inter­na­zio­nale sfa­tando il mito del pri­vato: la Sili­con Val­ley (Goo­gle, Apple e via dicendo) sono nate per un finan­zia­mento statale.
Pro­fes­so­ressa Maz­zu­cato, per­ché l’Italia non ha più poli­tica indu­striale?
Il pro­blema viene da lon­tano. C’era già prima dell’Euro e prima della crisi. In Ita­lia il set­tore pub­blico è visto come total­mente e senza inno­va­zione non suc­ce­derà niente di buono. Una delle sfide è ricreare il con­cetto di pub­blico. Poi biso­gna capire che l’intervento dello Stato non è solo soci­liz­za­zione del rischio, ma anche pos­si­bi­lità di ricavi per le casse pubbliche.
Renzi riu­scirà ad inver­tire una ten­denza così con­so­li­data?
Renzi è tor­nato dalla Sili­con Val­ley, ha detto: «Ho capito tutto” e ha fatto il Jobs act. Quindi non ha capito niente. In Ame­rica il governo ha orien­tato una incre­di­bile catena di inno­va­zione per­ché rispetto al cosi­detto “ven­ture capi­ta­lism” che finan­zia le start up più inno­va­tive, ma vuole otte­nere pro­fitti entro tre anni, non ha sca­denze. Lo dimo­stra il fatto che esi­stono star up finan­ziate dallo Stato che sono fal­lite — come Solyn­dra — ma in gene­rale sono stati dati finan­zia­menti da cen­ti­naia di milioni di dol­lari a idee che non li avreb­bero avuti dai pri­vati. Qui in Ita­lia lo Stato sus­si­dia, incen­tiva, si limita a que­sto. E sba­glia. Per­ché non è vero che il pri­vato inve­ste solo se si abbas­sano le tasse.
Tutto è legato però ai vin­coli di bilan­cio impo­sti dall’Europa.
Obama nel 2009 andò in defi­cit del 10 per cento e costrinse Mar­chionne ad inve­stire sui motori ibridi: gli effetti si vedono ora con cre­scita al 5 per cento e disoc­cu­pa­zione al minimo. Il vin­colo del 3 per cento deficit/Pil è stu­pido, va eli­mi­nato subito. In più vanno usati tutti e bene i 16 miliardi di fondi strut­tu­rali europei.
Quali campi indu­striali in Ita­lia potreb­bero essere i primi in cui pro­porre inve­sti­menti sta­tali?
Tutti. Nes­sun escluso. Se la Dani­marca che ha 4 milioni di abi­tanti è il paese più avan­zato in fatto di pro­vi­der, per­ché l’Italia non lo può essere?
Ma se toc­casse a lei deci­dere, da quale piano par­ti­rebbe? La Fiom pro­pone di fare dell’Italia la piat­ta­forma logi­stica del medi­ter­ra­neo, legan­dola alla costru­zione di navi, auto, auto­bus eco­com­pa­ti­bili…
È un ottimo esem­pio, fat­ti­bile met­tendo tutti gli attori in gioco attorno ad un tavolo e stu­diano un piano. La subu­ru­ba­niz­za­zione negli anni ’40 ha aiu­tato l’industrializzazione. Oppure il cibo e l’industria agro ali­men­tare: Car­lin Petrini mi ha chia­mato a par­lare alla sua uni­ver­sità su que­sto. Ma poi io non penso solo all’industria: l’Italia è unica per dis­se­mi­na­zione dell’arte. E invece attrae pochis­simi stu­denti dal resto del mondo in que­sto campo dove potrebbe seguire l’esempio dell’Inghilterra nella scienza. Io pro­por­rei poi un “piano verde” che leghi l’informatica, l’elettricità, dove l’Italia è ferma da 15 anni.

(il manifesto, 15 gennaio 2015)

Pubblicato in Economia, Politica | Contrassegnato | Lascia un commento

Il rischio Giulio II

Chi sarà il nuovo Presidente? Non pare ci siano candidati forti, da primo scrutinio (come Cossiga e Ciampi), pare anzi che chiunque venga eletto verrà visto, almeno inizialmente, come una figura debole e transitoria.

Innanzi tutto perché sarà eletto dallo stesso parlamento incostituzionale che due anni fa non seppe rinnovare l’incarico. Poi perché il capo del governo Renzi vorrebbe un personaggio debole, la sua ombra. Ma potrebbe anche sbagliare la soluzione o non avere i mezzi per decidere, cioè i voti. Più che i precedenti storici repubblicani, che videro salire al Colle personaggi penosi come Giuseppe Saragat (1964-1971) dopo 21 scrutini o Giovanni Leone (1971-1978) dopo 23 scrutini, mi viene in mente l’inizio del XVI secolo. Chiedo un po’ di pazienza ai miei due lettori (ho famiglia grossa).

Dunque, il 18 agosto 1503 morì Rodrigo Borgia (1431-1503), papa Alessandro VI dal 1492. Con la sua morte repentina andò in crisi il disegno del figlio Cesare Borgia (1475-1507), già giovane cardinale e condottiero ammirato dal Machiavelli nel suo Principe. Cesare, detto il Valentino, aveva appena assestato il suo controllo sulla Romagna e – con l’aiuto del Papa padre – pensava di farlo anche sulle città toscane, quando si trovò senza il supporto fondamentale. Sono da notare gli anni in cui si svolgono questi eventi: Alessandro VI è papa l’11 agosto 1492, due mesi prima della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo (12 ottobre) e all’inizio della rivoluzionaria scoperta degli oceani e delle battaglie per la spartizione della povera penisola italiana.

Ma torniamo a Roma. Il cardinale Giuliano della Rovere, che con Innocenzo VIII era molto influente, venne messo in disparte dal papa spagnolo. Proprio messo ai margini fisici del sistema di potere. Ma dopo dodici anni di potere assoluto del Borgia e non solo a Roma, visto per esempio la fine che fece Girolamo Savonarola a Firenze, ritorna con un terreno favorevole. L’èlite romana vuole riprendersi il potere. Ma il della Rovere nel concilio non ha ancora la situazione in pugno ed è costretto a ripiegare sul senese Francesco Piccolomini, papa Pio III. Costui però è molto ammalato e muore dopo soli 26 giorni. Sono pochi, ma il della Rovere manovra bene per il successivo concilio, dove ottiene l’appoggio proprio di Cesare Borgia – che controlla il voto dei cardinali spagnoli – e viene eletto all’unanimità, papa Giulio II. Grave errore del Valentino. Questa mossa segna proprio la sua fine. Giulio II sarà un papa protagonista come Alessandro VI, a partire dal rovescio dello spoil system.

Ecco il precedente che mi pare più collegabile. C’è sempre gente assetata di potere a Roma. Gente disposta a tutto. Questo ambiente politico italiano, lasciatoci anche da Giorgio Napolitano, non è per niente sicuro. E anche il nuovo presidente che verrà eletto non è detto che sarà il miglior alleato del suo più grande elettore, come si illuse Cesare Borgia con Giulio II.

Con questo stato d’animo anch’io mi preparo ad assistere alle mosse di queste settimane. Mentre, per inciso, faccio notare che il “rischio Giulio II” vale sempre, anche a livello locale.

Pubblicato in Politica | Contrassegnato | Lascia un commento

La presidenza Napolitano

Oggi, 14 gennaio 2015, si è dimesso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dopo due mandati di sette più due anni, un record, poiché nessun presidente precedente era stato rieletto. Un giudizio su questa lunga presidenza purtroppo è già possibile, io personalmente gli darei un’insufficienza netta, diciamo 4/5 e per alcune ragioni molto evidenti.

La prima, un dato inconfutabile, è che durante le sue presidenze il paese ha vissuto la crisi più lunga e grave dal dopoguerra. Crisi economica, ma non solo. E’ in corso una crisi politica e morale che non è certo separabile dalla prima come dai principali protagonisti. La seconda ragione è per come risolse la prima grave crisi politica del suo primo mandato. Fu la forzatura con cui sostituì il decotto governo Berlusconi (maggio 2008 – novembre 2011) con il governo Monti (novembre 2011 – aprile 2013). Certo non fu il solo responsabile politico. Tutto il Pd di allora lo fu almeno altrettanto. Ma lì si cominciò una deriva, in particolare la subalternità verso le cosiddette istituzioni europee, in realtà la troika (Bce, Fmi, Commissione europea).

La terza ragione per dare un pessimo giudizio è perché accettò di essere rieletto dopo sette anni. Non fu un atto di responsabilità, anzi. Fu la conferma del delirio di onnipotenza rispetto al processo che aveva innescato con l’operazione Monti. Pensava ancora di guidare un paese complesso e in crisi come fosse un cavallo, con le redini.

E’ naturalmente chiaro che un giudizio più pacato, se non proprio definitivo, su Napolitano presidente lo daranno gli storici nel tempo. E’ appena uscito dal Quirinale e sul breve periodo il giudizio è destinato ad oscillare in relazione all’esito di alcune manovre appena iniziate con lui, a partire dalla riforma costituzionale del Senato. Ma a noi intanto è chiaro che dopo questi nove anni, lo ripeto, lo stato morale, politico, sociale e perfino culturale del paese è peggiorato, quasi catastrofico. L’affermazione che con un altro Presidente le cose sarebbero andate peggio è risibile, degna di un pensiero primitivo o della propaganda di un regime dispotico.

Pubblicato in Politica | Contrassegnato | Lascia un commento

Chi gioca col terrorismo

naji-el-ali

Aggiungere qualcosa d’interessante al dibattito in corso dopo il 7 gennaio di Parigi non è facile. Personalmente avrei qualche idea poco standard su quanto sta accadendo, sarei portato ad andare alle radici profonde dello stato in cui ci troviamo, ma non posso partire dal fondo, dalla sintesi. Sarebbe anche un esercizio pesante e pretenzioso. Cercherò quindi di raccogliere qualche dato effettuale e di mettere in mostra alcuni elementi meno evidenti nella più ricorrente messa a fuoco.

Primo dato. Proprio la scorsa settimana sul miglior settimanale italiano si pubblicava un articolo di Noam Chomsky, “Il terrorismo globale degli Stati Uniti”, non ancora online, ma di cui esiste un’altra versione in rete. In estrema sintesi e alla fine Chomsky scrive (Internazionale, n. 1084, 9 gennaio 2015, p. 38):

“Con i loro interventi in Medio Oriente e la guerra in Iraq, gli Stati Uniti sono stati i principali responsabili della nascita del gruppo Stato islamico”, spiega l’ex analista della Cia Graham Fuller.

Secondo dato. A Londra a fine agosto 1987 fu assassinato Naji al-Ali. Era un vignettista palestinese e fu colpito alla testa, ma il caso non fu mai risolto giudiziariamente anche se tutti gli indizi e le ricostruzioni storiche arrivano al Mossad, i servizi segreti israeliani. Maji al-Ali era anche il creatore di Handala, un bambino diventato un simbolo della libertà e della resistenza. E anche lui usava nei suoi disegni figure della religione, p. es. Gesù sulla croce che lancia un sasso nell’intifada anticipata (vedi sopra).

Terzo dato. Oggi ho letto un cenno di analisi sociologica e culturale sull’attuale terrorismo jihadista. E’ un articolo su Il Sole 24 Ore che pubblico senza commenti.

Il jihadista che non sapeva l’arabo
di Karima Moual
Coulibaly era analfabeta della lingua “sacra” del suo Dio. È impressionante seguire quei pochi minuti del suo ultimo video, per metà in lingua francese e per l’altra, in arabo. Un francese impeccabile. E come pensare il contrario, Coulibaly è francese. L’arabo classico, la lingua del suo credo, con il quale giura fedeltà al Califfo, e ricorda qualche formula islamica, viene invece balbettato con errori grammaticali e di pronuncia, che il carnefice cerca come un bambino alle sue prime letture, di correggere.
Un’immagine triste ma chiara, di chi abbiamo di fronte. Persone fragili psicologicamente, ma anche prive di strumenti fondamentali per una presa di coscienza libera sui temi religiosi. Uno su tutti la lingua araba, la lingua della loro fede, la lingua sacra del Corano, attraverso la quale poter attingere loro stessi ai testi sacri. Insomma, non dotti di Sharia islamica, ma gente che si vota all’Islam del califfo sulla “parola” del Califfo. Il quale ovviamente si proclama conoscitore della parola di Allah, della sua volontà e del jihad contro gli infedeli.
Il Corano è un testo che da alcuni viene letto come un messaggio di pace e amore e da altri come una minaccia di violenza e terrore. Invece di dibattere su chi abbia ragione o meno, è il caso di domandarsi il perché. Al fondo della questione c’è la “parola”, l’arabo classico, la chiave della conoscenza del testo. Quanti davvero sanno leggere e conoscono la parola di Allah nel mondo musulmano?
Gli ultimi dati dell’Organizzazione araba per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Alecso) hanno stabilito che il tasso di analfabetismo nei paesi arabi ha superato il 19% e riguarda circa 97 milioni di persone. I seguaci dell’Isis e dei movimenti fondamentalisti come Boko Haram combattono dunque in nome di Allah ma sono spesso analfabeti della lingua di Allah. E non solo perché c’è una grande presenza di foreign fighters che arrivano al di fuori della dar al islam (casa dell’Islam) ma proprio per l’alto analfabetismo.
Una questione fondamentale per spiegare anche la crisi stessa dell’Islam nel mondo: l’impossibilità per ragioni culturali di poter avviare un dibattito reale e senza equivoci su cosa significhi essere musulmani nel ventunesimo secolo. La fotografia nitida dei movimenti barbari e fondamentalisti che stanno prendendo piede dalla Nigeria alla Siria è quella dell’anarchia della parola di Allah, che si basa di fondo sull’ignoranza. La crisi d’identità la sta vivendo più di tutti il mondo musulmano, altro che l’Occidente. E l’analfabetismo è un tassello fondamentale. Il mondo musulmano ha perso di vivacità quando ha iniziato a rinunciare alle sue forze critiche .
Michel Houellebecq, lo scrittore che in questi giorni viene criticato o applaudito per il suo romanzo provocatorio nella sua ultima intervista ha detto che «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani» . Ecco, forse la chiave del problema è proprio la lettura. Saper leggere e capire un testo.

Quarto dato. A proposito del libro Sottomissione di Michel Houellebecq, in uscita anche in Italia in questi giorni, il 5 gennaio, quindi prima della strage al Charlie Ebdo, il Corriere della Sera ha pubblicato un’intervista a Michel Onfray dove proprio alla fine si può leggere:

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?
«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare…».

Insomma, per fermarci a questi primi quattro dati, pare proprio che (1) il terrorismo e (2) l’assassinio dei disegnatori non sia un’invenzione jihadista, che (3) il legame culturale dei terroristi jihadisti con il Corano sia piuttosto labile (ci torneremo) e che (4) forse in Francia hanno qualche ragione speciale, più interna, per preoccuparsi dei musulmani. Perciò anche lì non credo che tutto si risolverà con la grande manifestazione di domenica 11 gennaio, dove c’erano quasi tutti i grandi del mondo in testa al corteo, forse troppi. Ma non c’erano gli Usa.

Pubblicato in Politica, Società | Contrassegnato , | Lascia un commento

Costruttori di soffitte

Una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. E’ il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravvalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto.
Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro…, ma essi non l’hanno fatto e quindi noi non abbiamo fatto nulla di più. Una soffitta su un pian terreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali ma non siete capaci che di costruire soffitte.
Differenza col Manifesto che esalta la grandezza della classe moritura.
(Antonio Gramsci, Quaderno 8, § 17 – grassetto ed evidenziazioni sono del blogger.)
Pubblicato in Cultura, Politica | Contrassegnato | Lascia un commento

Jobs Act, domani è un altro giorno

Alla vigilia di Natale il governo Renzi ha emanato alcuni decreti attuativi del Jobs Act. Due giorni senza giornali a stampa e molta ambiguità dell’editoria nazionale non hanno dato il massimo risalto all’evento, ma come al solito si è distinto il manifesto. In particolare è comparso un commento di Piergiovanni Alleva che merita la riproduzione completa. (Le evidenziazioni sono mie.)

Un lieto fine è ancora possibile
di Piergiovanni Alleva
L’emanazione del decreto attua­tivo del Jobs act, che eli­mina, in sostanza, la tutela dell’articolo 18 dello Sta­tuto per i futuri con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato non chiude affatto la par­tita, ma è solo la pre­messa del con­fronto vero che avrà per pro­ta­go­ni­sti i lavo­ra­tori, nelle piazze e, se neces­sa­rio, alle urne in un refe­ren­dum abrogativo.
Non è inu­tile, comun­que, ma anzi assai istrut­tivo, riper­corre alcuni momenti salienti della vicenda e le con­sa­pe­vo­lezze che ha con­sen­tito di acqui­sire. In primo luogo, infatti, nes­suno si azzarda più a defi­nire «di sini­stra» il governo Renzi-Poletti che si è dimo­strato tanto vio­lento e pre­va­ri­ca­tore nella sua azione con­tro i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori, quanto falso e misti­fi­cante nell’uso del suo stra­po­tere media­tico.
In cosa con­si­ste, infatti, la «rivo­lu­zione coper­ni­cana» di cui stra­parla Mat­teo Renzi a pro­po­sito dei con­te­nuti del decreto attua­tivo? Pura­mente e sem­pli­ce­mente nel con­sen­tire al datore di lavoro che voglia per qual­siasi motivo (anche il più igno­bile) sba­raz­zarsi di un lavo­ra­tore di «inven­tarsi» una ine­si­stente ragione eco­no­mico pro­dut­tiva per pro­ce­dere al licen­zia­mento, e di farlo senza timore che il suo carat­tere pre­te­stuoso venga sma­sche­rato in giu­di­zio per­ché anche in tal caso gli baste­rebbe pagare la clas­sica «mul­ta­rella» (per ogni anno di ser­vi­zio due men­si­lità con il mas­simo di 24) per lasciare comun­que il lavo­ra­tore sulla strada nella con­di­zione dispe­rata discen­dente dalla disoc­cu­pa­zione di massa.
Tutto il resto del decreto attua­tivo, com­presa la dibat­tuta que­stione della par­ziale della rein­te­gra nel caso di licen­zia­menti disci­pli­nari ille­git­timi, è sol­tanto fumo negli occhi, per­ché tutti i datori imboc­che­ranno, invece, la como­dis­sima strada del «falso» motivo eco­no­mico pro­dut­tivo. Il «pro­gres­si­sta» Renzi e il «comu­ni­sta» Poletti e tutti i loro acco­liti dovranno spie­gare un giorno che cosa vi sia di moderno, di social­mente utile, di pro­gres­sivo, di «coper­ni­cano» in que­sta sfac­ciata e disgu­stosa ingiu­sti­zia che ripu­gna prima ancora che al diritto al comune senso etico.
Il secondo inse­gna­mento della vicenda ha riguar­dato il pre­sen­tarsi, ancora una volta del clas­sico «tra­di­mento dei chie­rici» per tale inten­dendo i tec­nici, i tec­nici poli­tici e i poli­tici puri che avreb­bero dovuto garan­tire i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori assi­cu­rati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricat­ta­to­ria. Da una parte, dun­que, vi sono stati i tec­nici poli­tici che hanno lavo­rato inten­sa­mente alla for­mu­la­zione della legge delega e dei decreti attua­tivi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un grup­petto di anti­chi tran­sfu­ghi del movi­mento sin­da­cale che con l’accanimento tipico di chi «è pas­sato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gra­tui­ta­mente — per la siste­ma­tica demo­li­zione di ogni tutela dei lavo­ra­tori. Ma dall’altra parte pur­troppo vi sono stati poli­tici ossia i par­la­men­tari della cosid­detta «sini­stra del Pd», a parole del tutto con­trari al Jobs act, ma che nel con­creto hanno col­la­bo­rato in modo asso­lu­ta­mente deci­sivo alla sua ema­na­zione, e lo hanno fatto con piena con­sa­pe­vo­lezza. Prima vi è stato il «sal­va­gente» offerto al governo dal pre­si­dente della Com­mis­sione lavoro della Camera e con­si­stito nell’apparente miglio­ra­mento, con alcune pre­ci­sa­zioni, del pro­getto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di sal­vare il pro­getto di delega cer­cando di ren­derlo com­pa­ti­bile con l’articolo 76 Cost. e di que­sto abbiamo detto sulle colonne del mani­fe­sto.
Poi vi è stato, in data 3 dicem­bre 2014, l’episodio depri­mente e squal­lido che mai potrà essere dimen­ti­cato. Sem­brava che il destino avesse voluto pre­pa­rare un momento della verità: il testo del Jobs Act modi­fi­cato alla Camera per sal­varlo dall’incostituzionalità era con­se­guen­te­mente tor­nato al Senato, dove però la mag­gio­ranza del governo era assai più sot­tile. E al Senato vi erano 27 sena­tori del Pd che si erano dichia­rati con­trari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di deci­dere, hanno invece appro­vato il testo legi­sla­tivo giu­sti­fi­can­dosi con il clas­sico docu­mento «salva-anima» sulla neces­sità di non pro­vo­care crisi di governo. Ebbene, il risul­tato della vota­zione li inchioda per sem­pre alla loro respon­sa­bi­lità: vi sono stati 166 voti favo­re­voli, 112 con­trati e un aste­nuto. Se i 27 «amici» dei lavo­ra­tori e dei loro diritti aves­sero coe­ren­te­mente votato con­tro il pro­getto il risul­tato sarebbe stato di 139 favo­re­voli, 139 con­trari e un aste­nuto e poi­ché l’astensione al Senato conta voto nega­tivo il Jobs Act sarebbe andato in sof­fitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 sena­tori lo hanno poi rag­giunto nella chiu­sura di quel docu­mento di giu­sti­fi­ca­zione pro­met­tendo mas­sima vigi­lanza in sede di for­mu­la­zione dei decreti attua­tivi: enun­cia­zione ridi­cola, visto che come tutti sanno, i decreti attua­tivi il legi­sla­tore dele­gato «se li fa da solo» senza il con­corso del Parlamento.
Accanto a que­ste brut­ture, che è tri­ste ma giu­sto ricor­dare, vi sono stati, però, impor­tanti fatti posi­tivi: l’ottima riu­scita della mani­fe­sta­zioni del 25 otto­bre e del 12 dicem­bre e l’affiancamento quanto mai impor­tante, in occa­sione di quest’ultimo evento, della Uil alla Cgil. Ci sono, allora, tutte le pre­messe per un lieto fine: infatti per i con­tratti di lavoro già in essere non cam­bia ancora nulla e l’articolo 18 intanto rimane, rein­te­gra com­presa, e occor­rerà un bel po’ di tempo per­ché i nuovi con­tratti, detti «a tutele cre­scenti» ma in realtà privi di tutela pren­dano piede. Nel frat­tempo sarà allora pos­si­bile sot­to­porre tem­pe­sti­va­mente il decreto attua­tivo ad un refe­ren­dum abro­ga­tivo, e cioè al giu­di­zio popo­lare e di quei lavo­ra­tori che di con­ti­nuo Mat­teo Renzi cerca di ledere e insieme di ingan­nare. La via del refe­ren­dum abro­ga­tivo appare quanto mai sem­plice e frut­tuosa per­ché in sostanza il decreto attua­tivo intro­duce per i nuovi con­tratti un tipo di san­zione dei licen­zia­menti ingiu­sti­fi­cati diverso e se stante rispetto a quello degli altri rap­porti: per­tanto una volta abro­gato per refe­ren­dum il decreto la san­zione dell’articolo 18 torna ad essere gene­rale per rap­porti vec­chi e nuovi secondo il prin­ci­pio di «autoim­ple­men­ta­zione» dell’ordinamento. Chi scrive si per­mette di riven­di­care l’onore di poter per­so­nal­mente redi­gere i que­siti referendari.
(il manifesto, 27 dicembre 2014)
Pubblicato in Politica | Contrassegnato , | Lascia un commento

Natale

Dintorni natalizi
Natale, bambino   o ragnetto   o pennino
che fa radure limpide dovunque
e scompare e scomparendo appare
come candore e blu
delle pieghe montane
in soprassalti e lentezze
in fini turbamenti   e più
Bambino e vuoto e campanelle e tivù
nel paesetto. Alle cinque della sera
la colonnina del meteo della farmacia
scende verso lo zero, in agonia.
Ma galleggia sul buio
con sue ciprie di specchi.
Natale mordicchia gli orecchi
glissa ad affilare altre altre radure.
Lascia le luminarie
a darsi arie
sulla piazza abbandonata
col suo presepio di agenzie bancarie.
Natali così lontani
da bloccarci occhi e mani
come dentro fatate inesistenze
dateci ancora di succhiare
degli infantili geli le inobliate essenze
Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte (1999) (Inediti)
Pubblicato in Poesia | Contrassegnato | Lascia un commento

Paul Klee (1879-1940)

paul-klee-1920-angelus-novus

Centotrentacinque anni fa nasceva Paul Klee (Münchenbuchsee, 18 dicembre 1879 – Muralto, 29 giugno 1940), il pittore del Novecento che mi ha più intrigato. Autore di tanti disegni e dipinti ma anche grande produttore di idee, almeno finché il nazismo lo permise, la sua opera è troppo grande ed intensa per essere da me facilmente sintetizzata. Così tento un approccio ellittico, come direbbe Benedetto Croce.

Riporto qui sopra un suo quadro del 1920, Angelus Novus, celebre anche perché legato alla vita intellettuale di Walter Benjamin. Comperato a metà 1921, Benjamin lo tenne quasi sempre con sé, anche nell’esilio parigino. Lo diede in consegna a George Bataille solo poco prima del fatale tentativo di fuga verso la Spagna. Ma il quadro l’aveva ispirato da tempo ed a lui è dedicata forse la più celebre delle sue tesi Sul concetto di storia.

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera. (Tesi IX)

Questo testo trova una particolare sintesi in uno dei testi preparatori:

Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno. (Ms 1100)

I profeti – cioè coloro che vedono le cose in anticipo rispetto a tutti – sono sempre esistiti, non solo nell’antichità, ma esistono tutt’ora. Benjamin era un profeta che scriveva e Paul Klee uno che disegnava il futuro.

(I testi sono tratti da: Benjamin W., Sul concetto di storia [1940], a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino 1997.)
Pubblicato in Arte | Contrassegnato | Lascia un commento

Syriza e Podemos, ma in Italia no?

Luciano Gallino riassume alla sua maniera la situazione in Grecia e Spagna e si preoccupa di dare uno sbocco politico alle grandi manifestazioni di questi mesi in Italia. Purtroppo non affronta in senso più allargato la questione italiana. Infatti, non c’è solo l’inadeguatezza della sinistra radicale (ma non so neanche più come chiamarla).

In questi ultimi anni, prima col fenomeno Grillo e poi con quello Renzi, c’è stata una grande operazione mediatica, in senso lato. Entrambi i fenomeni hanno pressoché prosciugato il bacino di una generazione politica post Novecento. Siamo in presenza di dirigenti e militanti che si e no sanno cos’è stata la Resistenza, cos’è stato il regime democristiano, cos’è stato il terrorismo in Italia, chi era Enrico Berlinguer, cos’è stata Mani Pulite, etc. Sono nati e cresciuti politicamente all’epoca della degenerazione berlusconiana, alcuni schifati dai metodi, altri pienamente inseriti nel modello, tutti sostanzialmente indifferenti ai problemi veri dei cittadini più sfigati, dei poveri, degli emarginati, e presi sostanzialmente dai problemi loro e di quelli a loro più simili.

I più deboli sembrano ormai a carico solo dei sindacalisti, dalla Camusso a Landini della Cgil, ma adesso anche da quelli della Uil, anche grazie ad un cambio di guida. Oggi perfino il presidente Napolitano li ha incredibilmente bacchettati, perché stanno esagerando. Quindi sono proprio sulla buona strada.

Ma leggere Luciano Gallino è sempre utile.

Uno Tsipras per l’Italia
di Luciano Gallino
Tra coloro che hanno partecipato alle dimostrazioni per lo sciopero di venerdì 12 dicembre si contano forse numerosi elettori potenziali per lo sviluppo di una nuova ampia formazione politica, in grado di opporsi alle catastrofiche politiche di austerità imposte da Bruxelles e supinamente applicate dal nostro governo. Non si tratta di fare un esercizio astratto sul futuro del nostro sistema politico. Se una simile forza di opposizione non si sviluppa, quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli esiti imprevedibili. Il governo è seduto su un vulcano, e intanto gioca a far “riforme” che peggiorano la situazione.
Chi volesse porre mano alla costruzione della nuova formazione politica potrebbe trarre indicazioni utili da quanto accade in Grecia e in Spagna. Sono due casi diversi. Nel primo siamo dinanzi a una “Coalizione della Sinistra Radicale” (acronimo Syriza) nata dieci anni fa e guidata dal 2007 da Alexis Tsipras dopo il primo grande successo elettorale. Nel 2012 è diventata il secondo partito greco. Al presente i sondaggi lo danno come il probabile vincitore delle prossime elezioni, nel caso che il governo Samaras non riesca a eleggere il presidente della Repubblica.
Syriza non vuole affatto distruggere la Ue. Vuole cambiarla. Il suo successo è dipeso da una radicale opposizione ai provvedimenti imposti dalla troika con il Memorandum d’Intesa del 2011, che ha obbligato la Grecia a tagliare pesantemente salari, stipendi e pensioni; a distruggere la sanità pubblica; a vendere ai privati beni pubblici essenziali, facendo piombare l’intero Paese nella miseria e nella disperazione. Tra i punti principali del programma di Syriza, oltre ad annullare i provvedimenti che s’è detto, v’è la proposta di una conferenza internazionale sul debito pubblico, allo scopo di ottenere che gli interessi dei cittadini non siano perennemente subordinati, come avviene ora, agli interessi delle grandi banche. Si vuole altresì richiedere alla Ue di cambiare il ruolo della Bce in modo che finanzi direttamente investimenti pubblici, e di indire una serie di referendum su vari punti dei trattati dell’Unione e altri accordi con le istituzioni europee.
Diversamente da Syriza, in Spagna “Podemos” sembra per così dire nato dal nulla. Fondato nel gennaio 2014 da una trentina di persone provenienti da diversi partiti, intellettuali, esponenti di movimenti, coordinate dal trentenne Pablo Iglesias Turrión, appena quattro mesi dopo raccoglie abbastanza voti da mandare a Strasburgo cinque eurodeputati. Al presente viene accreditato di oltre il 27 per cento dei voti, quasi due punti in più dei socialisti e ben 7 in più rispetto ai popolari. Ancor più di Syriza, il programma di Podemos è fortemente caratterizzato da proposte volte a modificare gli aspetti più deleteri del Trattato Ue. Tra i punti salienti del suo programma troviamo: la conversione della Bce in una istituzione democratica che abbia per scopo principale lo sviluppo economico degli stati membri (punto 1.3); la creazione di una agenzia pubblica europea di valutazione (1.4); una deroga dal Trattato di Lisbona.
Nell’insieme, i due programmi di Syriza e di Podemos appaiono essere più solidamente social-democratici, concreti e adeguati alla situazione attuale della Ue e alle sue cause di quanto qualsiasi altro partito europeo abbia finora saputo esprimere. Non per nulla i due partiti sono già oggetto di un furibondo bombardamento denigratorio da parte dei media, della troika, dei think tanks sovvenzionati dal mondo finanziario, e dei politici incapaci di pensare che al di là dell’Europa della finanza si potrebbe costruire un’Europa dei cittadini.
Va ricordato al riguardo che il Trattato Ue non è affatto immodificabile, come a volte si legge. L’art. 48, comma 1, prevede esplicitamente che «I trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione ordinaria». Il comma 2 precisa: «Il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati ». Pertanto la questione, come si diceva una vita fa, è soprattutto politica. Ma nessuno ha mai sentito un solo politico che mostri di avere una conoscenza minimale dei trattati Ue, e ammetta che non sono scolpiti nel granito. In realtà si possono cambiare, ed è indispensabile farlo, a condizione di costruire una forza politica all’altezza del compito.
Al lume delle esperienze di Syriza e Podemos, come si presenta la situazione italiana? Sulle prime si potrebbe pensare che quanto rimane di Sel, di Rifondazione, dei Comunisti Italiani, insieme con qualche transfuga del Pd, potrebbe dar origine a una coalizione simile a quella di Syriza. Purtroppo la storia della nostra sinistra è costellata da una tal dose di litigiosità, e da un inesausto desiderio di procedere comunque a una scissione anche quando si è rimasti in quattro, da non fare bene sperare sul vigore e la durata della nuova formazione. Si può solo sperare che la drammaticità della situazione spinga in futuro a comportamenti meno miopi, ma per farlo bisogna davvero credere nell’impossibile. In ogni caso non si vede, al momento, da dove potrebbe arrivare la figura di un leader simile a Tsipras o a Turrión, colto, agguerrito sui temi europei, capace di farsi capire e convincere, esponendo al pubblico in modo accessibile dei temi complessi.
Qualcosa di analogo vale naturalmente per chi, scettico sulla possibilità di recuperare i frammenti delle vecchie sinistre, pensasse di costituire una formazione interamente nuova, come han fatto quelli di Podemos in Spagna. Che si sono dimostrati pure efficaci organizzatori, costituendo in pochi mesi centinaia di circoli di discussione in tutto il Paese. Un contributo potrebbe forse venire dalle esperienze di “Cambiare si può” o della stessa Lista Tsipras; non certo finite bene, ma che sono stati episodi di auto-organizzazione di una certa ampiezza. A fronte di un programma realistico, affine a quelli di Podemos e Syriza (con tutte le variazioni del caso), tali esperienze potrebbero trovare un baricentro che ai loro tempi non avevano. Il fatto è che il tempo urge, prima che il Paese caschi a pezzi. Una simile urgenza, che il popolo dello sciopero di venerdì scorso sentiva benissimo, insieme con l’attrattiva di un impegno realistico per ridare peso nella Ue a ideali come eguaglianza, solidarietà, partecipazione democratica, al posto della lugubre e distruttiva Ue della finanza, potrebbero contribuire a raccogliere molti più consensi di quanto oggi non si possa sperare.
(la Repubblica, 16 dicembre 2014, p. 31)
Pubblicato in Politica | Contrassegnato , | Lascia un commento