In morte di uno scalatore

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In questi giorni una terribile tragedia ha colpito una famiglia di Cinto Caomaggiore, la sua comunità e quella di alcuni sportivi molto diffusi dalla nostre parti, i ciclisti. Lunedì 23 marzo, circostanze ancora da chiarire è morto il giovane Andrea Carolo, di 21 anni, pare dopo una sauna, comunque presso un centro sportivo e fitness portogruarese.

Andrea, che era ormai in attesa di diventare professionista, secondo le parole del padre Giorgio era un notevole scalatore. Nel 2010, quindi a diciassette anni, scalò il Col du Tourmalet, un percorso classico del Tour de France, senza metter piede a terra (sono in entrambi i versanti circa 17 km a 7,5% di pendenza media). Oggi, dopo un passaggio in un centro salute (destino cinico e baro) non c’è più.

Ma il padre ha annunciato qualcosa di nobile, quindi di difficile: «Ho deciso. Dopo le esequie andremo in un bar e faremo un brindisi. Solleveremo tutti insieme una pinta di birra e brinderemo. Alla memoria di mio figlio.» (dichiarazione riportata da Rosario Padovano su la Nuova di oggi). Bravo il padre Giorgio e un saluto alla memoria di Andrea, il grimpeur.

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Vorrei salutarti anch’io Andrea.
Fausto Coppi

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(Tourmalet 1949)
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Il programma di Tsipras

Una foto può spiegare una situazione più di molte parole.

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Oltre la forma repubblicana

Sulla revisione costituzionale votata ieri, riproduco anche l’intervista a Stefano Rodotà pubblicata da Il Fatto Quotidiano.

Stefano Rodotà: “Così stravolgono anche la forma repubblicana”
di Silvia Truzzi
E dunque, nonostante i Nazareni tramontati e i mal di pancia dei dissidenti Pd, si va verso la riforma del Senato. “Questa riforma è un cambiamento radicale del sistema politico-istituzionale: cambia la forma di governo e viene toccata la forma di Stato”, spiega Stefano Rodotà, emerito di diritto civile alla Sapienza. “E dire che si sarebbe dovuto procedere con la massima cautela: questo Parlamento è politicamente delegittimato dalla sentenza della Consulta. Invece si è scelto di andare avanti imponendo un punto di vista non rivolto al Parlamento, ma a un patto privato, il Nazareno”.
Lei – come altri “professoroni” – è stato da subito molto critico.
La riforma è un’occasione perduta: la discussione che all’inizio era stata generata dalle proposte del governo, aveva determinato una serie di indicazioni che non erano tese all’immobilismo, ma partivano da due premesse. Il Titolo V è stato un disastro e il bicameralismo perfetto non può essere mantenuto: si poteva inventare – era possibile – una forma di organizzazione che concentrasse il voto di fiducia nella Camera superando il sistema attuale, creando nuovi equilibri e controlli e non scardinando la Repubblica parlamentare voluta dalla Costituzione. Ora si comincia ad avere la consapevolezza di ciò che sta accadendo: molti tra quelli che avevano detto “non esageriamo, non si dica svolta autoritaria ” stanno cambiando idea. Si parla di un’Italia a rischio “democratura”, di tendenze plebiscitarie, di deperimento del sistema dei controlli. Se ne sono accorti un po’ tardi.
L’Italia non sarà più una Repubblica parlamentare?
Formalmente resterà tale, ma ci sarà un accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo e della Presidenza del Consiglio e insieme una depressione di ogni forma di controllo. Non dimentichiamo mai che questa riforma è accompagnata da una proposta di legge elettorale che costruisce una maggioranza artificiale nell’altra Camera: Montecitorio diventerà un luogo di ratifica delle decisioni del governo.
Lei dice: “Si tocca anche la forma di Stato”: cambierà l’equilibrio tra governanti e governati?
L’ultimo articolo della Carta dice che la forma repubblicana non è modificabile. Non vuol dire solo che non si può tornare alla monarchia: si vuol dire che la forma di Stato delineata dalla Costituzione – una delle nuove costituzioni del Dopoguerra, segnata dal passaggio da Stato di diritto a Stato costituzionale dei diritti – è una combinazione tra repubblica parlamentare e repubblica dei diritti. Se si abbandona questa strada, si rischia di uscire dall’art. 139 modificando la forma repubblicana, ritenuta invece un limite invalicabile.
I richiami sulla gravità di questo passaggio sono stati trascurati?
Assolutamente sì, tanto che oggi siamo alla fine di un iter molto preoccupante perché nasce dalla cultura della decisione. In questi anni decidere è stato considerato l’unico imperativo.
Di fatto, si sono già modificati i rapporti tra governo, parlamento e partiti. Basta vedere quante leggi per decreto, o le indiscrezioni sulla riforma della Rai.
C’è già una trasformazione del sistema. L’abuso della decretazione ha una lunga storia in Italia, ma il decreto legge è stato impugnato come un’arma, dicendo “è l’unico modo che consente di decidere”. Sulla Rai c’è un punto fermo rappresentato da una sentenza della Consulta che ha esplicitamente detto che la Rai è affare di parlamento e non di governo. Comunque se il controllo parlamentare avrà le caratteristiche derivate dal combinato disposto di riforme e Italicum, quel Parlamento non sarà altro che la prosecuzione dell’esecutivo: la designazione da parte del governo di un amministratore delegato, non troverà nel Parlamento nessuna forma di controllo.
Anche sul Jobs Act, il governo non ha tenuto in considerazione il parere delle commissioni Lavoro contrarie a inserire nel testo i licenziamenti collettivi.
La crescente delegittimazione del Parlamento è evidente. Il tema del licenziamento collettivo non è un fatto marginale, cambia la qualità della disciplina del licenziamento. Il parere delle commissioni non era vincolante certo, ma la domanda è: il governo tiene conto del parere del Parlamento? La risposta è: no.
La questione centrale della riforma come dell’Italicum – sottolineata anche dai giudici della Consulta sul Porcellum – è la rappresentanza dei cittadini.
Ci sono molti dubbi anche sull’Italicum: la Corte dice chiaramente che l’obiettivo e ricostituire le condizioni della rappresentanza. Aggiungo: sei mesi prima della sentenza sul Porcellum, la Corte si era espressa a favore della Fiom contro la Fiat sulla rappresentanza dei lavoratori nelle commissioni. Voglio dire: la Consulta afferma a diversi livelli che una delle caratteristiche del nostro sistema è la garanzia della rappresentanza.
Renzi ha detto che con il referendum decideranno i cittadini.
Vorrei far notare che questo è un potere dei cittadini, previsto dalla Carta, non una concessione del governo. Ora viene adoperato per dire alla minoranza del Pd: non vi prendiamo in considerazione, decideranno i cittadini. Cioè di nuovo l’insignificanza del Parlamento.
Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2015 (p. 3)
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Verso la democratura?

Oggi alla Camera si è votata la revisione costituzionale sulla quale Renzi ha probabilmente forzato anche per ragioni di tattica politica piuttosto chiare, perché: (1) ha giustificato il patto con Berlusconi, mescolando così la sua immagine nei calderone dei tradizionali elettorati italiani (destra, centro, sinistra); (2) ha creato le condizioni per tenere sotto controllo/ricatto la minoranza Pd, emarginata poi in maniera brutale sulle riforme economiche (soprattutto il Jobs Act); (3) ha di fatto impedito al M5S di partecipare alla discussione, sfruttando cinicamente la sua autoemarginazione iniziale.

Eppure, oltre alla tattica politica, questa è senz’altro una riforma storica, anzi, sarà ricordata come una riforma storica votata da un parlamento dichiaratamente illegittimo. In realtà non c’è stato né grande interesse né tantomeno grande battaglia politica e ideale su queste riforme. E solo adesso si comincia a parlare perfino in termini di democratura, neologismo coniato nel 1992 da Max Liniger-Goumaz che unisce democrazia e dittatura. Infatti, la maggior preoccupazione viene proprio dal contenuto della riforma stessa.

(Per inciso, qualsiasi commento sul comportamento della minoranza Pd che ha votato a favore più che superfluo mi pare inutile. Dobbiamo guardare da un’altra parte.)

Riproduco qui il miglior articolo informativo che ho letto sul contenuto della riforma.

Ecco al Costituzione di Palazzo Chigi
di Andrea Frabozzi
La legge di revi­sione costi­tu­zio­nale che oggi sarà appro­vata dalla camera modi­fica 47 arti­coli sui 134 che com­pon­gono l’attuale Costi­tu­zione. Più del 35%: l’intera seconda parte (Ordi­na­mento della Repub­blica) e un solo arti­colo, il 48, della prima parte (Diritti e doveri dei cit­ta­dini). Il dise­gno di legge porta la firma di Mat­teo Renzi e Maria Elena Boschi ed è stato gestito come un affare di stretta com­pe­tenza del governo (con una sorta di que­stione di fidu­cia: «Se il par­la­mento non fa le riforme va a casa») attra­verso tempi con­tin­gen­tati, «can­guri» (emen­da­menti can­cel­lati a bloc­chi) e una seduta fiume alla camera. Dovrà tor­nare al senato — che però potrà discu­tere solo i 10 arti­coli modi­fi­cati dalla camera — e, dopo la pausa di rifles­sione di tre mesi, dovrà pas­sare per il voto con­forme a mag­gio­ranza asso­luta dei due rami del par­la­mento. Poi il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo, con il quale si chie­derà ai cit­ta­dini un voto pren­dere o lasciare su tutta la riforma. Non ci sarà cioè quel refe­ren­dum «omo­ge­neo» per mate­ria pre­scritto dalla Corte Costi­tu­zio­nale e con­si­de­rato ormai un punto fermo dai costi­tu­zio­na­li­sti, al punto da essere stato pre­vi­sto nella pre­ce­dente ipo­tesi di riforma «lar­ghe intese» (governo Letta).
Le prin­ci­pali modi­fi­che alla Costi­tu­zione pos­sono essere rias­sunte in otto punti; tre invece sono le parole d’ordine scelte dal governo: fine del bica­me­ra­li­smo, sem­pli­fi­ca­zione, rispar­mio. Tre slo­gan finiti in un solo arti­colo, il nuovo 55 della Costi­tu­zione, che cre­sce da 5 a 35 righe: d’ora in poi solo i depu­tati «rap­pre­sen­tano la nazione» men­tre il nuovo senato «rap­pre­senta le isti­tu­zioni ter­ri­to­riali». Secondo Renzi l’abolizione del senato elet­tivo e delle pro­vince pro­durrà un taglio di spesa di un miliardo, secondo la Ragio­ne­ria gene­rale dello stato rispar­mie­remo solo 49 milioni.
1 – Senato non elet­tivo. In luogo di 315 sena­tori eletti da tutti i cit­ta­dini che hanno com­piuto 25 anni, a palazzo Madama sie­de­ranno in 95 scelti dai con­si­glieri regio­nali all’interno dei con­si­gli e tra i sin­daci della regione. Altri cin­que sena­tori potranno essere scelti «per altis­simi meriti» dal pre­si­dente della Repub­blica per un inca­rico di sette anni. Le moda­lità di ele­zione all’interno dei con­si­gli regio­nali sono tutte da scri­vere: una buona simu­la­zione è rap­pre­sen­tata dalla recente sele­zione dei dele­gati per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica: il Pd da solo si è aggiu­di­cato circa il 60% dei posti. La com­po­si­zione del senato cam­bierà con il suc­ce­dersi delle con­si­lia­ture regio­nali, e anche il numero totale dei sena­tori potrà aumen­tare o dimi­nuire in caso di novità nei cen­si­menti. Il senato non vota la fidu­cia al governo.
2 – Pro­ce­di­mento legi­sla­tivo. L’articolo 70 della Costi­tu­zione è attual­mente di una sola riga: «La fun­zione legi­sla­tiva è eser­ci­tata col­let­ti­va­mente dalle due camere». Il nuovo è di oltre cin­quanta righe. Pre­vede in sin­tesi quat­tro pro­ce­dure: 1) Le leggi costi­tu­zio­nali sono appro­vate da entrambe le camere. 2) Sulle leggi ordi­na­rie il senato può even­tual­mente espri­mersi dopo che la camera le abbia appro­vate, ma la camera ha l’ultima parola a mag­gio­ranza sem­plice. 3) Per alcune leggi com­prese in un elenco di mate­rie (tutela dell’interesse nazio­nale) se il senato si esprime a mag­gio­ranza asso­luta la camera può igno­rare la deli­be­ra­zione ma votando anche lei a mag­gio­ranza asso­luta. 4) Il senato può pro­porre una legge alla camera votan­dola a mag­gio­ranza asso­luta, ma la camera può igno­rare la pro­po­sta a mag­gio­ranza sem­plice. Su even­tuali, pre­ve­di­bi­lis­simi, con­flitto di attri­bu­zione tra le due camere «deci­dono i pre­si­denti delle camere d’intesa tra loro». Nulla si dice nel caso di man­cata intesa.
3 – Voto a data certa. Il governo potrà chie­dere alla camera di votare in maniera defi­ni­tiva entro settanta giorni una legge che con­si­dera «essen­ziale per l’attuazione del pro­gramma». Il ter­mine include i tempi neces­sari per l’eventuale esame del senato. Il nuovo isti­tuto non sosti­tui­sce i decreti legge, per i quali ven­gono solo pre­vi­sti in Costi­tu­zione quei limiti per mate­ria (leggi costi­tu­zio­nali, leggi elet­to­rali e altre) che già sono pre­vi­sti oggi dalla legge ordi­na­ria.
4 – Giu­di­zio pre­ven­tivo di costi­tu­zio­na­lità. È pre­vi­sto solo per le leggi elet­to­rali, com­presa quella che sarà even­tual­mente appro­vata (Renzi se lo augura) nelle legi­sla­tura in corso (l’Italicum). Un terzo dei sena­tori o un quarto dei depu­tati potranno chie­dere alla Con­sulta di valu­tare la legit­ti­mità delle nuove norme elet­to­rali una volta con­cluso l’esame delle camere e prima che la legge venga pro­mul­gata dal capo dello stato. Si dovreb­bero così evi­tare nuovi casi «Por­cel­lum».
5 – Stru­menti di demo­cra­zia diretta. Il governo ha detto di volerli age­vo­lare, le modi­fi­che vanno nel senso oppo­sto. Per una legge di ini­zia­tiva popo­lare occor­re­ranno il tri­plo delle firme (da 50mila a 150mila), viene enun­ciato il prin­ci­pio che il par­la­mento deve garan­tirne l’esame, rin­vian­dolo però ai rego­la­menti par­la­men­tari. Ven­gono citati in costi­tu­zione i refe­ren­dum pro­po­si­tivi e di indi­rizzo, ma anche in que­sto caso c’è un rin­vio: a una pros­sima legge costi­tu­zio­nale. Infine cam­biano i numeri del refe­ren­dum abro­ga­tivo: se la pro­po­sta è sot­to­scritta dagli attuali 500mila elet­tori con­ti­nuerà a essere richie­sta la par­te­ci­pa­zione del 50% più uno degli aventi diritto al voto per­ché il refe­ren­dum sia valido. Se invece le firme saranno 800mila basterà il 50% più uno dei votanti alle ultime ele­zione per la camera.
6 – Deli­be­ra­zione dello stato di guerra. Passa dalla com­pe­tenza bica­me­rale e quella della sola camera, che dovrà deci­dere a mag­gio­ranza asso­luta. Ma la legge elet­to­rale in arrivo (Ita­li­cum) garan­ti­sce quella mag­gio­ranza a un solo par­tito. Resta pre­vi­sto che una legge sem­plice può pro­ro­gare la durata della camera in caso di guerra. E così, almeno in teo­ria, viene messo in mano a un solo par­tito lo stru­mento per rin­viare le ele­zioni poli­ti­che.
7 – Ele­zione del pre­si­dente della Repub­blica. Perde buona parte della carica bipar­ti­san per effetto della dimi­nu­zione dei sena­tori e dell’abolizione dei dele­gati regio­nali. Sono pre­vi­sti tre quo­rum: due terzi dei com­po­nenti per i primi tre scru­tini, tre quinti dei com­po­nenti dal quarto scru­ti­nio e tre quinti dei votanti dal set­timo. A conti fatti (con l’Italicum) il primo par­tito potrebbe con­tare su 410 grandi elet­tori, doven­done met­tere insieme dal quarto scru­ti­nio appena 438.
8 – Titolo V. Viene sop­pressa la com­pe­tenza con­cor­rente tra stato e regioni, cre­sce rispetto alla Costi­tu­zione vigente l’elenco delle mate­rie di com­pe­tenza esclu­siva dello stato (l’articolo 117 mette in fila 21 grandi capi­toli, dalla poli­tica estera ai porti e aero­porti). Viene intro­dotta la «clau­sola di supre­ma­zia» in base alla quale il par­la­mento può legi­fe­rare anche in mate­rie di com­pe­tenza regio­nale «quando lo richieda la tutela dell’unità giu­ri­dica o eco­no­mica della Repub­blica ovvero l’interesse nazio­nale». Ma a deci­dere di far scat­tare la clau­sola potrà essere solo il governo.
il Manifesto, 10 marzo 2015 (pp. 4-5)
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Una riforma forse troppo semplice

Finalmente anche in Italia si parla del reddito minimo. Riporto dal blog di Alessandro Gilioli, sempre molto chiaro.

Riforme
di Alessandro Gilioli
Dopo essere stato per anni considerato una richiesta da estremisti, il reddito minimo è finalmente entrato nel dibattito politico come un’opzione percorribile, di cui è il caso di occuparsi in fretta. Solo negli ultimi giorni, ad esempio, la sua urgenza è stata notata da dall’economista presidente dell’Inps Tito Boeri e dal fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari: due di certo non sospettabili di simpatizzare per il Movimento 5 Stelle o per la sinistra radicale, le uniche aree che finora l’hanno proposto, anche in Parlamento.
Un reddito minimo, in varie forme, esiste in quasi tutta Europa ed è anche una di quelle cose che ci chiede l’Europa: con una raccomandazione del 1992 e con una risoluzione del 2010.
In passato si era detto favorevole a forme di sostegno di questo tipo anche l’ex direttore di Confindustria Innocenzo Cipolletta, come misura per rilanciare i consumi e la crescita.
Il dibattito in merito è approfondito da tempo, la letteratura è vasta e le simulazioni quasi infinite. Nonostante questo, c’è ancora chi vi si oppone di solito per motivi di scarsissimo studio: ancora oggi sentivo alla radio Claudio Velardi sostenere che il reddito minimo “disincentiva al lavoro”, segno che non ha mai letto nemmeno un rigo delle diverse ipotesi di modalità con cui entrerebbe in funzione questa legge, che se scritta decentemente avrebbe esattamente l’effetto opposto a quello temuto.
Altra argomentazione sollevata di frequente è quella delle “coperture”, ma pure qui le proposte in merito sono diverse e spesso serie: anche quella M5S, ad esempio, cita le possibili entrate o minori uscite che sosterrebbero le spese, dai tagli alle forze armate all’azzardo. Tra le altre cose, se ha ragione Cipolletta nel sostenere che il reddito minimo avrebbe effetti espansivi, è evidente che questi avrebbero a loro volta conseguenze positive per il bilancio dello Stato, diminuendo quindi l’impatto di spesa del reddito minimo stesso.
In realtà sia l’alibi delle coperture sia le riserve di tipo culturale sono figlie di scelte politiche a tutto tondo: il reddito minimo sarebbe il primo grande provvedimento che va nel senso opposto a tutti quelli che abbiamo visto negli ultimi anni, il cui scopo ed effetto è stato quello di spostare i rapporti di forza a favore dei più forti e a sfavore dei più deboli. Sarebbe cioè la prima vera inversione di tendenza rispetto alla lotta di classe dall’alto verso il basso che da trent’anni a questa parte ha impoverito il ceto medio riducendo nel contempo i diritti e le condizioni di quelli più bassi.
Sarebbe insomma, una “riforma”. Parola bellissima che da tempo, nella narrazione d’establishment, è stata tristemente e dolosamente rovesciata nel suo contrario.
(Dal blog “Piovono rane” – www.repubblica.it)
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Io adoravo Sivori

omar-sivori

Omar Sivori (1935-2005) moriva dieci anni fa. E’ stato un mio mito giovanile. Per chi non l’ha conosciuto guardi almeno qui. (Ma YouTube è pieno di video su Sivori.)

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Basta un tweet per salvarsi l’anima?

corvus-corax (Corvus corax)

Dopo gli ultimi (forse) 300 morti annegati e di freddo al largo di Lampedusa, si può leggere (L’Huffington Post):

Il silenzio del governo. Il ministro per gli Esteri, Paolo Gentiloni, ha ammesso: “Triton non è sufficiente”. Per decisione del governo di Matteo Renzi l’operazione Triton, lanciata dall’agenzia europea Frontex, ha sostituito completamente Mare Nostrum alla fine del 2014 nonostante le forti critiche anche della Marina militare italiana, che metteva in guardia sulla possibilità che avvenissero nuove tragedie del mare come questa.
Enrico Letta, l’ex presidente del consiglio che diede vita a Mare Nostrum nell’ottobre del 2013, ha chiesto con un tweet di ripristinare la missione senza calcolare gli effetti politici:
#RipristinareMareNostrum. Che gli altri paesi europei lo vogliano oppure no. Che faccia perdere voti oppure no. (14:57 – 11 Feb 2015)

Uno non comunica, l’altro fa un bel tweet: ma via le ansie elettorali! (E pare che questi due siano anche cattolici credenti…) Io credo che la politica italiana sia arrivata al livello di completa amoralità. Non mi resta che aspettare un cristiano antico, un Alighieri, che li metta almeno all’inferno, loro e un mucchio d’altri. E che l’uccellino diventi loro nero, come un corvo del malaugurio.

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L’etica del randagio

loukanikos-luganega

Oggi sul web è stato rievocato Loukanikos (in greco salsiccia, cioè luganega), il cane prima randagio, poi adottato, molto fotografato in questi anni durante le manifestazioni in Atene. Non ce l’ha fatta a festeggiare la vittoria di Syriza, aveva dieci anni ed è morto in ottobre. Ma i greci lo ricordano, lo dipingono sui muri e lo salutano con striscioni allo stadio. C’è anche una ballata dedicata a lui. Perché Loukanikos c’era sempre ed in prima fila. Capiva bene da che parte stare.

Vedi: “Loukanikos, il cane anti-Troika, grande assente alla festa di Tsipras”, su Repubblica.it.
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Memoria da curare

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Il 27 gennaio 1945, settant’anni fa, le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz liberando i pochi internati sopravvissuti. Oggi è dunque il “Giorno della Memoria“. Si ricorda soprattutto il genocidio degli ebrei, la Shoah (resa “Olocausto” in italiano). La memoria è importante, sapere cosa è avvenuto, la vista dei luoghi e dei materiali, la testimonianza, il racconto dei superstiti, vanno coltivate con costanza e sacralità. (Io credo che sarebbe bene che l’Ue prevedesse la spesa per far visitare a tutti i giovani cittadini europei i luoghi della Shoah, magari come gita scolastica nel periodo delle scuole medie.)

Ma oltre a ciò che è avvenuto è bene sapere anche perché. Perché i tedeschi e perché gli ebrei? Per lo più si semplifica dicendo o scrivendo che l’antisemitismo ideologico, religioso e filosofico, è diventata violenza e sterminio in un determinato tempo storico, per responsabilità di uno o pochi pazzi. Questo atteggiamento non è molto diverso da chi nega che ci siano stato lo stesso sterminio (il negazionismo). Nell’impossibilità di concentrare qui discorsi necessariamente lunghi e impervi, mi permetto di consigliare la lettura di tre libri.

Il primo è un testo di storia del pensiero di Donatella Di Cesare (Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», Bollati Boringhieri, Torino 2014), dove – prendendo spunto da una vicenda editoriale attuale e dall’annosa questione dei rapporti tra Heidegger ed il nazismo – si ricostruiscono i precedenti del pensiero tedesco (Lutero, Kant, Hegel, Nietzsche, fino all’hitleriano Mein Kampf) sulla “questione ebraica” e si leggono questi nuovi testi heideggeriani su quella scia. Inutile dire che è una lettura impegnativa, ma ne vale la pena.

Segnalo poi due libri di uno storico tedesco, Götz Aly, entrambi pubblicati da Einaudi: (1) Perché il tedeschi? Perché gli ebrei. Uguaglianza, invidia e odio razziale. 1800-1933, Einaudi, Torino 2013 e (2) Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, Einaudi, Torino 2007. Vanno letti possibilmente nell’ordine inverso alla loro uscita, ma anche indipendentemente. Il primo spiega nei termini dell’antropologia sociale cosa sia l’antisemitismo storico dei tedeschi. Una costruzione progressiva del XIX secolo che trova l’apice col nazismo. Anche qui l’autore non ha dubbi: l’olocausto non è un’invenzione del razzismo hitleriano e perciò si può anche ripetere.

Il secondo mi fece una certa impressione quando lo lessi. In maniera molto chiara e convincente dimostra come l’avventura nazista fosse intrecciata al consenso sociale e come nella folle corsa di pochi anni, dal 1933 al 1945 in permanente stato di emergenza, i tedeschi approfittassero della generosità del regime che rapinava territori invasi e popoli sottomessi. L’autore alla fine cita un ufficiale britannico, Julius Posener, che nell’aprile 1945 rimase piuttosto colpito: «Non c’era corrispondenza tra la gente e le distruzioni. La gente aveva un bell’aspetto, erano tutti rosei, allegri, curati e assai ben vestiti. Quello che esibiva in tal modo i suoi risultati era un sistema economico che era stato tenuto i piedi fino alla fine dal lavoro di milioni di mani straniere e dalla rapina di tutti il continente» (pp. 361-362). E gli ebrei, il loro esproprio e sterminio, erano serviti proprio a questo, a tenere i tedeschi “rosei, allegri, ben curati”. Come quelli di oggi.

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Niente di nuovo, è solo trasformismo

Riporto l’intervista a Gad Lerner pubblicata oggi su il Fatto Quotidiano. Le evidenziazioni sono mie.

Gad Lerner: “Matteo rincorre la destra, cerca risse e vuole la scissione”
di Carlo Tecce
Gad Lerner fa un lungo ragionamento, lo avvolge con citazioni storiche, rimandi ideologici e schiette constatazioni, e poi estrapola la sintesi, che non può essere interpretata male: “Matteo Renzi cerca la rissa, la rottura, l’emorragia a sinistra per riparare in mediana, dove si mescolano moderati di centro e di destra. È un raffinato giocatore, uno spregiudicato, ma stavolta rischia molto”. Lerner è un giornalista, scrive sui giornali e conduce programmi tv, ma è anche un fondatore del Partito democratico e un componente dell’assemblea nazionale. Il disagio è evidente, e ogni risposta ne riflette la portata: “Il premier scherza con il fuoco”.
Italicum e Liguria, uscite volontarie e cacciate minacciate, cosa accade?
Mi sto convincendo, spero di avere torto ma temo di no, che Renzi persegua la scissione. E questo atteggiamento non è dovuto solo alla sua proverbiale impulsività, il dileggio a Stefano Fassina e Gianni Cuperlo, il sarcasmo sulla minoranza o su Susanna Camusso o piuttosto sui professoroni, ma è evidente che faccia parte di un calcolo consapevole. Nei giorni scorsi, per la prima volta, una persona misurata come Cuperlo ha ipotizzato una mutazione genetica del Pd. Senza chiamare in causa la bioetica, ci sono dei segnali che vanno in questa direzione, oltre il patto del Nazareno.
E cosa fa scattare l’allarme?
La scelta dichiarata in Liguria di un’alleanza con il centrodestra fa venire più di un sospetto. Renzi vuole l’incidente a sinistra per poi occupare uno spazio in mezzo e attrarre i berlusconiani delusi. Pensa che può anche permettersi di perdere qualche punto a sinistra, perché convinto che li possa recuperare altrove. Per Renzi l’ideale sarebbe stato un movimento magari guidato da Maurizio Landini, uno schieramento subalterno però vicino. Il meccanismo che ha innescato è pericoloso. In Italia non esiste un Alexis Tsipras. Ma da fondatore del Pd resto dell’idea che sia necessario un contenitore con dentro le culture riformiste.
Renzi vuole riesumare la Democrazia cristiana un po’ colorata di rosso?
Non uso l’espressione mutazione genetica che è demonizzante, ma trasformismo. Un tipico fenomeno politico. Giovanni Giolitti fu trasformista, un uomo che ha fatto e disfatto l’Italia. Giovanni Orsini, che non è uno storico di sinistra, fu il primo a paragonare Renzi a Giolitti. Tanti temi e le parole d’ordine di Renzi sono di destra, vedi la campagna contro i sindacati. Lo ritengo un trasformista perché vuole trasformare il Pd in un grande partito di centro. E ha assegnato il Pd alla famiglia dei socialisti europei per fare liberamente questa operazione. Ma i democratici di Renzi, in questa evoluzione europea, stanno con Berlino e Bruxelles o con i greci di Syriza e gli spagnoli di Podemos?
Un renziano potrebbe replicare che il “giglio magico” ha trascinato il partito al 40,8 per cento.
E devono sapere che gli elettori italiani fanno molto in fretta a rinchiudersi nell’astensionismo di massa, a manifestare fenomeni di volubilità. Il successo europeo è un’illusione ottica. Così Renzi rischia di commettere il suo più grosso errore politico. Il Pd non è solo dei militanti, ma anche dei suoi elettori, e questo valore hanno le primarie. Significa che non potrà mai essere il partito di un leader, mentre Renzi lo sta plasmando come partito del leader che da solo può manovrare e rimodulare il sistema politico. Ai sindacati ha concesso un’inutile ora di tempo sulla riforma del lavoro, li ha convocati pur sapendo di voler mettere la fiducia. Dopo lo sciopero generale, ha detto: “Io non mi faccio impressionare”. Il disagio sociale non lo comprendi così, non attraverso bravi consulenti come Andrea Guerra o accanto a bravi imprenditori come Enzo Manes, ma dando la giusta importanza a una piazza che incarna la protesta sociale, pacifica e democratica.
Lerner, non ci sono vie di fuga per chi si dichiara un sofferente di sinistra?
Renzi vuole far fuori l’anima rossa, spero che l’anima rossa non cada in questa trappola. O dia libero sfogo a uscite individuali come quelle di Sergio Cofferati che, nonostante i clamorosi brogli che dovevano far annullare la consultazione, ha sbagliato a candidarsi: era una mossa improvvisata, incomprensibile per gli elettori; sei mesi fa s’era proposto per un mandato a Strasburgo e l’aveva ottenuto. Adesso c’è Nichi Vendola che si sta muovendo, c’è il sindaco Giuliano Pisapia, un bravo amministratore che potrà essere un riferimento nazionale. Sabato a Milano, città laboratorio della sinistra, ci sarà la manifestazione Human Factor, e io ci andrò, un modo per agire insieme. Ma agire davvero.
(il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2015, p. 5)
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