Memoria da curare

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Il 27 gennaio 1945, settant’anni fa, le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz liberando i pochi internati sopravvissuti. Oggi è dunque il “Giorno della Memoria“. Si ricorda soprattutto il genocidio degli ebrei, la Shoah (resa “Olocausto” in italiano). La memoria è importante, sapere cosa è avvenuto, la vista dei luoghi e dei materiali, la testimonianza, il racconto dei superstiti, vanno coltivate con costanza e sacralità. (Io credo che sarebbe bene che l’Ue prevedesse la spesa per far visitare a tutti i giovani cittadini europei i luoghi della Shoah, magari come gita scolastica nel periodo delle scuole medie.)

Ma oltre a ciò che è avvenuto è bene sapere anche perché. Perché i tedeschi e perché gli ebrei? Per lo più si semplifica dicendo o scrivendo che l’antisemitismo ideologico, religioso e filosofico, è diventata violenza e sterminio in un determinato tempo storico, per responsabilità di uno o pochi pazzi. Questo atteggiamento non è molto diverso da chi nega che ci siano stato lo stesso sterminio (il negazionismo). Nell’impossibilità di concentrare qui discorsi necessariamente lunghi e impervi, mi permetto di consigliare la lettura di tre libri.

Il primo è un testo di storia del pensiero di Donatella Di Cesare (Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», Bollati Boringhieri, Torino 2014), dove – prendendo spunto da una vicenda editoriale attuale e dall’annosa questione dei rapporti tra Heidegger ed il nazismo – si ricostruiscono i precedenti del pensiero tedesco (Lutero, Kant, Hegel, Nietzsche, fino all’hitleriano Mein Kampf) sulla “questione ebraica” e si leggono questi nuovi testi heideggeriani su quella scia. Inutile dire che è una lettura impegnativa, ma ne vale la pena.

Segnalo poi due libri di uno storico tedesco, Götz Aly, entrambi pubblicati da Einaudi: (1) Perché il tedeschi? Perché gli ebrei. Uguaglianza, invidia e odio razziale. 1800-1933, Einaudi, Torino 2013 e (2) Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, Einaudi, Torino 2007. Vanno letti possibilmente nell’ordine inverso alla loro uscita, ma anche indipendentemente. Il primo spiega nei termini dell’antropologia sociale cosa sia l’antisemitismo storico dei tedeschi. Una costruzione progressiva del XIX secolo che trova l’apice col nazismo. Anche qui l’autore non ha dubbi: l’olocausto non è un’invenzione del razzismo hitleriano e perciò si può anche ripetere.

Il secondo mi fece una certa impressione quando lo lessi. In maniera molto chiara e convincente dimostra come l’avventura nazista fosse intrecciata al consenso sociale e come nella folle corsa di pochi anni, dal 1933 al 1945 in permanente stato di emergenza, i tedeschi approfittassero della generosità del regime che rapinava territori invasi e popoli sottomessi. L’autore alla fine cita un ufficiale britannico, Julius Posener, che nell’aprile 1945 rimase piuttosto colpito: «Non c’era corrispondenza tra la gente e le distruzioni. La gente aveva un bell’aspetto, erano tutti rosei, allegri, curati e assai ben vestiti. Quello che esibiva in tal modo i suoi risultati era un sistema economico che era stato tenuto i piedi fino alla fine dal lavoro di milioni di mani straniere e dalla rapina di tutti il continente» (pp. 361-362). E gli ebrei, il loro esproprio e sterminio, erano serviti proprio a questo, a tenere i tedeschi “rosei, allegri, ben curati”. Come quelli di oggi.

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