Partita dello spread, arbitra Monti da Varese

Donato Masciandaro è un docente universitario della Bocconi, dove anche in quest’anno accademico tiene tre cattedre, una in Economia della Regolamentazione Finanziaria. Di lui non conosco se non quello che scrive con una certa regolarità sul Il Sole 24 Ore, quotidiano degli industriali italiani. Anche ieri, 20 giugno, ha pubblicato qualcosa d’interessante, “Una spirale da fermare“.

Masciandaro parte da un dato, la dimensione del mercato dei derivati, che un altro articolo dello stesso giornale dice che ormai “vale la metà del Pil europeo” (p.2), e afferma subito che “la ricerca individuale della migliore gestione del rischio attraverso uno strumento finanziario può creare dei rischi sistemici, e quindi l’uso di quello strumento va limitato”. Va superata, scrive il nostro autore, la regolamentazione «a tocco leggero» della fine degli anni Ottanta, “in due modi congiunti: regolamentare i derivati e tassarli in funzione del loro rischio sistemico, quindi scoraggiando l’uso dei derivati speculativi”.

Ma chi deve e cosa si deve fare?

Una prima strada è continuare ad attendere che negli Stati Uniti e/o in Europa si facciano passi concreti. Una seconda strada – magari in attesa che la prima si concretizzi – è disegnare subito provvedimenti di deterrenza, che aiutino l’Europa ad intraprendere la strada giusta. Ad esempio: il Governo propone ed il Parlamento approva una legge che autorizza le autorità di vigilanza a vietare temporaneamente i derivati speculativi sui titoli di stato. In situazioni eccezionali – come quelle che stiamo vivendo – divieti mirati e temporanei possono far molto bene all’economia di mercato. Almeno a quella sana.

Capito? Basta una legge del Parlamento italiano. Restiamo in attesa.

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Germania-Grecia, non solo calcio

E’ un paradosso ma – mentre qui accanto Ermes scrive “Chiudiamo il calcio.” (col punto!) – c’è un partita che sta diventando un evento più che politico, epocale: i prossimi quarti di finale degli europei, Germania-Grecia (Danzica, venerdì 22, alle 20.45).

I giornali di oggi raccontano che proprio stamane la squadra tedesca andrà in visita a Westerplatte, dove cominciò la seconda guerra mondiale. Westerplatte è una penisola sul mar Baltico, nei pressi di Danzica. Le cronache raccontano che a fine agosto 1939 la corazzata tedesca Schleswig-Holstein, una nave scuola della marina tedesca, entrò nel porto di Danzica, ufficialmente per una visita di cortesia alla Polonia e ormeggiò proprio di fronte al Westerplatte. Ma alle 4.45 del 1° settembre la nave, che poco prima aveva lasciato gli ormeggi spostandosi ad est, cominciò a cannoneggiare le postazioni polacche. Era l’inizio della seconda guerra mondiale. Il seguito e come andò a finire li conosciamo.

Invece la battaglia in corso tra Germania e Grecia non è affatto finita. Direte, cosa c’entra col calcio? C’entra, c’entra… Ieri, Marco d’Eramo, in un articolo su il manifesto a commento del fatto che lo spread non dipende dall’esito delle elezioni greche ma fa quello che vuole, chiudeva così:

L’unica speranza, anch’essa assai improbabile, è che venerdì, almeno nello stadio di Danzica (ah la memoria storica!) la nazionale di calcio greca dimostri a quella tedesca che il Dio dello Spread non è onnipotente e può essere mandato nel pallone.

Oggi invece, parlando di calcio, Maurizio Crosetti su la Repubblica, prima riporta le parole dell’allenatore tedesco Ioachim Loew che sottolineava: «Tra noi e greci, la politica non c’entra nulla. (…) sarà soltanto un semplice quarto di finale.» Anche insistendo: «Dovete capirlo: è solo calcio». Poi, ricordando anche gli attacchi razzisti a Mesut Ozil, calciatore della nazionale tedesca di origine turca, il giornalista chiude l’articolo scrivendo: “Non si può parlare solo di calcio, perché non è solo calcio”.

Ecco perché non si può chiudere solo il calcio. Punto.

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Pasolini, lo spettro che s’aggira sempre

Ha ragione Ferdinando Camon a scrivere che il calciatore della nazionale italiana Franco Cassano “non sa parlare, non è padrone della lingua, non è questo che si pretende da lui. Probabilmente non sa neanche cosa vuol dire «froci».” E ce lo spiega su la Nuova Venezia di oggi. Poi fa l’osservazione sui problemi che il tema dell’omosessualità crea all’interno del Pd, argomento che qui non seguo.

Verso la fine dell’articolo inserisce una tirata che riporto integralmente:

Non esiste il problema dell’omosessualità, esiste il problema dell’incomprensione dell’omosessualità. L’omosessualità è colpevole quando è esercitata con minorenni. Purtroppo così faceva Pasolini. Ci rimise la vita per questo. E’ inutile che ci giriamo intorno, è morto così come dice la versione ufficiale. Caricò il ragazzino minorenne alla Stazione Termini, lo portò a cena al ristorante Al Pommidoro (con due m), poi andarono su quel lido deserto e sozzo, lì fecero quel che avevano patteggiato, poi Pier Paolo si permise qualcosa di più: raccolse da terra un bastone e con la punta urtò il ragazzo sul coccige. Il ragazzo s’infuriò. E’ la versione ufficiale, a me l’ha raccontata Moravia. Una morte per omosessualità, ma anche per pedofilia. Pasolini era un grande poeta, grande narratore e grande regista, ma come uomo sbagliava: non si va a bambini o ragazzini. E’ lo stesso errore di certi eterosessuali: non si va a bambine o ragazzine.

Infine chiude l’articolo di nuovo col tema dei diritti degli omosessuali: bisogna dar loro i diritti costituzionali e questo lo deve fare la Sinistra (con la s maiuscola, mentre a me pare che non c’è neanche quella con la minuscola), subito.

Inutile dire che il discorso su Pasolini è penoso. Purtroppo sembra che tutto il resto serva per scrivere proprio quelle quattro righe. Oggi basta andare su un motore di ricerca internet con “morte di Pasolini” per vedere filmati con le dichiarazioni di Pelosi o ricostruzioni su quanto avvenne veramente. Ormai si dice sempre più apertamente che Pasolini fu ucciso perché sapeva o aveva intuito qualcosa di troppo, in particolare sulla morte di Enrico Mattei. Se ne trova traccia nei frammenti del romanzo postumo Petrolio.

Così, alla fine, tra Cassano – che non sa cosa significa frocio – e Camon – che non sa cosa si è detto e scritto sulla morte di Pasolini dopo la versione ufficiale, cioè giudiziaria – preferisco il primo, mi pare più autentico.

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Fantasia al lavoro (2)

Qualche giorno dopo della proposta di Luciano Gallino del 15 maggio (“C’è solo da scegliere, dagli acquedotti che perdono il 40 per cento dell’acqua che distribuiscono alle scuole per metà fuori norme di sicurezza, dal riassetto idrogeologico del territorio alla tutela dei beni culturali.”), il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Corrado Passera rendeva pubblico un documento (Agenda per la Crescita Sostenibile) e un nuovo sito (Cantieri Italia) lanciando la notizia ai media. Così la Repubblica del 18 maggio titolava: Passera: “Infrastrutture per 100 mld di euro.” Previsti circa 120mila nuovi posti di lavoro. Grandi opere quindi, questa la “novità” del governo tecnico.

Non mi fermerò neanche un secondo su questo punto, chi mi legge sa benissimo cosa significano in Italia le grandi opere. Lascio eventualmente la curiosità di leggerne la critica da un altro documento (Spostare la priorità dalla crescita del PIL alla crescita dell’occupazione in lavori utili: una proposta concreta), redatto e firmato da svariati tecnici ed intellettuali e pubblicato il 24 maggio sul sito di MDF, il Movimento per la Decrescita Felice. Si può leggere:

Si può fare diversamente? Certo che si! Bisogna solo cambiare le priorità e spendere il denaro in altro modo, partendo anche dalla consapevolezza che è convenienza di tutti investire subito le poche risorse disponibili in molte migliaia di piccoli e micro cantieri e solo successivamente, eventualmente, in grandi opere infrastrutturali.
I micro cantieri dovrebbero riguardare in primo luogo l’efficientamento energetico degli edifici pubblici e privati. Poi anche le bonifiche ambientali e per la messa in sicurezza del territorio rispetto agli eventi catastrofici. In uno studio dell’ENEA del 2009 (vedi Allegato1) si proponevano interventi di riqualificazione energetica in 15.000 scuole ed edifici pubblici, che attualmente spendono circa 1,8 Mld di € ogni anno in energia elettrica e termica. Con gli 8,2 miliardi di € previsti per il TAV si può risparmiare il 20% dei consumi di questi edifici, pari a oltre 420 mln€/anno e si possono creare almeno 150.000 nuovi posti di lavoro. Inoltre lavorerebbero decine di migliaia di pmi e artigiani installatori. E siccome a cambiare infissi, montare caldaie di nuova generazione, montare cappotti, costruire case efficienti, rifare tetti, ecc. non servono macchine, ma persone, si darebbe lavoro ad un sacco di gente facendo tra l’altro ripartire in maniera virtuosa il settore dell’edilizia, attualmente in grande sofferenza.

Purtroppo in questi giorni, oltre agli obiettivi di efficienza energetica degli edifici pubblici e privati sono nuovamente d’attualità quelli relativi alla sicurezza degli stessi. Il terremoto continuo in zone della pianura emiliana, oltre ai danni ed ai traumi immediati, ci ricorda che in Italia abbiamo bisogno di un’altra e diversa attenzione al territorio, dal paesaggio alle costruzioni. Abbiamo bisogno proprio di un altro legame sociale, quindi certamente di un’altra politica.

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Fantasia al lavoro (1)

Bruno Anastasia, un nostro compaesano, è un grande esperto di economia del lavoro. E’ infatti responsabile dell’area “Osservatorio & ricerca” di Veneto Lavoro, un ente della Regione Veneto istituito per fornire “assistenza tecnica in materia di politiche del lavoro”. Se leggo bene, è ancora protagonista in Ires Veneto, l’istituto di ricerche economiche e sociali collegato alla Cgil. In questi anni è stato anche docente in Economia del lavoro presso l’Università di Trieste, sede di Portogruaro. Quando posso lo leggo, è una fonte importante.

Sul sito Lavoce.Info, uno dei migliori giornali economici online, c’è una sua nota del 31 maggio sull’andamento del mercato del lavoro, “Cala ancora il lavoro dipendente“, come sempre molto chiara, seppur essenziale. La sostanza dell’articolo è nel titolo, ma la parte più interessante, nonché la timida novità, sta nella conclusione (il grassetto è nell’originale):

Di fronte al fatto che né il settore privato né il settore pubblico risultano in grado di esprimere una domanda di lavoro in risalita occorre pensare che per questa fase, in attesa di cambiamenti di scenario macroeconomico che non sembrano dietro l’angolo, servono anche politiche del lavoro eccezionali.

Sinceramente ho pensato: meglio tardi che mai. Questo sembra infatti un terreno impraticabile, come si trattasse ancora “di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”, come scriveva il cardinal Bellarmino a proposito delle teorie eliocentriche all’epoca di Galileo. Qui vedo tanta tanta prudenza (“per questa fase”, “in attesa”), ma qualcosa pur si muove.

Così ne approfitto e segnalo che Luciano Gallino, veterano ma lucidissimo sociologo, ha ribadito su la Repubblica del 15 maggio una sua proposta (che metto in collegamento dal sito di ALBA, il soggetto politico nuovo a cui il professore ha aderito).

Lo Stato assume direttamente, tramite un’apposita agenzia, il maggior numero di disoccupati e di precari, che però vengono gestiti dal punto di vista operativo da enti locali. Gli assunti dovrebbero venire occupati in programmi di pubblica utilità diffusi sul territorio e ad alta intensità di lavoro. C’è solo da scegliere, dagli acquedotti che perdono il 40 per cento dell’acqua che distribuiscono alle scuole per metà fuori norme di sicurezza, dal riassetto idrogeologico del territorio alla tutela dei beni culturali. Il salario offerto dovrebbe aggirarsi sul salario medio o poco al disotto, cui andrebbe aggiunto il costo dei contributi sociali per sanità e previdenza.

E’ insostenibile? Nell’Ue non si può fare? Tutt’altro! Nella versione consolidata del Trattato europeo, del 2008, c’è una “Dichiarazione concernente l’Italia” (ma guarda un po’), la n. 49, che dice:

“Le parti contraenti… ritengono che le istituzioni della Comunità debbano considerare, ai fini dell’applicazione del trattato, lo sforzo che l’economia italiana dovrà sostenere nei prossimi anni, e l’opportunità di evitare che insorgano pericolose tensioni, in particolare per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti o il livello dell’occupazione, tensioni che potrebbero compromettere l’applicazione del trattato in Italia”.

Insomma, per farla brevissima, il premier Monti preghi pure in mondovisione col Papa, che all’economia male non fa, ma se vuole passare dalle più ortodosse strategie e liturgie alle buone azioni si faccia aiutare da chi ha ancora qualche fantasia. La fantasia è una risorsa importante.

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Elogio della mitezza politica

Pubblico l’articolo di Marco Revelli, Una sinistra senza popolo e un populismo senza sinistra, dal sito di ALBA Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente.

Poiché è lungo per un blog, lo divido in due parti. La prima (1) è dedicata all’analisi del voto, quindi piena di dati, e può essere saltata da chi non riesce (giustamente) a leggere un testo tanto lungo sul monitor. Comunque graficamente fornisco anche una lettura molto selettiva, peraltro non molto diversa da quanto fatto da me a caldo, subito dopo le elezioni. Credo che Revelli non si fermi a valutare il voto dato a Grillo perché costui è l’oggetto implicito della seconda parte.

La seconda parte (2) è infatti il il vero e proprio “discorso sul metodo”. Si può leggere autonomamente ed è una particolare puntualizzazione del Manifesto per un soggetto politico nuovo. (Il grassetto è mio.)

(1)
Con all’orizzonte “più la disgregazione greca che l’alternativa francese”. Non poteva dir meglio Ida Dominijanni, nell’indicare la prospettiva aperta dal voto dell’altra settimana, così diverso da quello tedesco. L’impressione che offrono i risultati, a volerli guardare con lo sguardo freddo della matematica, è che i grandi contenitori messi su alla bell’e meglio nell’ultimo quinquennio intorno alla folle idea di un maggioritario egemonico e tendenzialmente bipolare (per usare il linguaggio veltroniano) si stiano rompendo, o pesantemente incrinando, lasciando fuoriuscire il proprio contenuto in un (ancora asimmetrico) processo di liquefazione del corpo elettorale.
La cosa è particolarmente evidente nell’implosione catastrofica del centro-destra, che non solo perde città storicamente sue, ma che vede in molti casi letteralmente polverizzato il proprio consenso nelle sue stesse roccaforti “ancestrali”: nel “prodondo Nord” lombardo-veneto. E’ il caso della “Brianza del mobile” (detta anche “il Mugello del centro-destra”) dove ancora nel 2010 “il Pdl viaggiava tra il 30 e il 38% e la Lega tra il 25 e il 35% mentre oggi sono crollati rispettivamente tra il 7-15 e l’11-20” (cito da “La Stampa”). O del Gallaratese (distretto dell’abbigliamento) dove a Cassano Magnago, il paese di Bossi, il leghista Morniroli non va nemmeno al ballottaggio con la Lega quasi dimezzata dal 32,2 al 19,3%… O, ancora, si pensi a quanto accaduto tra le aziendine del tessile calzettiero della bassa mantovana, dove a Castiglione delle Stiviere, per esempio, dove Fabrizio Paganelli, che nel 2007 come candidato del centro-destra aveva stravinto col 61,3%, non compare neppure più al ballottaggio e i partiti che lo avevano sostenuto hanno perso qualcosa come 35 punti percentuali… Ma qui la spiegazione è fin troppo semplice: non solo perché due partiti personali e carismatici non sopravvivono facilmente alla messa fuori gioco dei propri capi carismatici. Ma anche perché forze politiche che vivevano dell’enrichissez vous e delle sue illusioni in zone molto dinamiche (anche se fragili) vengono colpite al cuore (soprattutto i berlusconiani) dal brusco irrompere dell’impoverimento (nella bassa mantovana “il distretto arranca 20 punti di fatturato sotto i livelli pre-crisi”, in Brianza sono più di 200 le imprese che hanno chiuso e 1500 i licenziati negli ultimi tre anni…).
Allo stesso modo la sentenza elettorale è quasi mortale per il cosiddetto “centro”, che non intercetta pressoché nulla di quel tumultuoso flusso in uscita. E che anzi viene messo clamorosamente fuori gioco, nella sua posizione equidistante, dallo sfaldamento del fronte alla sua destra (“centro non pervenuto”, sintetizza perfidamente Travaglio). Ma – e qui il gioco si fa duro – il fatto davvero destabilizzante, e per certi versi “contro-intuitivo”, è che lo smottamento in corso non risparmia neanche il Pd, che pure a caldo si era affrettato a cantare vittoria e che comunque porta a casa un buon numero di scrutini vinti al primo colpo o di buone posizioni in vista dei ballottaggi. Sarebbe però un errore fermarsi alla bandierine che il centro-sinistra può piantare sull’ipotetica mappa di Emilio Fede di tanti anni fa (in effetti vedremmo un quadro quasi tutto rosso con pochi puntini blu). E anche limitare il conto ai soli dati in percentuale, che favoriscono l’illusione ottica (se tutti scendono, chi perde di meno appare vincitore). Se, più correttamente, facciamo il conto in valori assoluti, contando ad uno ad uno i voti ricevuti nel 2012 e li confrontiamo, città per città, con quelli della tornata amministrativa del 2007, vediamo che anche nel caso del Pd l’emorragia è in corso. E in molte città in misura massiccia.
Così è nelle grandi città. Non parliamo di Palermo, dove la catastrofe pidiellina è clamorosa, e conclamata (tanto legata alla malattia morale interna a quel partito da fare tutto sommato caso a sé). Ma pensiamo a Parma dove, lo sappiamo, il centro destra si è letteralmente polverizzato perdendo quasi tutto il proprio elettorato(nel 2007 aveva vinto con circa 54.000 voti, ora il Pdl ne racimola appena 3.275), ma il Pd, nonostante il suo candidato vada primo al ballottaggio, resta sotto di circa 2.500 voti rispetto al risultato ottenuto nel 2007 mentre l’altro competitor, del Movimento 5 Stelle, ha raccolto circa 17.000 voti degli oltre 50.000 “in libertà”. O a Piacenza dove il suo candidato Dosi va, anche qui, primo al ballottaggio, e tuttavia il Pd rimane in debito di oltre 2.000 voti rispetto al 2007 (poco, rispetto alla flessione di circa 13.000 voti del centro-destra, ma pur sempre un 20-25% del suo patrimonio elettorale di partenza). Persino ad Alessandria, dove pure il centro-sinistra si presenta con un’ottima candidata, e dove il sindaco uscente, disastroso, ha registrato un crollo di quasi 45 punti percentuali e un’emorragia di oltre 25.000 voti, il Pd flette di quasi 3.000 voti rispetto alla precedente somma di DS e Margherita. E a Genova, con l’ottimo Doria (che da solo, con la sua lista civica intercetta quasi 27.000 voti) al Pd mancano all’appuntamento più di 33.000 elettori (tra quelli che nel 2007 avevano votato Ulivo), mentre Grillo si prende il 14% e 32.500 preferenze lasciando tuttavia all’esercito degli astenuti quasi 50.000 nuovi arruolati…
Né la situazione migliora nei piccoli centri, e in particolare nei distretti dove la crisi morde di più, e mina l’insediamento leghista e berlusconiano alla radice. A Omegna, per esempio, capitale del “distretto dei casalinghi”, dove l’amministrazione di centro-destra in carica è crollata miseramente (la Lega dal 13,9 all’8,1 e il Pdl dal 30,5 al 17,3%), la candidata del centro-sinistra vince, ma con un numero di voti inferiore a quello con cui cinque anni prima aveva perso (3.900 contro 4.100). O nel “distretto del prosecco” – la terra di Zaia e dei suicidi – dove il partito di Bossi cade dal 36,9% del 2010 al 5,6 di oggi, e il Pdl perde una quindicina di punti, e tuttavia il Pd resta comunque in debito rispetto alla precedente somma di Ds e Margherita di qualche migliaio di voti. E d’altra parte non sarà senza significato se nelle aree della Toscana, suoi tradizionali territori d’insediamento, come il “distretto orafo” dell’aretino, il Pd preferisca mimetizzarsi dietro una miriade di liste civiche, vincenti, certo, ma eloquenti.
Al Sud, poi, la situazione è meno chiara, più articolata. Ma la tendenza non cambia nella sostanza. A Taranto, per esempio, dove le cose sono molto confuse e dove il sindaco uscente Ippazio Stefàno (che nel 2007 aveva vinto al ballottaggio con il 76% sostenuto da una maggioranza ibrida che andava dall’Udeur ai Comunisti italiani e a Rifondazione) si riposiziona al ballottaggio con il 49,5%, il diretto competitor non è più del centro destra (dove il Pdl ottiene meno della metà dei voti assommati nel 2007 da Forza Italia e A.N.: 6.505 contro 14.438) ma di una lista autonomista sostenuta dall’estrema destra (Cito, con quasi 20.000 voti), mentre il Pd mantiene grosso modo il numero di voti precedente (15.288). A Trapani, d’altra parte, dove il sindaco uscente Fazio è riconfermato al primo turno con il 64,7%, il Pdl perde, tuttavia, sul 2007 quasi un terzo del proprio elettorato, e il Pd pressoché altrettanto (Ds e Margherita avevano, insieme, circa 5.500 voti, ora si arriva appena a 3.377…). E a Lecce, dove pure il centro-destra vince al primo turno con una maggioranza netta (64,3%), il Pdl perde quasi il 25% del proprio precedente elettorato (15.104 voti contro igli 11.600 di A.N. e gli 8.725 di Forza Italia del 2007), e il PD lascia sul terreno quasi 3.500 voti rispetto all’Ulivo.
La verità è che, del travolgente flusso di suffragi in uscita dal centro-destra in crisi, né il centro di Casini né tantomeno il Pd hanno intercettato anche solo una minima frazione. Anzi, quest’ultimo ha aggiunto un segmento, più o meno cospicuo, del proprio patrimonio di loyalty (di “fedeltà”), senza che, a sua volta, la cosiddetta “sinistra radicale” sia riuscita a raccoglierne i rivoli, che si sono riversati direttamente altrove. Nell’astensione, in grande quantità (cresciuta di più di 11 punti percentuali nel nord-est, di quasi 9 punti nel nord-ovest, di circa 10 punti al centro…). E nelle liste del Movimento 5 stelle, che a leggere l’analisi dei flussi ad oggi disponibile, dal Pd avrebbe raccolto più del 24% del proprio elettorato, un 16% dalla Lega nord, un 13,5% dal Pdl e un buon 30% dall’astensione.
(2)
Il messaggio sembra fin troppo chiaro. Il processo di liquefazione del sistema dei partiti – così come si è strutturato nella cosiddetta “seconda Repubblica” – è massicciamente in corso, e sembra destinato a proseguire in forma accelerata. Non sappiamo quale dimensione avrà questa “massa liquida” alla vigilia delle elezioni del 2013: una delle più importanti scadenze elettorali della storia dell’Italia Repubblicana, quelle in cui dovrebbe manifestarsi la riscossa della politica dopo la resa al governo dei tecnici dell’inverno 2011. Ma certamente l’intreccio perverso tra crisi economica e crisi politica è destinata a virulentizzarne le componenti, ed il rischio che quella sostanza liquida possa in qualche modo consolidarsi e produrre “mostri” è evidente. Né vale ripetere l’ormai insopportabile esorcismo dell’invito liturgico ai partiti nella loro attuale configurazione, a “rigenerarsi” o comunque ad “auto-riformarsi”.
All’auto-riforma di questi soggetti politici penso che ormai non creda più nessuno. Neppure chi, dai massimi livelli istituzionali, continua un po’ meccanicamente a ripetere l’appello. Troppi tentativi. Troppi “nuovi inizi” mancati. Troppi girotondi traditi. Senza una “soluzione di continuità” – senza una cesura netta, di metodo, con le pratiche politiche e con gli stili di comportamento politico e istituzionale attuali – il meccanismo infernale dell’entropia politica e della delegittimazione istituzionale andrà avanti. Non è anti-politica denunciarlo. E’ antipolitica continuare ad alimentarlo da parte di chi, ai vertici delle attuali forze politiche, insulta ogni giorno il buon senso dei propri elettori con una retorica del conforme ormai stucchevole.
Per questo sono in totale disaccordo con l’amica Rossana Rossanda quando snobba i discorsi sul metodo. E confida che quel rassemblement di macerie possa seguire l’esempio francese di Francois Hollande. Intanto perché l’aver ignorato le questioni di metodo è stato il peccato capitale del vetero-comunismo novecentesco (un termine che la fa imbestialire, lo so, ma che bisogna pur pronunciare). E poi perché proprio dal modo di concepire e di fare la politica – dallo “stile” e da un suo salto di paradigma – può partire una possibile speranza di rinascita. Poi si potrà discutere dei contenuti, ma con (e all’interno di) contenitori diversi. Qualitativamente diversi. Si potrà parlare dell’Europa, in primo luogo: a quali condizioni starci dentro. Con quali prezzi. E sul che fare se la Germania continuerà a stringere il cappio al collo dei suoi partner comunitari fino a provocarne l’asfissia (Asfissiare? Forzare sull’asse francese mettendo in conto anche la rottura con i tedeschi? Immaginare un’area monetaria ampia ma diversa, con baricentro sul Mediterraneo?). Di tutto questo si può parlare, ma sapendo che con l’attuale ceto politico, irrimediabilmente abituato a guardare “dall’alto”, inseparabilmente intrecciato con le tecnocrazie comunitarie e con i sensi (non solo la vista, anche l’udito e l’odorato) affinati unilateralmente sulla interazione con i poteri forti o fortissimi, c’è poco da sperare in un’alzata d’ingegno. O in un approccio “creativo”. O anche solo smarcato rispetto al mainstream globale. Con loro, come si dice, “le chiacchiere stanno a zero”.
Allo stesso modo si potrà ragionare di finanziamento pubblico della politica. Ma sapendo che se non si taglia alle radici l’attuale tossico intreccio tra politica e denaro – l’innervarsi del flusso monetario nelle strutture portanti della rappresentanza politica come sono oggi – l’impresa di restituire alla politica una qualche traccia di nobiltà è fallita in partenza. Non per questioni di morale. Ma per un problema strutturale: perché la potenza trasformante della “forma denaro” è irresistibile, se ci si lascia possedere. E la “forma denaro”, oggi, è la forma del mondo che vogliamo combattere.
Così come si dovrà scavare a fondo nell’”analisi delle classi” – e sulle forme del loro “conflitto”. Ma sapendo che la geografia sociale dell’universo post-fordista è mutata radicalmente. Che se ci si vuole sintonizzare con il “lavoro” come esso si pone, occorre fare i conti con tutte le sue “figure” – con l’intero ventaglio di soggetti che l’esplosione del “diamante del lavoro” ha disperso, non più solo con i suoi protagonisti (materiali e simbolici) centrali. E che termini come “comunità” o “territorio” hanno cessato di appartenere al lessico maledetto di una sinistra pura, ma s’intrecciano sempre più con i precedenti concetti di Classe e di Nazione, in un quadro molto complesso, e tutto da capire.
Per questo nel “Manifesto per un soggetto politico nuovo” diamo tanto peso al tema della mitezza. Non perché si sia rinunciato “alla lotta” (come si diceva una volta). O perché ci si sia votati a una concezione idilliaca di un mondo conciliato. Esattamente per la ragione opposta: perché crediamo che oggi le condizioni del conflitto siano così profonde, estese, radicali ed estreme (vertano su questioni ultime, per così dire, come la sopravvivenza delle società e degli individui), che se esso non viene condotto con linguaggi e con metodi “non distruttivi”, auto-sorvegliati e radicalmente rispettosi dell’altro, le possibilità della caduta in condizioni di conflittualità devastante (contrassegnate, appunto, dal termine “guerra”) siano drammaticamente presenti. E che se si vuole che la politica sopravviva come arte della costruzione di una società condivisa, dall’antropologia del mite, e non da quella del guerriero, si debba partire.
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Finanza-ombra. (3) Che fare?

Siamo partiti dal nuovo caso JP Morgan (1) e attraverso la penna di Guido Rossi (2) abbiamo visto che è assolutamente indispensabile metter mano alla finanza, o perlomeno a quella che chiamano finanza-ombra, cioè “l’incredibile contaggio e la peste finanziaria” (sempre Rossi). E’ stata un’escursione rapidissima e solo concettuale, ma questo è un blog con la pretesa di guardare avanti, al futuro.

Dunque, che fare con la finanza-ombra? Ormai si sa molto bene di cosa si tratta, è scritto su diversi testi e libri, oltre che sulla pelle della gente. Invito in particolare a leggere il libro di Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Einaudi, Torino 2011), un testo che dovrebbe essere letto in ogni angolo del nostro paese, dalle scuole alla radio (lasciamo perdere la tv).

Gallino in un’intervista sul web ci indica anche la via da seguire:

A parte le bozze di riforma in discussione nel Parlamento europeo e nella Ce, ci sono in giro varie proposte provenienti da centri studi. Alcune assai interessanti sono state portate a Cannes da un centro tedesco specializzato in studi sullo sviluppo e l’ecologia per un’economia sostenibile. Ma è chiaro che tali proposte, lasciate a sé, non serviranno a nulla. Il problema vero è che sono i cittadini che ne dovrebbero discutere, e sarebbe bene che si cominciasse ad allargare la discussione in modo che il maggior numero capisca la reale entità del problema e cominci a chiedere una riforma radicale del sistema finanziario.
È complicato, è politicamente arduo, certo. Ma per il futuro della democrazia, non soltanto del sistema economico, è assolutamente indispensabile ridurre a dimensioni ragionevoli i gruppi finanziari e con essi l’insieme del sistema finanziario internazionale. Un noto economista americano ha detto che sarebbe indispensabile ridurre il sistema finanziario a un terzo di quello che è oggi. Forse è una misura eccessiva, ma è la direzione in cui appare necessario procedere.
In presenza di troppi segnali attestanti che l’economia del mondo, e con essa la democrazia dei nostri paesi, sta viaggiando verso la catastrofe. Se non riusciamo a trasformare tutto quanto si è qui ricordato in istanza, in domanda politica, in un numero di deputati sufficienti per introdurre una riforma del genere, dovremo aspettarci una crisi, politica ed economica a un tempo, ancora peggiore di quella che stiamo vivendo adesso.

Ridurre, dunque, ridurre le dimensioni delle imprese e del sistema finanziario, questa è la “direzione”. Prima che sia troppo tardi, se non lo è già. Luciano Gallino è troppo rivoluzionario? Allora leggete qui:

A costo di ripetermi – l’ho ricordato da ultimo nel libro dedicato ai giovani – è indispensabile che le banche, la cui ragion d’essere è fare credito, riconducano l’attività nel suo alveo naturale: finanziare l’economia. Quanto alla finanza, soprattutto quella più innovativa e sofisticata, necessita di essere regolamentata al fine di non mettere a repentaglio la stabilità del sistema bancario e finanziario; una regolamentazione che, come è richiesto da parte dei soggetti più avvertiti e responsabili, produrrà effetti sulle dimensioni e sulle modalità operative del comparto.

Sono parole di Carlo Azeglio Ciampi, presidente emerito della Repubblica, scritte sul Il Sole 24 Ore di martedì 15 maggio. Dimenticavo, è una la lettera che è stata titolata: “L’amara urgenza di agire”.

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Finanza-ombra. (2) Derivati

Per capire cosa sono i derivati usiamo un altro articolo de Il sole 24 Ore del 13 maggio. E’ il commento domenicale del noto giurista Guido Rossi. L’autore comincia con un netto attacco al pensiero economico dominante che vale la pena riportare:

Esistono oggi alcuni “credo”, a matrice quasi religiosa, che governano il mondo e che hanno i loro devoti sacerdoti, i quali anche di fronte alle evidenze contrarie dell’attuale depressione economica, continuano a predicarne le virtù. Tra questi quello più fallimentare, come ormai è noto, è il credo del libero mercato che si autoregola, e della selvaggia deregolamentazione della finanza collegata alla speculazione. (…)
La teologia degli economisti, che ben tollera i paradossi, va ora coniugando austerità e crescita, pur dopo aver incautamente sostenuto che anche dalla sola austerità e dal rigore può nascere la crescita. (…)
Preliminare ad ogni programma di crescita è allora una seria riforma del capitalismo finanziario, così come fece il New Deal dopo la grande depressione del 1929. Ma purtroppo di F.D. Roosevelt non mi pare di riscontrarne nessuno fra i leader politici mondiali. Mi basterà allora un esempio, fra i tanti che si potrebbero fare, che riguarda il cuore e la natura intima della globalizzazione finanziaria, all’origine delle sempre più gravi diseguaglianze mondiali.

Poi ci spiega proprio cosa sono i derivati:

Il riferimento che intendo fare è specifico, ma parte comunque da uno degli strumenti che ancora godono della massima libertà e mancanza di regolamentazione, i cosiddetti “derivati”. Si tratta, come è noto, di prodotti il cui valore è “derivato” da un bene sottostante, che può essere qualunque cosa. Ora, selvaggiamente liberalizzati negli Stati Uniti, sono vere e proprie “scommesse” , rese esplosive dalla rivoluzione digitale. Questa ha dato la possibilità di creare velocemente una massa enorme di denaro virtuale, che dalla tecnologia solo dipende.
Si è così verificato, proprio per questa rivoluzione digitale, un fatto nuovo, che viene sbandierato come il “contagio” fra un paese e l’altro, cioè una sorta di peste finanziaria quasi incurabile.
I derivati, da strumenti di copertura del rischio, si sono trasformati in un gioco da casinò, e il loro valore si attesta a varie volte il Pil del mondo, senza alcun riferimento all’economia reale, sicché vale sempre di più la nota battuta di John Maynard Keynes: «quando l’economia (…) è ridotta a un casinò vuol dire che le cose non vanno affatto bene».
I derivati sono anche pericolosamente approdati oltre che alle fonti di energia come il petrolio, ai prodotti alimentari, caffè, mais, bestiame, soia, olio, farina, e la speculazione da parte degli operatori finanziari ha fatto aumentare il prezzo dei beni sottostanti, cioè del cibo che noi tutti consumiamo e il cui costo è ormai solo in parte determinato dall’andamento dei raccolti, ma principalmente dai derivati.
La volatilità dei prezzi degli alimentari sta preoccupando molto la Fao per le conseguenze che può avere sulla fame nel mondo, perché non sono più gli agricoltori a fissare il prezzo degli alimenti, ma i banchieri. E i Paesi poveri vanno alla fame mentre le istituzioni finanziarie continuano ad arricchirsi.

La descrizione del derivato come scommessa e dei mercati finanziari come casinò rendono abbastanza bene l’idea, anche se poi non possiamo chiedere a questo Rossi un gran senso di equità.

È pur vero che il Parlamento Europeo il 29 marzo 2012 ha espresso parere favorevole su una Proposta di Regolamento dei derivati, ma la strada da compiere è ancora molto lunga. E il vero problema riguarda soprattutto gli Stati Uniti, che pur stanno studiando, ma son ben lungi (chissà perché) dall’approdare a qualche soluzione concreta.
In conclusione, solo una grande riforma del capitalismo finanziario potrà evitare che dalla “coincidentia oppositorum” le disuguaglianze interne e globali aumentino a dismisura.
Non si tratta ovviamente di demonizzare la finanza, che pure nel mercato ha una sua straordinaria funzione, (…) bensì di evitare che essa, al di là e al di fuori degli Stati, continui a produrre un’enorme ricchezza di denaro virtuale, l’incredibile contagio e la peste finanziaria fino a diventare, dopo aver soggiogato il potere degli Stati, l’unica sovrana della globalizzazione.

A me pare che le diseguaglianze siano già cresciute troppo e che si tratti di ridurle, non solo d’impedire che “aumentino a dismisura”. Anche intervenendo sulla finanza, ombra o meno che sia.

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Finanza-ombra. (1) JP Morgan

E’ di questi giorni la notizia che la banca d’affari americana JP Morgan ha qualche problema. Perché? Nella “versione romanzesca”, perché un tale Bruno Iksil, un francese che lavora nella city londinese, “si sarebbe messo a giocare con i derivati perdendo 2,3 miliardi in quindici giorni, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio”. In realtà, era tutto previsto dalla catena di comando, come scritto oggi, lunedì 14 maggio, da Paolo Mastrolilli su La Stampa. Era stato “dato l’ordine di fare queste operazioni rischiose sui derivati, proprio per proteggersi dal pericolo di perdite sui turbolenti mercati del Vecchio Continente”.

Su la Repubblica ne parla anche Federico Rampini, una star del giornalismo economico, che conferma: “non siamo di fronte a un caso di trader-pirata”, poiché “tutti sapevano che lui sapeva”, cioè Jamie Dimon, il boss della JP Morgan. Costui in questi anni avrebbe anche “distribuito milioni di dollari ai suoi lobbisti di Washington perché facessero pressione sui parlamentari”. Per far cosa? Per svuotare la legge Dodd-Frank, per impedirne i regolamenti attuativi. Questa legge prevede che le banche “too big to fail” (troppo grandi per fallire) non pratichino il “proprietary trading”, cioè il trading con mezzi propri, ma solo con mezzi e per conto di clienti.

Sabato 12 maggio, Il Sole 24 Ore titolava “Ritorna la paura dei derivati” e Donato Masciandaro finiva in questo modo il suo commento:

Negli Stati Uniti c’è un Presidente che ha l’originalità di accusare l’Europa di lassismo, quando nel girone dell’accidia i posti d’onore andrebbero di diritto a chi continua a non legiferare sulla finanza in quel Paese, sia esso democratico o repubblicano. E forse perché entrambi hanno proprio la finanza-ombra tra i più generosi sostenitori delle rispettive campagne elettorali?

Insomma, i politici americani prendono soldi (anche se li chiamano finanziamenti) da chi non vuole o vuole svuotare le leggi sulle attività della finanza-ombra.  E nella stessa domenica 13 maggio il giornale della Confindustria titolava: “E’ boom per i derivati: valgono 14 volte le Borse”.

Finanza-ombra? Derivati? Va bene, ne riparliamo.

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VenTo, ecco la grande opera

Stamane al Politecnico di Milano viene presentato VenTo, il progetto di una pista ciclabile da Venezia a Torino, lungo il Po.

Caratteristiche:
– 679 Km, di cui oltre la metà sugli argini, 266 all’interno di aree protette;
– circa 100 Km (il 15%) già pedalabile;
– coinvolti 4 regioni, 12 province, 121 comuni, 242 località, 14 mila aziende agricole, 300 strutture ricettive;

Sono previste tre fasi:
1) per 284 Km bastano semplici modifiche di argini e sentieri: costo 1 milione di euro (4 euro al metro);
2) 148 Km sono da rendere pedalabili con 18 milioni di euro (120 euro al metro);
3) 145 Km sono da costruire (ponti, barriere invadenti, tratti ex novo): costo 61 milioni di euro (circa 420 euro al metro).

Per una spesa totale dunque di circa 80 milioni di euro.

Per chi pensa che la bicicletta da sola non sia il massimo del trasporto, si segnala che lungo il tragitto ci sono ben 115 stazioni ferroviarie.

Insomma, abbiamo l’occasione di una “grande opera” a basso costo e nessun impatto ambientale.

(Appena escono metto i link ai video su YouTube.)

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