Il debito, una vecchia storia

L’ultimo fine settimana mi è arrivato tra le mani Non per il potere (Chiarelettere, Milano 2012), una raccolta di scritti di Alex Langer, l’indimenticabile protagonista dell’ambientalismo politico italiano tra il 1985 e il 1995. Tornerò in un’altra occasione su alcune particolari intuizioni di Langer, qui vorrei solo riportare alcune parti dell’articolo “Il cittadino come creditore dello Stato”, pubblicato nell’ottobre 1991.

Quest’anno le finanze pubbliche italiane hanno toccato un nuovo record (…). Lo Stato dovrà spendere quest’anno più di 140.000 miliardi di lire per trovare sul mercato finanziario nuovi investitori (…). Questa somma gigantesca – quasi un quarto del totale delle uscite dello Stato – supera il totale del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, indicato in 123.000 miliardi di lire. (…) L’acquisto di titoli di Stato è da una decina d’anni la «dritta» con cui lo Stato riesce a coprire il suo cronico deficit di bilancio, suggerita soprattutto ai normalissimi piccoli risparmiatori, i quali hanno scoperto che conviene fornire allo Stato la droga di cui ha bisogno pe sopravvivere (…). Da parte loro le banche si sono attrezzate alla mediazione e alla gestione dei titoli di Stato. (…)
Questo circolo vizioso della finanza pubblica italiana, (…) ha anche un suo lato piccante: (…) perché il denaro così investito non di rado proviene dall’evasione fiscale. L’evasione annua è stimata dal ministero competente in 260.000 miliardi di lire (…). Ma che l’evasione fiscale di massa costituisca il maggiore scandalo sociale dell’Italia è chiaro a tutti, solo che si fa ben poco per combatterlo.

In oltre vent’anni sembrano sostanzialmente cambiate solo le cifre. Leggere le conclusioni di Langer è terribilmente triste.

Che questo meccanismo possa funzionare ancora a lungo è assai dubbio, non da ultimo a causa della crescente integrazione economica e finanziaria nella Comunità europea, (…). Tuttavia, finché un governo dipende dal consenso degli strati che sono alimentati dal circolo vizioso sopra descritto e non esiste una situazione di guerra che possa in qualche modo giustificare una drastica svalutazione degli obblighi finanziari pubblici, l’Italia deve continuare a convivere con questo dilemma, tentando di rinviare il peggio con piccole misure correttive (privatizzazione di aziende di Stato, contrasto più efficace dell’evasione, alienazione di beni del patrimonio dello Stato, pacchetti fiscali).
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Finanza-ombra (4) Perché abbiamo il cappio al collo

Su la Repubblica di lunedì 30 luglio è stato pubblicato “Sulla crisi pesano i debiti delle banche” di Luciano Gallino che riproduco integralmente. L’autore di Finanzcapitalismo (Einaudi 2011) sintetizza con la solita lucidità  l’analisi sulle origini della crisi in atto. (Il grassetto è mio.)

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032. Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.
Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.
In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.
La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario.
I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria.
Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro. L’esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l’acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.
La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall’estate di quell’anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell’ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli attivi dell’eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell’accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano). A metà giugno il ministro italiano dell’Economia – cioè Mario Monti – commentava il green paper: «È importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese».
Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole. Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l’istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l’inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l’inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana.
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“Bicicletta amore mio”

Una brutta notizia estiva è che E-il mensile, che usciva dall’inizio del 2011, con il numero di agosto cessa le pubblicazioni. Il direttore Gianni Mura nell’editoriale spiega che l’editore, cioè Emergency, “non è più disponibile ad accollarsi il passivo (non esorbitante) della gestione. Non ci trovo nulla da eccepire: prima vengono gli ospedali, poi i giornali.”

Vi segnalo però quest’ultimo numero perchè è bellissimo e in buona parte dedicato alla bicicletta. Vi sono bellissime foto (Cartier-Bresson, Capa ed altri), storie (il biciclettaio anarchico Enrico Malatesta, lo scrittore cinese Xu Xing), politiche (“Prendiamoci l’autostrada” per l’Europa, “Il futuro corre su due ruote” per l’Africa), informazioni tecniche (parti della bici, riparazioni, sicurezza), interviste a ciclofili (Giò Pozzo e Marco Maccarini), il servizio su Cassinetta di Lugagnano (“Lungo il Naviglio”), una scheda di libri (con protagonista principale Ediciclo),  infine i “Velo pensieri” di Francesco Ricci e Anna Godeassi e “Ci salveremo, forse” di Gianni Mura.

Da quest’ultimo pezzo (in realtà il primo) riporto in parte il finale:

Io vado in bici, che è diverso dal correre in bici. E’ come camminare da seduti. Seduti comodi, sia chiaro. Busto eretto, niente prove nella galleria del vento, niente posizione aerodinamica. Sono sempre le mie gambe ad andare, ma il ritmo lo decido io, la libertà è questa. (…) Di andare, di fermarci dove ci pare, di non fare rumore, di non inquinare, di fischiettare, di essere dentro il paesaggio (suoni, colori, odori), di padalare sentendosi pedalare (il massimo). La speranza, per chi corre sul serio, va da quella di vincere, di non essere ripreso, a quella di non essere staccato, di arrivare ultimo. La mia speranza, da cittadino slow e non fast, è che nelle nostre città ci siano sempre più biciclette e sempre meno motori. Poi in ballo c’è un sacco di altre cose, dalla qualità della vita a quella dell’aria. Non siamo messi bene e forse non sarà una bici a salvarci. Certamente non sarà un motore.
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Prova di governo

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Cosa succederà nel 2017?

Serge Latouche in un’intervista sui problemi del momento: «Sappiamo già che l’attuale sistema crollerà tra il 2030 e il 2070», spiega a Lettera43.it, «il vero esercizio di fantascienza è prevedere che cosa succederà tra cinque anni».

Lo so che da lontano sembra il matto che ride per la cosa assurda che sta guardando e che vede solo lui. Sembra un matto, ma chi – come noi – lo conosce un po’ sa che ci vede piuttosto bene.

Non piacciono le sue proposte? Sono le proposte di un matto, ma almeno sono proposte chiare. Chi ci governa adesso non discute niente, nessuna proposta, fa solo decreti. Ma con quale efficacia sul corso delle cose? Forse serve un matto.

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En attendant Godot

Sono sempre alla disperata ricerca di segnali dal mondo politico ed econonomico di qualche consapevolezza sulla realtà della finanza. E’ possibile che non solo non ci sia nessuna volontà d’intervenire sul settore finanziario internazionale, – come per esempio ha auspicato l’ex Governatore della Banca d’Italia, ex Primo Ministro, ex Ministro del Tesoro ed ex Presidente della Repubblica, nonché ex partigiano, Carlo Azeglio Ciampi – ma che siano proprio così ciechi?

E’ con questa costante curiosità che ho colto questa parte dell’intervista di Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, a Vittorio Grilli, ministro dell’Economia da pochi giorni, in sostituzione dell’interim del premier Mario Monti.

A cinque anni dallo scoppio della bolla dei subprime, qual è la sua personale valutazione, qual è stato il più grande errore commesso?
«La velocità della globalizzazione ci ha colto di sorpresa e nessuno di noi pensava che l’attività di supervisione dei governi fosse così lenta e miope, a volte persino inconsapevolmente complice delle patologie dei mercati».
Lei pensa che la scelta della banca universale, senza la separazione dell’attività di investimento da quella commerciale, sia la causa principale?
«Il modello andrebbe cambiato. Dovremmo avere l’onestà di dirlo. Guardi, una volta le banche d’affari erano boutique e tutti conoscevano tutti. Oggi sono istituzioni estremamente complesse con migliaia di persone dove la cultura super tecnocratica dei prodotti finanziari domina su tutti».

Dunque ci vedono bene e sanno anche che “il modello andrebbe cambiato”. Forse dobbiamo solo aspettare Godot.

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E allora

Il segretario Bersani ha concluso con la sua replica l’assemblea nazionale del Pd. L’ho letta tre-quattro volte per capire dove vuole andare. Ho letto che “dalla crisi si esce con una democrazia e una politica nuova, questo è il compito che ci tocca”.

Una democrazia e una politica nuova, ma quale? Allora sono andato indietro, alla relazione, dove ad un certo punto si legge:

Diremo del lavoro. Il lavoro come cuore del progetto. Il lavoro dei produttori, delle persone che creano, pensano, operano, fanno impresa. Il lavoro che oltre all’antagonismo classico fra operai e impresa sta subendo una nuova forma di sfruttamento per garantire i guadagni e i lussi vergognosi della rendita finanziaria. E allora l’alleggerimento fiscale a carico di rendite di gradi patrimoni finanziari e immobiliari. E allora il contrasto alla precarietà ed alla competizione al ribasso. E allora la rottura della spirale perversa fra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti e la promozione di una migliore democrazia del lavoro. E l’occupazione femminile e giovanile, in particolare nel Sud, come misuratore dell’efficacia di tutte le politiche. Arriveremo a tutto questo recuperando competitività, lavorando su tutti i fattori di innovazione e modernizzazione favorendo una ripresa degli investimenti delle imprese.

Mi è chiaro il finale. Tutti i buoni propositi (“E allora”) passano attraverso la “ripresa degli investimenti delle imprese”, quindi il programma di Monti. E allora, è cambiato qualcosa con questa assemblea? E’ servita veramente a qualcosa, se non a dimostrare l’assoluta mancanza di nuove idee e di autonomia culturale?

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Alba in 2 giorni

Lo scorso week end, 30 giugno e 1 luglio, a Parma c’è stato il primo meeting di Alba (Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente), il soggetto politico nuovo nato il 28 aprile con l’assemblea di Firenze.

I due giorni di Parma avevano lo scopo di definire lo statuto e discutere le parole chiave. Sul sito è stato presentato un primo report, ma in questi giorni saranno inseriti tutti i video ed i materiali prodotti.

Dal primo report faccio, se possibile, un’ulteriore sintesi usando solo i punti più importanti.

Niente somme spente di partitini vecchi. Tanto meno liste civiche con volti decenti di supporto a un centrosinistra impresentabile. Nessuna alleanza con questo PD.
Si è aperta una fase costituente della democrazia italiana. L’ambizione che ci anima è alta: contribuire alla costruzione di un’alternativa a questa Italia e questa Europa.
Esiste una parte ampia della società italiana, che ha riempito le strade di questi anni. E anche le urne, una volta tanto, nei referendum e in molte elezioni amministrative. Questa Italia non è minoritaria e non è figlia di appartenenze ideologiche chiuse ed escludenti. Chiede forme politiche nuove per poter partecipare a uno spazio pubblico allargato, all’altezza della devastazione anche antropologica che si è manifestata in questi venti anni.
Una proposta aperta, che si caratterizza sul tratto discriminante della democrazia, con un ruolo attivo di tante e tanti, dagli intellettuali ai precari per “una grande alleanza tra la classe operaia più battagliera, i ceti medi progressisti e i giovani precari o disoccupati”.
Centrale nella riflessione e costruzione di ALBA è stato anche il tema del LAVORO. Per questo organizzeremo una prima conferenza nazionale, sul tema del LAVORO, CRISI, EUROPA a Torino a fine settembre.
E poi centrale è la necessità di un reddito di cittadinanza (diffuso in tutta Europa, salvo Italia e Grecia), di un intervento pubblico per la creazione di posti di lavoro (purché gestito a livello locale e con la partecipazione dei cittadini), il tutto in un’ottica di riconversione ecologica del sistema produttivo e della nostra vita.
In questo senso possiamo dichiararci europei, ma per un’Europa delle Donne, degli Uomini e dei Popoli, solidale: una Europa altra da questa. Con un vero parlamento, con potere legislativo, eletto su liste transazionali. E in questa ottica confrontarsi su Euro e debito.
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Verso la/il finale

Arend van Dam (1945) è un noto disegnatore olandese.

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Servono altri pensieri

E’ la diciannovesima volta che i Ventisette si ritrovano a Bruxelles dall’inizio della crisi greca. E questa pare decisiva. Perché? Perché 19 volte… e non 20 o 21 o molte altre ancora? Perché ora, non solo la Grecia, ma anche altri paesi appaiono molto inguaiati, anzi sull’orlo del fallimento. Ed è dunque chiaro che con la politica di questi anni non si può più andare avanti. Una politica che non dipende solo dalla disciplina economica interna ad ogni singolo paese o stato, ma è frutto del più complesso rapporto dentro l’Unione Europea (27 paesi membri), la zona euro (la valuta comune di 17 paesi) e la finanza mondiale.

Certo, siamo in presenza di istituzioni relativamente recenti ma con un grande potenziale. Per rendere bene l’idea bastano pochi numeri. Il pil mondiale vale circa 70mila miliardi di dollari, l’Ue ne è un quarto con 17,5mila miliardi e 502 milioni di abitanti. Gli Usa sono a 15mila miliardi (314 milioni di ab.), la Cina a 7,3mila miliardi (1.340 milioni di ab.), il Giappone a 5,9mila miliardi (128 milioni di ab.).

Ebbene, nella situazione drammatica attuale, con paesi sull’orlo del fallimento e oggetto della speculazione finanziaria, pur in presenza di incontri ai massimi livelli istituzionali tra governi nazionali, commissione dell’Ue e Bce, si sente parlare di eurobonds a difesa della speculazione e di supercontrolli sui conti, perfino di unione fiscale e di unione politica, ma non si sente parlare di azioni “contro” la speculazione finanziaria.

I “mercati” stanno lì, come totem, e saranno loro a giudicare. Con una certa attenzione si può sentire che si sussurra appena qualcosa sulla Tobin tax (la tassa sulle transazioni finanziarie che era stata concepita anche come tassa di scopo per interventi internazionali su situazioni critiche), una tassa ben accetta anche a speculatori come George Soros, ma non sventolata troppo soprattutto dal nostro ineffabile premier.

Aspettiamo dunque, con molta ansia, anche se non ci sono certo le premesse perché nasca qualcosa di buono per il 99% delle popolazioni. Servirebbe ben altro che le solite rimasticature sul “vincolo competitivo”, sulla “disciplina di bilancio” e sulla “necessità della crescita”. Servono altri pensieri. Perché, come disse Albert Einstein: “non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”.

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