I forconi

Alla fine dei cinque giorni di manifestazioni previste ed autorizzate adesso sappiamo tutti un po’ di più sui “i forconi”. Innanzitutto, con buona pace di certi filologi, il termine forconi per identificarsi è usato da loro stessi, probabilmente proprio per approfittare dell’efficacia del termine e della rapida diffusione dello stesso.

Poi, abbiamo visto in tv alcune facce (nei talk-show più popolari dove tutto sommato fanno la parte di gente perbene rispetto ai soliti protagonisti della politica parlamentare). Per esempio Mariano Ferro e Lucio Chiavegato, che naturalmente hanno un loro sito. Questi due sono personaggi con idee e storie di destra e autonomiste che cercano opportunamente di occupare uno spazio politico alimentato dalla crisi economica e sociale e lasciato vuoto dalla deriva della destra politica nazionale.

Inoltre, i forconi non sono alla prima uscita, avevano già fatto le prove locali , in Sicilia e Calabria, all’inizio del 2012. E’ anzi probabile che alcuni dei leader abbiano tempificato bene l’iniziativa, anche in vista del voto europeo della prossima primavera.

La crisi è grave, il malessere, la disperazione tocca gruppi sociali che la pessima politica economica italiana da decenni ha blandito e privilegiato per puro calcolo elettorale. Io credo che il problema di questi gruppi vada affrontato politicamente, insieme a loro e senza pregiudizi e schemi teorici superati. Ma non venite a raccontare di ribellioni spontanee e di cittadini vergini ed estranei alla politica. Queste sono balle. Non siamo più né nelle jacqueries medievali né nelle condizioni a cui pensava Gramsci in carcere. Se avesse avuto un collegamento col web avrebbe anche lui riconosciuto con facilità che di spontaneo qui non c’è nulla.

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Nelson Mandela 1918-2013

Ieri il discorso più applaudito alla cerimonia per salutare Nelson Mandela è stato naturalmente quello di Barack Obama che in molti passaggi non ha nascosto di parlare di un grande lottatore, anzi, ma ad un certo punto ha sostanzialmente spostato l’attenzione affermando che “Mandela ci ha insegnato il potere dell’azione, ma anche delle idee”.

In realtà la biografia di Mandela è la biografia del Novecento, almeno nella sua seconda parte. Occultare la sua formazione marxista, la sua attività come organizzatore della lotta armata, il suo schierarsi con personaggi come Fidel Castro o Gheddafi, etc., non ci aiuta certamente a capire né lui né il mondo attuale. Trasformare un combattente in un idealista non sarebbe certo una novità storica, ci sono passati di lì quasi tutti i personaggi che rimangono un mito, ma con Mandela – che non è né morto in carcere né stato assassinato – sarebbe un’operazione veramente difficile.

Certo da questo africano ci torna ancora rinnovato un messaggio sul fondamento dell’individuo e della società: si è liberi – anche in carcere – se si è legati alla propria comunità, alla propria gente, al proprio paese, non se si è a piede libero ma si accettano le ingiustizie, il dominio, la schiavitù, né di pochi né di tanti. (Poi anche per questi, se vinci sarai un eroe, se perdi sarai un martire della libertà.) Si è liberi e non schiavi se si è liberi dentro.

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Questione di stile o di postura?

Analisi del linguaggio dei candidati alla segreteria Pd

L’ultimo numero de L’Indice dei libri del mese (n.12, dicembre 2013), uscito durante le primarie del Pd, pubblica un articolo di Giuseppe Antonelli, docente all’Università di Cassino di storia della lingua italiana contemporanea.

E’ un’analisi del linguaggio dei candidati Civati, Cuperlo, Renzi, attraverso la lettura dei loro libri più recenti. Vi lascio tutto il piacere, senza commenti, se non qualche evidenziazione ed il dubbio del titolo.

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    Scritture primarie
    di Giuseppe Antonelli

    Nel Pd scrivono in tanti. Alcuni, come Veltroni (che le primarie le vinse nel 2007) o Franceschini (che le perse nel 2009) anche racconti e romanzi che l’Indice ha puntualmente recensito. Ma quali libri hanno scritto i tre principali candidati alle prossime primarie per il segretario nazionale? Come li hanno scritti? E soprattutto: cosa si può dedurre dalla loro scrittura rispetto al loro profilo politico (che non sempre sarà necessariamente il sinistro)? Quello che segue è un esperimento di recensione comparata di alcuni libri di Giuseppe Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi pubblicati a partire dal 2009, l’anno in cui Bersani fu eletto segretario.

    Bello e impossibile

    L’ultima riga del libro più vecchio, Basta zercar di Cuperlo (2009), recita così: “Primavera 2013 (o forse prima): il centrosinistra italiano vincerà le elezioni politiche”. Le prime righe dei libri più nuovi, Oltre la rottamazione di Renzi e Non mi adeguo di Civati (entrambi 2013), elaborano il lutto per la vittoria mutilata: “la sinistra realizza la straordinaria impresa di perdere elezioni politiche che sembravano già vinte” (Renzi); “gli elettori si erano espressi contro la grande alleanza che aveva sostenuto Monti, e se la sono ritrovata” (Civati).

    Il libro di Cuperlo, d’altronde, è il più vecchio non solo perché è uscito quattro anni prima, perché parte dal remoto 1921, perché è stato scritto dal più vecchio fra i tre candidati (Cuperlo ha 14 anni più di Renzi e Civati). È il più vecchio perché Cuperlo scrive senza guizzi, mettendo in fila capitoli troppo lunghi per spiegare efficacemente e troppo piatti per raccontare appassionatamente. E anche perché ha un opacissimo titolo dialettale (Cuperlo è di Trieste), che oltretutto rimanda alla fiducia riposta da alcuni vecchi militanti nello statuto del Pci: “xe inutile far polemica col partito… gavemo un Statuto no? E te sa perché el se ciama Statuto? Perché dentro sta-tuto. Basta zercar!”. Come dire: il nome è cambiato, ma il partito è sempre quello (dall’88 al ’90 Cuperlo è stato segretario nazionale della Fgci, la Federazione dei Giovani Comunisti Italiani). Inutile cercare tanto in giro: fidatevi del partito e tutto si risolverà. Non sarà un caso che nei titoli dei capitoli ci si riferisca spesso a un noi che è da identificare proprio col Pd: “La crisi e Noi”, “Il Nord, la Destra e Noi”, “La Sicurezza, la Destra e Noi”. Ancora oggi, d’altra parte, Cuperlo è l’unico dei tre ad aver inserito il nome del partito nel proprio slogan: “Bello e democratico. Il tuo Pd per il paese di tutti”. (Paese, tra l’altro, è definizione dalemiana: Un paese normale, s’intitolava il libro pubblicato da Mondadori – già di proprietà berlusconiana – nel 1995. E soprattutto lo slogan ricorda un tormentone canoro di qualche tempo fa: la sovrapposizione fra democratico e impossibile va considerata un lapsus?). Per i due candidati ‘giovani’, invece, il noi è sempre riferito a qualcosa di più ristretto – il gruppo di lavoro, i collaboratori, la cerchia dei sodali – o a qualcosa di molto più largo: la generazione a cui si appartiene, le persone stufe di come vanno le cose; nel caso del sindaco Renzi anche al noi municipale di Firenze.

    De bello democratico

    Civati e Renzi parlano soprattutto in prima persona. Entrambi amano citare un pantheon pop fatto di cantanti, registi, attori (Civati un po’ di meno); entrambi amano la frase a effetto, il gioco di parole (Renzi un po’ di più): tutte conseguenze del comune imprinting generazionale. Ma le differenze non sono soltanto di misura.

    In Civati il gioco di parole è quasi sempre allusivo, basato sul ricalco di quella che si suppone un’enciclopedia in comune col lettore (o elettore). Dal marxiano – marxista sarebbe davvero troppo – Uno spettro (non) si aggira per l’Italia che apre Il manifesto del partito dei giovani (2011) al cinematografico Giovani, carini e soprattutto disoccupati, dal latineggiante De rottamatione fino ai vari L’abbiamo fatta Grosse o Senza Sel e senza ma. Nei suoi testi, didascalicamente scanditi da brevi paragrafi, Civati nomina Ugolino e Anchise, parla di crowdsourcing e del Compagno Excel, cita ironicamente Cicerone (Quo usque tandem?), con l’idea di raggiungere un pubblico che condivide la sua stessa cultura: laureati, insegnanti, il nuovo precariato intellettuale. Per questo può permettersi di riportare molti dati statistici, di chiamare in causa scrittori coetanei come Lagioia, Raimo, Parrella; può parlare, senza dilungarsi in spiegazioni, di Erasmus o di startup.

    Renzi invece non si limita, come Civati, a citare Vecchioni o Gino Paoli. Fa sua l’intuizione di Tiziano Scarpa per cui ormai “è la cultura pop che fonda la nostra identità nazionale”, e (senza probabilmente averla mai letta) la trasforma in una modalità di scrittura totalizzante: in quell’immaginario ambienta tutta la sua narrazione. Le auctoritates evocate nelle epigrafi di Fuori! (2011) sono Clint Eastwood, Jose Mourinho, Steve Jobs, Pierluigi Collina; tanto che, quando si vedono spuntare Baden Powell e Calamandrei, viene in mente la jovanottiana “grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa” (non è lui, d’altronde, il più grande politico dopo il big bang?). In altri suoi libri s’incontrano Balotelli e Guardiola, “il derby di personalismi”, “il catenaccio di una sinistra rassegnata”, come a ribadire che Renzi – più che con la Fgci – ha una certa dimestichezza con la Figc (la Federazione Italiana Giuoco Calcio).

    La banale bellezza

    Rispetto a Civati, Renzi non spiega: racconta. Per questo allunga i capitoli e accorcia le frasi; e non si limita a un tono affabile, ma satura la sua scrittura di segnali discorsivi: marche di (finto) parlato che diventano, tramite l’iterazione, una specie di marchio di fabbrica: “Ok, lo so: la maggioranza dei miei colleghi politici dice che tutto va male”; “Intendiamoci, bisogna anche saper sorriderci sopra”, “Fortunatamente o sfortunamente, sia chiaro”. I suoi aggettivi preferiti sono semplice e banale, perché la sua sfida (altra parola chiave) è “la rivoluzione del buon senso”, che deve riuscire a convincere anche gente come suo nonno e sua zia (entrambi protagonisti di aneddoti). Infatti i suoi giochi di parole non richiedono un particolare sostrato culturale: “contro tromboni e trombati”, “sa di fuffa e forse perfino di muffa», «volevo prendere il voto dei delusi di Berlusconi, arrivo a prendere il veto” (“c’è un problema di vocali”, commenta lo stesso Renzi: come quelle che si compravano alla Ruota della fortuna?).

    Il fatto è che la rivoluzione di Renzi (Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter, 2012) consiste soprattutto in questa banalizzazione (“Dante era un ganzo … Detta male: gli garbava di vivere”), in questa semplificazione sempre attenta a “non buttarla in politica”. Il suo stilnovo più che uno stile è una elasticissima postura. Riflette la sua immagine fluida, cangiante: dal giubbotto alla Fonzie con cui si presentò dalla De Filippi alla tenuta da maratoneta della domenica, dalle maniche arrotolate alla fascia tricolore. Immagine ben diversa da quello di Pippo Civati, che Paolo Virzì descrive come “lo studente che primeggia a scuola e che però passa volentieri i compiti ai compagni più somari … metà Bob Kennedy, metà Stefano Accorsi”.

    Renzi non cerca, come Civati, la geometria numerica delle 10 cose buone per l’Italia che la sinistra deve fare subito (2012) o dei 101 punti per cambiare (la cifra vuole alludere ai franchi tiratori contro Prodi, ma finisce col ricordare la carica dei piccoli dalmata). Al “futuro interiore” di Civati, Renzi preferisce il presente assoluto di Adesso!; all’introspezione centripeta per cui “il Pd deve aprire le porte e le finestre, senza temere infiltrati”, l’estroversa vocazione del Fuori!; alla negazione che – come insegnano i cognitivisti – rischia sempre di affermare (Non mi adeguo! vorrebbe richiamare l’Indignatevi! di Hessel, ma evoca pericolosamente il “non capisco, ma mi adeguo” di Quelli della notte), Renzi risponde con la rimozione: Oltre la rottamazione (titolo che peraltro conferma l’ispirazione di Adesso!: l’album di Claudio Baglioni che seguì La vita è adesso s’intitolava proprio Oltre).

    Entrambi, Renzi e Civati, hanno scelto d’inserire nel loro slogan il cambiamento. Ma Civati rimane prigioniero del paradosso tautologico (“Le cose cambiano, cambiandole”) e di un logicismo un po’ logorroico: la mozione congressuale che porta questo titolo è lunga ben 70 pagine. Mentre Renzi sceglie un “L’Italia cambia verso”, declinato in un documento di sole 18 pagine. Slogan forse poco felice in sé (“vien subito in mente un’Italia che prima magari grugniva, e adesso che fa? squittisce?”, ha commentato Annamaria Testa), che però acquista forza grazie alla soluzione grafica di contrapporre specularmente una parola negativa e una positiva, scrivendo la prima da destra verso sinistra: “paura / coraggio”, “burocrazia / semplicità”, “il cavaliere / gli italiani” (dunque il primo va a sinistra, gli altri a destra).

    Appare così evidente, una volta per tutte, il passaggio di Renzi dall’ideologia (“sarebbe vile non riconoscerlo, sarebbe ideologico negarlo”) all’ideografia. Nel vestiario, nel vocabolario, nella scelta dei testimonial, tutta la sua comunicazione procede accostando simboli diversi, secondo una logica prettamente narrativa, cioè (come ci ha insegnato Matte Blanco) onirica: in cui si può tranquillamente violare il principio d’identità e non contraddizione. Molto meglio e molto più di qualunque discorso argomentativo, questa comunicazione iconica riesce nell’intento di trasmettere emozioni a un pubblico il più vasto possibile. E poi, se rivoluzione vuol dire etimologicamente capovolgimento, cosa c’è di più rivoluzionario che scrivere i contrari al contrario? Basta col “perdere bene”: ora l’imperativo (l’infinito, a dire il vero) è “vincere”.

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Stato di fatto

Quella della legge elettorale “Porcellum” azzerata dalla Corte Costituzionale è una questione talmente paradossale che farà senz’altro scuola, oltre che storia.

Per sintetizzare: (1) la Corte ha anticipato (aspettiamo le motivazioni) il giudizio d’incostituzionalità sul premio di maggioranza senza soglia alla Camera e sull’assenza di preferenze sui candidati – quindi non si potrà più votare con questa legge; (2) sugli attuali eletti pende un forte dubbio di illegittimità; (3) poiché si è votato ben tre volte con una legge incostituzionale, molte cariche prodotte da questi parlamenti sono perlomeno costituzionalmente “discutibili”, a partire da quella del Presidente Napolitano, eletto nel 2006 e rieletto quest’anno, e perfino alcuni membri della stessa Corte Costituzionale!

Insomma, siamo al paradosso che una Corte eletta parzialmente da organi “illegittimi” dichiara la propria stessa illegittimità! Così la politica italiana di questi anni è riuscita a portare la sua prassi agli estremi della logica. Dobbiamo andare ai paradossi di Zenone o di Russell per trovare dei possibili confronti. (Mi piacerebbe farlo, ma magari in un momento più tranquillo.)

Ma in attesa delle motivazioni, tecnicamente decisive, cosa si può fare? Ieri il Capo dello Stato, richiamando le parole di Gustavo Zagrebelsky, ha dichiarato che il Parlamento è legittimo. Per comodità qui sotto riporto solo una parte iniziale dell’intervista all’ex presidente della Consulta pubblicata oggi su la Repubblica:

    Torniamo ai travolgimenti, la sentenza travolge o no 7 anni di storia costituzionale?
    “No. Per il principio di continuità dello Stato: lo Stato è un ente necessario. L’imperativo fondamentale è la sua sopravvivenza, che è la condizione per non cadere nell’anomia e nel caos, nella guerra di tutti contro tutti. Perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla Repubblica, o dallo zarismo al comunismo. Il fatto stesso di essere costretti a ricordare questo estremo principio significa che siamo ormai sull’orlo del baratro”.

Capito? Una delle menti più lucide del panorama intellettuale e morale italiano (senza ironia alcuna), dice che le cose devono andar avanti così “per il principio di continuità dello Stato”, perché lo Stato è “un ente necessario”. Non cercate questo nella Costituzione Italiana, non c’è scritto. E’ solo la realtà delle cose che vince, come sempre.

Ma il colmo dei paradossi sarà assistere al nuovo tentativo di questo Parlamento incostituzionale di cambiare la Costituzione.

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Il vero colpo di stato in atto

Riporto l’intervista di Roberto Ciccarelli a Luciano Gallino pubblicata su il manifesto di oggi. (Le evidenziazioni sono mie.)

Duro il giudizio sulla legge di stabilità: «Una pioggerella»
Gallino: «Un colpo di stato è in atto in Italia e in Europa»

Le misure della legge di stabilità, per quanto sembrino sorrette da buone intenzioni, in una prospettiva minimamente di sinistra hanno il grave di difetto di continuare a essere più che mai provvedimenti a pioggia, mentre il paese è in emergenza con 10 milioni tra disoccupati, precari, scoraggiati, vale a dire il 40 per cento della forza lavoro attiva – afferma Luciano Gallino, autore di Il colpo di Stato di banche e governi (Einaudi) – Con questi spiccioli buttati qua e là il risultato sarà quasi inesistente».

Cosa ne pensa di quello che il governo chiama «reddito minimo» mentre in realtà è una social card?
Invece di investimenti da 10 o 20 miliardi nel campo del lavoro o sul dissesto idrogeologico si fa una cosina che non servirà nemmeno come esperimento. In Francia dove è stato sperimentato il «reddito di solidarietà attiva», l’esperimento riguardava un milione di persone con un impegno finanziario enormenemte superiore ai 40 milioni di euro all’anno stanziati in Italia. Con queste modestissime risorse non inciderà sulla povertà. Aggiungo che non sono favorevole al reddito minimo. Penso che se ci sono le risorse sarebbero più utili da spendere per creare posti ad alta intensità di lavoro, e soprattutto niente grandi opere. Il reddito minimo è un intervento di portata non direttamente paragonabile a interventi diretti sull’occupazione, ma avrebbe qualche giustificazione se fosse una modalità per superare la congerie della cassa integrazione in deroga, dei sostegni alla famiglie in povertà, dell’Aspi. Si potrebbe mettere ordine integrando tutto nella sola voce del sostegno al reddito per chi non ha occupazione.

Quello in corso in Italia, e in Europa, sarebbe per lei un colpo di stato. In cosa consiste?
Si può parlare di colpo di stato quando una parte dello stato stesso si attribuisce poteri che non gli spettano per svuotare il processo democratico. Oggi decisioni di fondamentale importanza vengono prese da gruppi ristretti: il direttorio composto dalla Commissione Ue, la Bce, l’Fmi. I parlamenti sono svuotati e hanno delegato le decisioni ai governi. I governi li hanno passati al direttorio. Se questa non è la fine della democrazia, è certamente una ferita grave. Pensiamo al patto fiscale, un enorme impegno economico e sociale con una valenza politica rilevantissima di cui nessuno praticamente ha discusso. I parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno votato alla cieca perchè ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto. Questa espressione è un corollario del colpo di stato in atto.

Il governo Letta è l’espressione di questo colpo di stato?
Lo è fino al midollo. Perchè tutti i suoi componenti rappresentano l’ideologia neoliberale per la quale l’essenziale è la decisione, che sia rapida efficiente ed economicamente razionale.

Crede che Letta e Napolitano avvertano la difficoltà di mantenere il piano dell’austerità?
Direi che prima se ne rendono conto, meglio sarà per tutti.

Ma è realistica la loro intenzione di ammorbidire l’austerità?
Non lo è, un pò di pioggerella su un grande pascolo non fa crescere i baobab o le sequoie. Gli alberi bisogna piantarli, non innaffiare il prato aspettando che dopo tre o quattro decenni crescano da soli.

Uno degli effetti del colpo di stato è stato l’introduzione del pareggio di bilancio nella costituzione italiana?
È avvenuto in tutti i paesi membri dell’Unione Europea dopo la decisione del consiglio europeo sotto la spinta del direttorio. Bisogna assolutamente rientrare dal debito in 20 anni, riportandolo al 60%. Questo valore è inventato. Poteva essere il 50% o il 70%. Il dogma poi è diventato sacro. Questa decisione impone all’Italia di trovare 50 miliardi di euro ogni anno, per i prossimi venti. Significa l’impossibilità assoluta di farvi fronte. Qualora fosse realizzato questo piano sarà imposta una miseria rispetto alla quale quella della guerra del 40-45 sarà poca. Questa decisione doveva essere discussa, sottoposta a un referendum, per rendere edotti i cittadini di cosa significava.

A cosa è ispirato il progetto politico di chi dirige questo colpo di stato?
La maggior parte dei nostri governanti ha assorbito l’ideologia neoliberale per cui i cittadini non devono pronunciarsi, perchè danno fastidio, si mettono a discutere di cose che non capiscono, intervengono su decisioni che riguardano la loro vita, ma se si prendono alla spiccia è meglio, senza interferenze. La democrazia è un intralcio quando si devono prendere decisioni economiche e finanziarie in modo veloce. Angela Merkel al suo parlamento ha detto che viviamo in un sistema democratico e quindi è corretto che il parlamento esamini le leggi a condizioni che si arrivi a decisioni conformi al mercato. La direttrice dell’Fmi Christine Lagarde sostiene la stessa cosa. Quello che queste due signore auspicano è già avvenuto. I parlamenti non decidono nulla.

Quello che tratteggia sembra un moloch politico-finanziario praticamente inattaccabile. In che modo si può costruire un potere alternativo?
Me lo chiedono sempre, ma le alternative ci sono e gli dedico 35 pagine del libro. La riforma essenziale è quella del sistema finanziario per affrontare la possibilità di una nuova crisi che può esplodere nel giro di pochi anni. Questo sistema è lontanissimo dalle esigenze delle economie reali e dalla produzione di beni utili per la comunità. In Europa si discute di questo dal 2008 senza combinare nulla, salvo pubblicare numerosi rapporti o studi. La riforma dell’architettura finanziaria della Ue è fondamentale, come anche l’intervento sui trattati europei. Siamo arrivati al paradosso che si possono cambiare le costituzioni in due ore, mentre il trattato di Maastricht viene ritenuto immodificabile. Questo trattato ha limiti gravissimi, assomiglia allo statuto di una corporation, mentre sarebbe molto bello che la piena occupazione comparisse non una sola volta come oggi, ma come il suo scopo centrale. Bisogna inoltre modificare lo statuto della Bce. Davanti a 26 milioni di disoccupati e 126 milioni a rischio di povertà persegue la stabilità dei prezzi, mentre dovrebbe regolare il credito e l’attività finanziaria, prestare a enti pubblici a cominciare dagli Stati. Una facoltà che hanno tutte le banche centrali, tranne la Bce.

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Sprawl

Riporto il testo assolutamente da leggere di un recentissimo intervento di Edoardo Salzano, l’urbanista veneziano che da sempre si distingue per la battaglia in difesa del suolo e del paesaggio. Nell’estrema sintesi, da lui stesso riconosciuta, non mancano precisi riferimenti alle cause e una chiara autocritica rispetto alla gravità dei processi in atto e non sufficientemente contrastati.

Il testo pubblicato oggi su eddyburg, è un intervento in un convegno organizzato dalla Regione Toscana e – ne fosse proprio stato bisogno – assume un’acuta attualità dalle drammatiche notizie che provengono in questi giorni dalla Sardegna. (Ma in queste ore anche qui da noi non siamo così rilassati…).

Il mio titolo fa riferimento al termine tecnico (sprawl) usato anche da Salzano e viene anche usato per descrivere lo stravaccamento, p. es. su un divano. Mi sembra l’espressione più sintetica e chiara.

(Per facilitare la lettura, ho leggermente modificato la spaziatura, i caratteri e la punteggiatura originali, naturalmente senza toccare il testo vero e proprio.)

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Perché e come contrastare il consumo del suolo
di Edoardo Salzano

Il tempo che è stato concesso ai nostri interventi mi obbliga a essere sintetico, perciò in buona parte apodittico. Spero che questo non nuoccia alla chiarezza.

Il suolo è un bene prezioso, oggetto di utilizzazioni molteplici

Perché è necessario contrastare il consumo di suolo? Credo che in primo luogo occorra assumere piene consapevolezza del fatto che il suolo è un bene prezioso per ciò che esso è, per le sue caratteristiche proprie:
– è la pelle del pianeta, il substrato delle comunità biologiche, l’infrastruttura materiale della vita;
– è il palinsesto della storia delle civiltà umane;
– è l’habitat della società umana, il suo sistema insediativo.

Da queste sue caratteristiche discendono le molteplici potenziali utilizzazioni del suolo per la razza umana:
– il ciclo della biosfera,
– il deposito di risorse naturali utili all’uomo,
– la produzione degli alimenti,
– l’habitat dell’uomo,
– la testimonianza e l’insegnamento della storia delle civiltà.

Le trasformazioni della civiltà umana hanno prodotto, soprattutto negli ultimi secoli, un pesante processo di trasformazione che ha privilegiato, rispetto alle altre utilizzazione, quella finalizzata all’uso del suolo come habitat dell’uomo nella forma dell’urbanizzazione: abbiamo inventato e progressivamente esteso la città, che è divenuta al tempo stesso gloria e dannazione della civiltà umana.

Oggi constatiamo che il suolo si sta gradatamente ma velocemente trasformando in quella che Antonio Cederna definiva la “repellente crosta di cemento e asfalto”.

Il ruolo della rendita

Decisivo in questo mortifero processo sono stati due elementi:
– la mancata consapevolezza di consapevolezza del valore del suolo come bene (come patrimonio da gestire con parsimonia), e non come merce;
– il ruolo che ha via via assunto la rendita urbana: più precisamente, la sua appropriazione privata.

La potenzialità economica della rendita nell’economia capitalistica borghese, e soprattutto in quella post-borghese, ha escluso, ed esclude via via più decisamente, gradualmente le altre possibili utilizzazioni (oltre a cancellare quella che io definisco la “città dei cittadini”: quella cioè finalizzata al ben-essere e ben-vivere dei suoi abitanti).

Come contrastare

Per contrastare il consumo di suolo dobbiamo tener conto che esso ha molte forme:
– il land grabbing, cioè l’accaparramento dei terreni e del loro uso da parte di poteri esterni alle comunità locali;
– l’asservimento della produzione agricola al ciclo energivoro dell’economia opulenta, mediante la produzione esclusiva di biomasse;
– la distruzione materiale della naturalità, della bellezza e della storia mediante, cioè la sostituzione della pelle del pianeta con la “repellente crosta di cemento e asfalto”.

E’ su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi, tenendo conto che non è l’unico, che tutti vanno combattuti e che solo una visione complessiva può consentire il formarsi le alleanze necessarie per vincere.

Il punto di svolta

Mi pongo una prima domanda: Quando il consumo di suolo è diventato un problema, un aspetto rilevante dei processi di degrado dell’ecosistema planetario che già la cultura ecologista aveva denunciato?

Il punto di svolta è stato rappresentato dagli orribili anni ’80, le cui prime radici si sono potute vedere in Italia nelle “controriforme” del decennio precedente.

Ecco le cinque parole chiave del degrado:
1. La perequazione, intesa e praticata come spalmatura dell’edificabilità;
2. l’invenzione dei diritti edificatori, termine fino ad allora completamente estraneo sia al linguaggio corrente che al mondo del diritto e a, teorizzata e praticata nel PRG di Roma targato Rutelli e Veltroni;
3. la vocazione edilizia come attributo del suolo;
4. il trionfo della rendita urbana, magistralmente analizzata da Walter Tocci;
5. l’abbandono della pianificazione, il cui emblema è stato costituito dalla legge di Maurizio Lupi.

Il punto di svolta è stato insomma determinato dall’onda globale del neoliberismo aggravata nella sua versione italiana a causa di due elementi nostrani:
– il ruolo della rendita nel nostro paese;
– la debolezza della pubblica amministrazione dello stato unitario.

Abbiamo capito tardi

Mi pongo una seconda domanda: perché la gravità del fenomeno è stata avvertita così tardi?

E’ una domanda che mi pongo da quando, nel 2004, abbiamo cominciato a preparare la prima edizione della Scuola di eddyburg e ci siamo accorti che cultura, politica e amministrazioni non consideravano lo sprawl un grave pericolo da combattere.

Mi sono convinto che questo ritardo sia addebitabile soprattutto a 4 cause:
1. L’egemonia conquistata dall’ideologia della crescita indefinita (lo “sviluppismo”);
2. La decadenza della politica e il suo appiattimento sul giorno per giorno;
3. La distrazione della gran parte dei saperi specialistici dagli aspetti propri della pianificazione delle città e del territorio;
4. Il prevalere nell’accademia della formazione di tecnici per la gestione dei processi in atto (facilitatori); anziché di intellettuali dotati di spirito critico e quindi propositori di strade alternative.

Le cose sono cambiate

Oggi il “No al consumo di suolo” è diventato uno slogan di massa: il peggioramento delle condizioni materiali, i risultati del saccheggio in nome della rendita hanno suscitato reazioni estese di protesta e di puntuale proposta alternativa.

Ma “No al consumo di suolo” è diventato anche una parola passepartout, come è accaduto per le parole sostenibilità, sviluppo, e perfino con la parola democrazia.

Dobbiamo porre la massima attenzione attenti ai falsi profeti, ai lupi mascherati da agnello.

Grande confusione sul “che fare”

Le commissioni parlamentari sono affollate di proposte legislative, alcune chiaramente volte a convalidare le scelte perverse che hanno causato il saccheggio del territorio, altre semplicistiche e velleitarie, altre infine mutuate da esperienze di altri paesi il cui contesto è profondamente diverso dal nostro.

La confusione non è un buon segno, perché allontana dalla buona soluzione. Eppure la situazione è gravissima ed è urgente dire “stop al consumo di territorio” nella pratica.

Molto si può già fare, a tutti i livelli. Ma a tutti i livelli è in primo luogo necessario disporre di:
– una visione strategica, quindi alternativa rispetto alla miopia prevalente oggi;
– un dispositivo che leghi tra loro i diversi livelli di governo: le istituzioni della Repubblica, stato, regioni, province e città metropolitane, comuni;
– l’attivazione di procedure che consentano di dare voce informata e consapevole al “popolo sovrano”, coinvolgendolo nel processo di decisione.

A livello comunale
Molte esperienze di autocontenimento del consumo di suolo con gli strumenti della pianificazione urbanistica: il Prg di Napoli del 2004 e, in Toscana i piani di Lastra a Signa e quello di Sesto Fiorentino nel 2004 e 2005: ma ce ne sono certamente altri.

A livello regionale
Due parole sulla proposta di modifica della legge 1/2005 approvata dalla giunta regionale della Toscana.

Un testo che mi sembra esemplare soprattutto per tre aspetti:
1. assegna priorità alla tutela e al riconoscimento del valore del patrimonio comune rispetto alle trasformazioni. Voglio sottolineare che questo “riconoscimento” postula un massiccio impiego di lavoro in tutti i settori connessi alla manutenzione del suolo;
2. esprime in termini chiari le buone intenzioni confusamente espresse nella legge precedente e, soprattutto, le traduce in dispositivo efficace e tassativo;
3. pone in termini corretti e produttivi l’integrazione delle competenze dei vari livelli di go-verno: il tema complesso ma decisivo di un’interscalarità nel processo delle decisioni che cor-risponda alle differenti scale di rilevanza degli aspetti del territorio e del loro governo;

E’ un testo normativo che merita di essere indicato come modello per ogni legge regionale in materia e di essere assunto (soprattutto per le sue definizioni) come matrice di una nuova legislazione nazionale.

A livello nazionale
Ma è certamente necessario un intervento normativo a livello nazionale, non solo perché non tutta l’Italia è come la Toscana (lo ha ricordato con efficacia Marco Cammelli) ma anche perché ci sono nodi che solo a livello della Repubblica possono essere risolti.

Per tutelare il territorio non urbanizzato, a livello nazionale si dovrebbe:

1. Stabilire regole valide per tutte le regioni – del centro, del nord e del sud – avvalendosi delle competenze statali in materia di paesaggio. Già lo proponemmo come amici di eddyburg nel 2005, e le nostre proposte furono riprese anche nel testo elaborato dall’on. Raffaella Mariani.

2. Applicare le leggi esistenti, e procedere tempestivamente alla individuazione delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione”, come prescrive il Codice del paesaggio.

3. Ribadire il principio che l’edificazione è una facoltà che appartiene alla collettività e alle sue rappresentanze democratiche (ripartendo da Piero Bucalossi) e fare piazza pulita con le teorie e le pratiche dei “diritti edificatori” e delle connesse compensazioni e perequazioni. Tocchiamo qui il nodo del contenuto del diritto proprietario, sul quale altri parleranno con maggiore competenza e autorità.

4. Ultimo ma non marginale impegno, si dovrebbe affrontare la questione della formazione di una pubblica amministrazione competente, motivata, autorevole, in assenza della quale nulla di serio e di durevole si potrà fare nel territorio. Non mancano spese da rivedere in altri settori, come quelli delle rendite immobiliari e finanziarie e della produzione di armi.

Noi e il mondo

Un’ultima considerazione. Nel contrastare o meno il consumo di suolo dobbiamo tener presente che le nostre scelte coinvolgono orizzonti più ampi.

La corsa all’urbanizzazione dei paesi del terzo mondo, promossa e incentivata dalle agenzie internazionali, avviene utilizzando i modelli offerti dalla civiltà dominante. Dobbiamo essere capaci non tanto di proporre modelli alternativi a quelli correnti, ma di fornire l’esempio di logiche e strategie rispettose dei patrimoni e delle identità locali. La legge della Toscana è un prezioso insegnamento a questo proposito. L’augurio e la speranza sono che la proposta divenga subito efficace, e che essa apra la strada a quel nuovo modello di sviluppo di cui il Presidente della Regione ha cosi calorosamente parlato.

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Il mito di Albert Camus


Oggi è il centenario della nascita di Albert Camus, un grande scrittore del Novecento.

Una delle mie letture fondamentali fu il suo Il mito di Sisifo (1942), che aveva in esergo un verso di Pindaro: “O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile.” (III Pitica)

Così finisce il piccolo saggio:

Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega agli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare né sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
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Viva Verdi!

Duecento anni fa, il 10 ottobre 1813 nasceva Giuseppe Verdi (1813-1901), il più celebre compositore italiano.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=r77fygvxxCM[/youtube]

Qualsiasi mia considerazione sulla sua arte sarebbe inadeguata, qualsiasi ricordo personale di esperienza musicale verdiana sarebbe riduttivo. Come gran parte del pubblico attuale, io sono un consumatore di musica e gusto il teatro d’opera di Verdi su dvd o su cd, magari in macchina, con adeguato sottofondo stradale. Fortunatamente mi capita da un po’ di cantare in coro qualche suo pezzo e coglierne così qualche finezza della scrittura musicale. Mi piacerebbe avere tutto il tempo per capirlo di più, ma ci vorrebbe un’altra vita, non meno lunga della sua.

Ma almeno voglio ricordarlo e ringraziarlo. Ha vissuto quasi tutto il XIX secolo e Verdi è più vivo che mai. Viva Verdi!

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Lampedusa

Oggi, per il momento, hanno allineato 90 cadaveri, ma ci sono altri 250 dispersi di un altro, l’ultimo, naufragio di disperati. Stiamo facendo di Lampedusa il luogo del peggior mito dei nostri tempi, il simbolo dell’inospitalità.

Non è certo un caso che l’unico uomo di potere a visitare l’isola di recente sia stato Papa Francesco, uno che capisce che il mondo non può continuare così. E non serve un grande profeta per capire che pagheremo anche per questo. Chi non capisce o finge di non vedere una propria grave malattia, psichica o etica che sia, può fare solo una brutta fine.

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Ue, ripartire dall’impossibile

    Riporto l’ultimo articolo di Luciano Gallino sui temi della politica economica e finanziaria europea e quindi italiana. Grassetto ed evidenze sono miei.
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Cambiamo i trattati Ue
di Luciano Gallino

Poco prima delle elezioni, una nota rivista tedesca di studi politici ha pubblicato un articolo intitolato “Quattro anni di Merkel, quattro anni di crisi europea”. L’autore, Andreas Fisahn, non si riferiva affatto al rinnovo ch’era ormai certo del mandato alla Cancelliera, bensì al precedente periodo 2010-2013, in cui l’austerità imposta da Berlino tramite Angela Merkel ha rovinato i paesi Ue. Ma la sua diagnosi ci porta a dire che la riconferma di quest’ultima assicura che senza mutamenti di rilievo nelle politiche dell’Unione il prossimo quadriennio potrebbe essere anche peggio.

Sui guasti pan-europei delle politiche di austerità come ricetta per risolvere la crisi, in nome della stabilità dei bilanci pubblici, non ci possono essere dubbi. I disoccupati nella Ue hanno superato i 25 milioni, di cui oltre 19 nella sola zona euro, e 4 in Italia. La compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori ha creato decine di milioni di lavoratori poveri, a cominciare dalla Germania dove i salari reali, caso unico in Europa, sono oggi inferiori a quelli del 2000. Quasi ovunque sono stati brutalmente tagliati i trattamenti pensionistici – da noi ne sanno qualcosa gli esodati, ma non soltanto loro – insieme con i fondi per l’istruzione, la sanità, i trasporti pubblici. Paesi quali la Grecia e il Portogallo sono stati letteralmente strangolati dalle prescrizioni della troika venuta dal Nord, senza che esse abbiano minimamente giovato ai loro bilanci. In tutta la Ue i comuni devono fronteggiare difficoltà di bilancio mai viste per continuare ad assicurare i servizi locali ai residenti.

Codesti risultati delle politiche di austerità, imposte alla fine dalla Germania, dovrebbero bastare per concludere che è necessario cambiare strada. Per contro i governi europei insistono sul sentiero battuto, a riprova del fatto che gli dèi fanno prima uscire di senno coloro che vogliono abbattere. La loro persistenza nell’errore ha preso sempre più forma di misure autoritarie, ideate e avallate da Berlino, Francoforte e Bruxelles. Hanno stanziato quattromila miliardi per salvare le banche, di cui oltre duemila impiegati soltanto nel 2008-2010, ma se i cittadini provano a dire che con 500 euro di pensione o 800 di cassa integrazione non si vive li mettono a tacere con cipiglio affermando che i tagli è l’Europa a chiederli. Come si legge in un altro articolo della stessa rivista citata sopra (firmato da H.-J. Urban), l’autoritarismo dei governi Ue trova un solido alimento nella retorica in tema di sorveglianza e disciplina finanziaria della Bce. La quale parla, nei suoi documenti ufficiali, di “processi di comando permanente”; “regole rigorose e vincolanti di disciplina politico-fiscale”; “credibilità ottenuta tramite sanzioni”; “sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici”, nonché di “robusti meccanismi di correzione” (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero scattare in modo automatico. Giusto quelli che nei giorni scorsi han messo in fibrillazione il nostro governo, perché forse il bilancio dello Stato ha superato il fatidico limite del 3 per cento sul Pil di un decimo di punto percentuale.

Allo scopo di contrastare sia le politiche dissennate che pretendono di curare la crisi ricorrendo alle stesse dottrine che l’hanno causata, sia il crescente autoritarismo con cui i governi Ue le impongono sotto la sferza costruita da Berlino ma brandita ogni giorno dalla troika di Bruxelles (che in realtà è un quartetto, poiché molte delle sue più aspre prescrizioni sono elaborate dal Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato e di governo dei paesi Ue), esiste una sola strada: la riforma dei trattati Ue, ovvero dei trattati di Maastricht, Lisbona ecc. oggi ricompresi nella versione consolidata che comprende le norme di funzionamento dell’Unione. I trattati particolari che ne sono discesi, fino all’ultimo dissennato “Patto fiscale”, che se fosse mai rispettato assicurerebbe all’Italia una o due generazioni di miseria, hanno come base il Trattato Ue, per cui da questo bisognerebbe partire.

Tra le revisioni principali da apportare al Trattato (alcune delle quali sono prospettate anche da Fisahn, l’autore citato all’inizio: ma articoli e libri che avanzano proposte a tale scopo, in quel tanto di pensiero critico che sopravvive in Europa, sono dozzine) la prima sarebbe di attribuire al Parlamento Europeo dei poteri reali, laddove oggi chi elabora i veri atti di governo è un organo del tutto irresponsabile, non eletto da nessuno, quale è la Commissione europea. Lo statuto della Bce dovrebbe includere la facoltà, sia pure a certe condizioni, di prestare denaro direttamente ai governi, rimuovendo l’assurdità per cui è l’unica banca centrale del mondo cui è vietato di farlo. Inoltre, esso dovrebbe porre accanto alla stabilità dei prezzi, quale finalità primaria delle sue azioni, un vincolo miope imposto a suo tempo dalla Germania che non ha ancora elaborato il lutto per l’inflazione del 1923, lo scopo di promuovere la piena occupazione. Dovrebbe altresì prevedere, la revisione del Trattato Ue, una graduale riforma radicale del sistema finanziario europeo volta a ridurre i suoi difetti strutturali, cioè l’eccesso di dimensioni, complessità, opacità (il sistema bancario ombra pesa nella Ue quanto il totale degli attivi delle banche), di facoltà di creare denaro dal nulla mediante il debito; laddove nella versione attuale il Trattato si preoccupa soprattutto di liberalizzare ogni aspetto del sistema stesso, con i risultati disastrosi che si sono visti dal 2008 in avanti: in special modo in Germania. A fronte di tale indispensabile riforma, gli interventi in atto o in gestazione, tipo il Servizio europeo di vigilanza bancaria o l’unione bancaria, sono palliativi da commedia di Molière. Infine l’intero trattato dovrebbe essere riveduto in modo da prevedere modalità concrete di partecipazione democratica dei cittadini a diversi livelli di decisione, dai comuni ai massimi organi di governo dell’Unione. Come diceva Hannah Arendt, senza tale partecipazione la democrazia non è niente.

So bene che a questo punto chi legge sta pensando che tutto ciò è impossibile. Stante la situazione politica attuale, nel nostro paese come in altri e specialmente in Germania, non ho dubbi al riguardo. Ma forse si potrebbe cominciare a discuterne. Ci sarebbe un politico italiano volonteroso e capace di avviare simile discussione? Anche perché l’alternativa è quella di continuare a discutere per altri venti o trent’anni, intanto che il paese crolla, di come fare a ridurre il deficit di un decimo dell’un per cento.

(la Repubblica, 27 settembre 2013)

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