Electrolux. Un gioco chiarissimo

Electrolux è una multinazionale di origine svedese, con headquarters a Stoccolma, dove è quotata in borsa. E’ una delle società leader del mercato degli elettrodomestici a livello mondiale, che persegue una strategia scritta con chiarezza sul suo sito, tra i più completi, aggiornati e aperti che si possano trovare sul web.

Il Gruppo Electrolux è presente con siti produttivi e commerciali in ogni angolo della terra, occupa – dati 2013 – 60.754 dipendenti e fattura circa 109 miliardi di corone svedesi (circa 12,4 miliardi di euro, oltre 200 mila euro/dip). Tutti i dati più importanti e sensibili sono reperibili sul sito, come tutte le policies.

La storia industriale dell’Electrolux, quasi centenaria, è esemplare dello sviluppo capitalistico ed è stata oggetto di studi e pubblicazioni.

Anche in Italia si possono leggere ricostruzioni, memorie ed analisi piuttosto recenti. Segnalo in particolare (vedi sotto) un libro di Giannino Padovan (ex sindacalista a Porcia) del 2005 e un secondo di Aldo Burello (grande manager), Alberto Felice De Toni (docente universitario) e Michela Parussini (ricercatrice) del 2010. Il primo è centrato sulla vicenda pordenonese, con interviste bellissime a tanti protagonisti, tra cui Mazza, Cuttica, Rossignolo e Burello stesso. Il secondo intreccia l’analisi storica del settore elettrodomestici, della società Electrolux e dell’incrocio con Zanussi e finisce con un’importante intervista all’allora ceo Hans Stråberg.

Meno lineare ma non meno leggibile è la sua storia societaria che andrebbe conosciuta almeno un po’ per capire la situazione attuale. Dal secondo dopoguerra è stata protagonista la famiglia Wallenberg, una delle più facoltose dinastie finanziarie ed industriali svedesi (ABB, Atlas Copco, Ericsson, Scania, SKF ed altri). Si stima che in Svezia le attività produttive legate alla famiglia Wallenberg pesino un terzo del PIL. Qui non c’è spazio per questa storia, ma è importante sottolineare come la vicenda industriale e quella finanziaria siano profondamente legate, inestricabili – come vedremo – anche oggi.

Bibliografia
Padovan G., Da Pordenone a Stoccolma. La storia e i protagonisti del Gruppo costruito da Lino Zanussi, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2005.
Burello A., De Toni A., Parussini M., Dalla Zanussi all’Electrolux. Un secolo di lezioni per il futuro, il Mulino, Bologna 2010.
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Italicum: tragedia o farsa?

Il 4 giugno 1923 nel Consiglio del ministri presieduto da Benito Mussolini fu approvato un disegno di legge che venne poi convertito in legge il 21 luglio 1923. Fu la cosiddetta Legge Acerbo con la quale si modificò la legge elettorale che aveva permesso l’elezione del Senato del Regno d’Italia nel 1919.

La legge Acerbo modificava l’assegnazione proporzionale assegnando al partito che avesse ottenuto il 25% dei voti ben i 2/3 dei seggi del Senato del Regno e manteneva le preferenze (!), ma su una lista unica nazionale. Alle successive elezioni del 6 aprile del 1924 il Pnf prese il 60,1% dei voti, ma tra la fine del 1925 e la fine del 1926 introdusse le più famose “leggi fascistissime” che completarono il nuovo assetto istituzionale della dittatura.

Non è il caso di tornare sul dibattito relativo a quel periodo storico, agli errori fatti dalle forze politiche e da singoli protagonisti. Qui m’interessa sottolineare che non si può mai dare ad uno o più criminali politici la chance di rovesciare le istituzioni.

Alle ultime politiche del febbraio 2013 in Italia votò per la Camera il 75,1%, vale a dire 35,3 su 46,9 milioni di elettori. Le coalizioni entrate in Parlamento hanno preso: il centro-sinistra il 29,5% (10,0 milioni), il centro-destra il 29,2% (9,9 milioni), il M5S il 25,6% (8,6 milioni), Mario Monti il 10,6% (3,6 milioni). Con la legge elettorale avanzata ora, che guarda caso si chiama “Italicum”, basta che un paio di milioni di votanti si spostino o tornino da dove arrivavano per dare la maggioranza assoluta al vecchio o al nuovo furbo.

Faccio notare che dopo le riforme previste, il nuovo parlamento, cioè la Camera unica, eleggerà quanto prima un nuovo Presidente della Repubblica e – forte di un gruppo parlamentare compatto perché ben scelto dall’alto – potrà portare in poco tempo molte modifiche legislative, anche alla Costituzione. Basterà infatti rifare la legge elettorale con il premio ai 2/3 anziché al 55% per evitare il ricorso ai referendum abrogativi.

Siamo nella fantapolitica? La storia non si ripete? Non è vero: “La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” [Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852]

Comunque, io non voglio assistere né all’una né all’altra.

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Vinca il migliore

Mentre il vecchio ed il nuovo furbo facevano l’accordo sulla legge elettorale, stavo rileggendo Machiavelli. Così scriveva cinquecento anni fa il Segretario fiorentino:

(…) gli uomini sono tanto ingenui, e tanto condizionati dalle necessità del momento, che chi inganna troverà sempre chi si lasci ingannare. Tra gli esempi recenti voglio ricordarne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che a tessere inganni, e trovò sempre materia per poterlo fare; e non ci fu mai nessuno che fosse più convincente di lui nel promettere, e che con reiterati giuramenti affermasse una cosa, per poi non rispettarla; ciononostante, gli inganni gli riuscirono sempre nel modo desiderato, perché conosceva bene questo aspetto del mondo.
Niccolò Machiavelli, Il Principe (1513) (qui citato nella versione in italiano moderno di Carmine Donzelli), Donzelli Editore, Roma 2013 (p. 217).
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Elezioni europee: insieme con Alexis Tsipras

Pubblico il Manifesto per le elezioni europee con Alexis Tsipras. Queste sono le adesioni all’appello (Micromega).

L’Europa al bivio
L’Europa è a un bivio, i suoi cittadini devono riprendersela. Dicono i cultori dell’immobilità che sono solo due le risposte al male che in questi anni di crisi ha frantumato il progetto d’unità nato a Ventotene nell’ultima guerra, ha spento le speranze dei suoi popoli, ha risvegliato i nazionalismi e l’equilibrio fra potenze che la Comunità doveva abbattere. La prima risposta è di chi si compiace: passo dopo passo, con aggiustamenti minimi, l’Unione sta guarendo grazie alle terapie di austerità. La seconda risposta è catastrofista: una comunità solidale si è rivelata impossibile, urge riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente sacrificata e uscire dall’Euro. Noi siamo convinti che ambedue le risposte siano conservatrici, e proponiamo un’alternativa di tipo rivoluzionario. È nostra convinzione che la crisi non sia solo economica e finanziaria, ma essenzialmente politica e sociale. L’Euro non resisterà, se non diventa la moneta di un governo democratico sovranazionale e di politiche non calate dall’alto, ma discusse a approvate dalle donne e dagli uomini europei. È nostra convinzione che l’Europa debba restare l’orizzonte, perché gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più. Solo attraverso l’Europa gli europei possono ridivenire padroni di sé.
Per questo facciamo nostre le proposte di Alexis Tsipras, leader del partito unitario greco Syriza, e nelle elezioni europee del 25 maggio lo indichiamo come nostro candidato alla presidenza della Commissione Europea. Il suo paese, la Grecia, è stato utilizzato come cavia durante la crisi ed è stato messo a terra: in quanto tale è nostro portabandiera. Tsipras ha detto che l’Europa, se vuol sopravvivere, deve cambiare fondamentalmente. Deve darsi i mezzi finanziari per un piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro con comuni piani di investimento e colmi il divario tra l’Europa che ce la fa e l’Europa che non ce la fa, offrendo sostegno a quest’ultima. Deve divenire unione politica, dunque darsi una nuova Costituzione: scritta non più dai governi ma dal suo Parlamento, dopo un’ampia consultazione di tutte le organizzazioni associative e di base presenti nei paesi europei.
Deve respingere il fiscal compact che oggi punisce il Sud Europa considerandolo peccatore e addestrandolo alla sudditanza, e che domani punirà, probabilmente, anche i paesi che si sentono più forti. Al centro di tutto, deve mettere il superamento della disuguaglianza, lo stato di diritto, la comune difesa di un patrimonio culturale e artistico che l’Italia ha malridotto e maltrattato per troppo tempo. La Banca centrale europea dovrà avere poteri simili a quelli esercitati dalla Banca d’Inghilterra o dalla FED, garantendo non solo prezzi stabili ma lo sviluppo del reddito e dell’occupazione, la salvaguardia dell’ambiente, della cultura, delle autonomie locali e dei servizi sociali, e divenendo prestatrice di ultima istanza in tempi di recessione. Non dimentichiamo che la Comunità nacque per debellare le dittature e la povertà. Le due cose andavano insieme allora, e di nuovo oggi.
Oggi abbiamo di fronte una grande questione ambientale di dimensioni planetarie, che può travolgere tutti i popoli, e un insieme di politiche tese a svalutare il lavoro, mentre una corretta politica ambientale può essere fonte di nuova occupazione, di redditi adeguati, di maggiore benessere e di riappropriazione dei beni comuni. È il motivo per cui contesteremo duramente il mito della crescita economica così come l’abbiamo fin qui conosciuta. Esigeremo investimenti su ricerca, energie rinnovabili, formazione, trasporti comuni, difesa del patrimonio culturale. Sappiamo che per una riconversione così vasta avremo bisogno di più, non di meno Europa.
Proprio come Tsipras dice riferendosi alla Grecia, in Italia tutto questo significa rimettere in questione due patti-capestro. Primo, il fiscal compact: il pareggio di bilancio che esso prescrive è entrato proditoriamente nella nostra costituzione, l’Europa non ce lo chiedeva, limitandosi a indicare sue «preferenze». Secondo, il patto di complicità che lega il nostro sistema politico cleptocratico alle domande dei mercati: chiediamo una politica di contrasto contro le mafie, il riciclaggio, l’evasione fiscale, la protezione e l’anonimato di capitali grigi, la corruzione, in un’Europa dove non sia più consentito opporre il segreto bancario alle indagini della magistratura. Significa infine difendere la Costituzione nata dalla Resistenza, e non violarne i principi base come suggerito dalla JP Morgan in un rapporto del 28 maggio 2013, cui i governanti italiani hanno assentito col loro silenzio. Significa metter fine ai morti nel Mediterraneo: i migranti non sono un peso ma il sale della crescita diversa che vogliamo. Significa darsi una politica estera, non più al rimorchio di un paese – gli Stati Uniti– che perde potenza ma non prepotenza. La pax americana produce guerre, caos, stati di sorveglianza. È ora di fondare una pax europea.
Le larghe intese, le rifiutiamo in Italia e in Europa: sono fatte per conservare l’esistente. Per questo diciamo no alla grande coalizione parlamentare che si prepara fra socialisti e democristiani europei, presentandoci alle elezioni di maggio con una piattaforma di sinistra alternativa e di rottura. Nostro scopo: un Parlamento costituente, che si divida fra immobilisti e innovatori. Siamo sicuri fin d’ora che gran parte dei cittadini voglia proprio questo: non l’Unione mal ricucita, non la fuga dall’Euro, ma un’altra Europa, rifatta alle radici. La chiediamo subito: il tempo è scaduto e la casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio nella sua tana minuscola e illusoria.
L’Italia al bivio
Questo è l’orizzonte. A partire da qui avanziamo la proposta di dare vita in Italia a una lista che alle prossime elezioni europee faccia valere i principi e i programmi delineati.
Una lista promossa da movimenti e personalità della società civile, autonoma dagli apparati partitici, che sia una risposta radicale alla debolezza italiana. Una lista composta in coerenza con il programma, che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio.
Una lista che sostiene Tsipras ma non fa parte del Partito della Sinistra Europea che lo ha espresso come candidato. I nostri eletti siederanno nell’europarlamento nel gruppo con Tsipras (GUE-Sinistra Unitaria europea). Una lista che potrà essere sostenuta, come nel referendum acqua, dal più grande insieme di realtà organizzate e che non si manterrà con i rimborsi elettorali.
Una lista che con Tsipras candidato mobiliti cittadine e cittadini verso un’Altra Europa.
Andrea Camilleri
Paolo Flores d’Arcais
Luciano Gallino
Marco Revelli
Barbara Spinelli
Guido Viale
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“Forse si tratta solo di cominciare…”

E’ scomparsa Carla Ravaioli, giornalista, intellettuale, sempre presente nelle trincee più avanzate (femminismo, pace, ecologia), qualcuna troppo avanzata, della sinistra. Riporto il suo ultimo scritto pubblicato, un vero lascito ereditario di questa grande e bellissima combattente.

La ragazza che vedeva lontano
di Carla Ravaioli
Que­sto è l’ultimo arti­colo («Una rivo­lu­zione senza pre­ce­denti. E’ qui la sini­stra») che Carla Rava­ioli scrisse per il mani­fe­sto il 15 otto­bre del 2011 in occa­sione di una straor­di­na­ria gior­nata di pro­te­sta in vari paesi. L’ultimo di una col­la­bo­ra­zione che negli anni l’aveva vista impe­gnata nella cri­tica al modello di svi­luppo delle società moderne.
Quanto è acca­duto sabato scorso in novan­ta­cin­que città del mondo (a pre­scin­dere dalle vicende ita­liane, sol­tanto ita­liane, che esi­gono un discorso spe­ci­fico ad esse esclu­si­va­mente dedi­cato) parla di qual­cosa come cin­quanta e più milioni di per­sone in mar­cia con­tro il capi­ta­li­smo. A negare cla­mo­ro­sa­mente la vul­gata che con insi­stenza da tempo parla di neo­li­be­ri­smo incon­tra­stato e vin­cente, dun­que di “fine delle sini­stre”. Ciò che peral­tro in effetti risponde non solo quan­ti­ta­ti­va­mente alla debo­lezza delle sini­stre, ma alla totale man­canza di una poli­tica che possa in qual­che misura distin­guerle dalle logi­che domi­nanti; pre­scin­dendo ovvia­mente dall’impegno soste­nuto soprat­tutto dai sin­da­cati a favore dei lavo­ra­tori, nello spe­ci­fico di situa­zioni di volta in volta in que­stione (sala­rio, orari, man­sioni, “difesa del posto di lavoro”); una lotta indub­bia­mente utile, anzi indi­spen­sa­bile, che però non rimette in alcun modo in causa l’organizzazione pro­dut­tiva nelle sue logi­che e nelle sue rica­dute, né in alcun modo garan­ti­sce un’occupazione sem­pre più a rischio.
Di fatto “ripresa”, “uscita dalla crisi”, “rilan­cio della pro­du­zione”, sono gli obiet­tivi che — non diver­sa­mente dall’intero mondo poli­tico — le sini­stre auspi­cano e per­se­guono, nel segno dell’accumulazione capi­ta­li­stica. Di recente addi­rit­tura è stato recu­pe­rato il vec­chio slo­gan “Creare posti di lavoro”: insen­sato invito alla pro­mo­zione di atti­vità desti­nate solo a occu­pare vite altri­menti rite­nute inu­tili; di fatto capo­vol­gi­mento del lavoro nella sua fun­zione di rispo­sta a biso­gni dati.
L’origine di tutto ciò risale d’altronde a fatti lon­tani, da potersi sostan­zial­mente situare nel tren­ten­nio della grande ripresa post­bel­lica, quando l’organizzazione pro­dut­tiva che andava via via impo­nendo al mondo i modi e le logi­che dell’ accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica, e model­lan­dolo di con­se­guenza, per più versi però parve ogget­ti­va­mente miglio­rare le con­di­zioni delle classi lavo­ra­trici; e fu allora che le sini­stre (pur senza mai negare quell’anticapitalismo nel cui nome erano nate) in qual­che misura anda­rono rimo­del­lando le pro­prie poli­ti­che, pun­tando (sovente d’altronde con apprez­za­bili risul­tati) sulle riforme piut­to­sto che sulla “rivo­lu­zione”. La quale da allora, spe­cie dopo la fine dell’Urss, di fatto venne “messa in sonno”.
Ma il “pec­cato” più grave delle sini­stre è l’aver di fatto “rega­lato” il pro­gresso scien­ti­fico e tec­no­lo­gico al capi­ta­li­smo. Di fronte alla più grande rivo­lu­zione com­piuta dal pen­siero umano, che avrebbe potuto con­sen­tire quella “libe­ra­zione del lavoro e dal lavoro” auspi­cata da tutti i grandi uto­pi­sti, com­preso Marx, le sini­stre non hanno saputo che difen­dersi dal rischio della disoc­cu­pa­zione tec­no­lo­gica, d’altronde con risul­tati non pro­prio entu­sia­smanti. Di fatto ope­rando secondo la forma dell’ accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica, accet­tan­done logica e con­se­guenze, e solo di volta in volta, nello spe­ci­fico delle sin­gole situa­zioni, com­bat­tendo spesso valo­ro­sa­mente in difesa dei lavoratori.
Oggi, “ripresa”, “rilan­cio”, “cre­scita”, pro­prio come nei palazzi del potere, sono le parole d’ordine delle sini­stre. Incu­ranti (o così par­rebbe) della qua­lità del mondo che a que­sto modo si tro­vano a soste­nere: un mondo in cui l’1% della popo­la­zione detiene il 50% della ric­chezza, 1/6 dell’umanità è sot­toa­li­men­tato men­tre in com­plesso si distrugge circa il 40% del cibo pro­dotto, un diri­gente d’azienda gua­da­gna fino a 640 volte il sala­rio di un ope­raio, la pro­du­zione di armi rap­pre­senta il 3,7% del Pil (cifra uffi­ciale secondo gli esperti assai infe­riore alla verità).
Un mondo che con­ti­nua a con­si­de­rare la crisi eco­lo­gica pla­ne­ta­ria come una sorta di varia­bile mar­gi­nale, cui dedi­care momenti di escla­ma­tiva atten­zione quando si veri­fi­cano le cata­strofi più gravi, la grande indu­stria (petro­li­fera, nucleare, che altro) viene pesan­te­mente col­pita, i muta­menti cli­ma­tici distrug­gono rac­colti agri­coli di intere sta­gioni, ecc. Senza mai pre­stare ade­guata atten­zione alle voci della comu­nità scien­ti­fica mon­diale. La quale parla di sem­pre più pros­sima e forse irre­cu­pe­ra­bile rot­tura di equi­li­bri mil­le­nari, e con­ti­nua a ricor­dare i “limiti” del pia­neta Terra: che è “una quan­tità” data, non dila­ta­bile a richie­sta, e per­tanto inca­pace sia di ali­men­tare una pro­du­zione in con­ti­nua cre­scita, sia di neu­tra­liz­zare i rifiuti, liquidi solidi gas­sosi, che ne deri­vano, e squi­li­brano l’ecosistema. Men­tre imper­ter­rito risuona il richiamo alla “cre­scita”, invo­cata come una sorta di dovere sociale, cui le sini­stre si associano.
Ma dove sono le sini­stre? Que­sta è l’obiezione di regola sol­le­vata appena si accenna a posi­zioni e ini­zia­tive che, nella situa­zione data, alla sini­stra appunto par­reb­bero appar­te­nere. E tut­ta­via, i milioni di gio­vani e meno gio­vani che sabato scorso hanno mani­fe­stato in nove­cen­to­cin­quanta città del mondo, che altro sono se non sini­stre? E i popoli della “pri­ma­vera afri­cana”? E i tan­tis­simi che si bat­tono per la pace, per i “beni comuni”, con­tro il nucleare, con­tro opere monu­men­tali quanto inu­tili, che insomma, nei modi più diversi e per i più diversi obiet­tivi imme­diati, met­tono in discus­sione le regole por­tanti del capi­tale? E le donne che, anch’esse, in folle sem­pre più vistose, mani­fe­stano il loro “sen­tire altro” dalla vul­gata del sistema impe­rante, e che per­fino nei paesi di più dura miso­gi­nia sem­pre più di fre­quente tra­sgre­di­scono la regola che le offende?
Certo, non può stu­pire che le sini­stre orga­niz­zate — quel poco che ne rimane — fug­gano di fronte a una “rivo­lu­zione” come que­sta, che per qua­lità e quan­tità non ha pre­ce­denti. E d’altronde, è pen­sa­bile che la situa­zione possa pro­trarsi così, inde­fi­ni­ta­mente? Dopo­tutto teste pen­santi, con­vinte della insop­por­ta­bi­lità sociale, cul­tu­rale e fisica, della situa­zione attuale, a sini­stra non man­cano. E non man­cano intel­li­genze capaci di una let­tura ade­guata della “glo­ba­liz­za­zione”: un pro­cesso mon­diale ormai inte­ra­mente com­piuto nella sua dimen­sione economico-finanziaria (ivi incluse deva­stanti con­se­guenze eco­lo­gi­che); sem­pre più lar­ga­mente impo­stosi dal punto di vista cul­tu­rale (con la pub­bli­cità a gio­care in ciò un ruolo deci­sivo quanto stra­vol­gente); ma di fatto tut­tora ine­si­stente sul piano poli­tico (essendo la poli­tica di fatto iden­ti­fi­cata con l’economia, e da essa sostituita).
Teste non solo pen­santi, ma volon­te­rose di “pen­sare con­tro”, e di avven­tu­rarsi sui rischiosi sen­tieri di una rivo­lu­zione che non ha pre­ce­denti né modelli… io sono certa che non man­chino. Forse si tratta solo di cominciare…
(il manifesto, 17 gennaio 2014)
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Il renzismo, fase suprema del (…)

Riporto integralmente – e senza evidenziazioni – un articolo di Alberto Asor Rosa che forse (forse) aprirà un piccolo dibattito tra le truppe disperse di quella che una volta si chiamava sinistra.

Nel titolo qui sopra manca un termine, non sapevo decidermi tra “post-comunismo”, “post-democrazia”, “berlusconismo”. Fate voi. Che questa (il renzismo) sia una fase è certo, suprema non lo so, di cosa vedremo nel tempo.

La rivoluzione moderata e la nascita del nuovo politico
di Alberto Asor Rosa

Prima di entrare nel merito della deli­cata mate­ria poli­tica, cui que­sto arti­colo intende fare rife­ri­mento, devo con­fes­sare una mia per­so­nale dif­fi­coltà, o sto­rico disa­gio, che potrebbe ren­dere quanto segue alta­mente opi­na­bile. E cioè: quando il dis­senso poli­tico diventa abis­sale, si tra­sforma in una dif­fe­renza antro­po­lo­gica, che lo fonda e giu­sti­fica. Per quanto mi riguarda è così che io guardo Mat­teo Renzi, il nuovo e bril­lante lea­der della sini­stra ita­liana. E’ come se lui ed io appar­te­nes­simo a mondi diversi, inco­mu­ni­ca­bili. Per­ciò dicevo della mia dif­fi­coltà di costruirci un discorso ragio­ne­vole sopra. Sarebbe come se al mar­ziano di Fla­iano si fosse chie­sto di for­mu­lare un ocu­lato giu­di­zio poli­tico sui fre­quen­ta­tori dei caffè di Via Veneto, o anche vice­versa (ai tempi suoi, s’intende: adesso anche lì è tutt’altra cosa).
Tutto ciò — lo dico senza iro­nia e senza nes­suna auto­con­di­scen­denza affa­bu­la­to­ria — pende gra­ve­mente a mio sfa­vore. Lui è il nuovo che avanza, con tutta la forza dirom­pente della sua totale (anche ana­gra­fica) igno­ranza del pas­sato. Io sono il pas­sato che guarda con sbi­got­ti­mento al pre­sente, con la pre­tesa, oggi total­mente, anzi comi­ca­mente vana, che la cono­scenza del pas­sato, e il tenerne conto, come si faceva una volta, pos­sano por­tare ancora qual­che pic­colo ele­mento di pre­vi­sione, e di azione, per il pre­sente. Ma allora, se della poli­tica abbiamo due nozioni e cre­denze net­ta­mente oppo­ste, per­ché pre­su­mere di giu­di­care una delle due poli­ti­che dalla spe­cola di osser­va­zione di una con­ce­zione della poli­tica che le è esat­ta­mente oppo­sta? Sap­pia per­ciò il let­tore — lo dico per one­stà intel­let­tuale — che que­sto arti­colo sarà mar­cato nega­ti­va­mente da que­sta forte pregiudiziale .
Ridurrò il resto ad alcune con­si­de­ra­zioni basi­lari, anzi, a que­sta sparsa “let­tura del testo”, che illu­mini (forse) il punto in cui siamo.
1. L’ho già detto in altre occa­sioni, ma in esor­dio voglio tor­nare e ricor­darlo. Renzi, e il ren­zi­smo, il quale già gli è nato e anzi pro­spera vigo­ro­sa­mente accanto, rap­pre­senta l’approdo finale della lunga para­bola ini­ziata ven­ti­cin­que anni fa con la Bolo­gnina di Achille Occhetto. Qual è l’essenza di que­sta para­bola? L’essenza di que­sta para­bola è la can­cel­la­zione, oggi ormai totale e irre­ver­si­bile, della tanto vitu­pe­rata “diver­sità comu­ni­sta” (cioè della pre­tesa, abo­mi­ne­vole agli occhi di molti, di fare poli­tica in modo diverso per obiet­tivi diversi).
Que­sta can­cel­la­zione incide tanto più pesan­te­mente sul pano­rama poli­tico ita­liano in quanto non ha dato luogo, come si poteva pen­sare e spe­rare, alla nascita di un’opzione socia­li­sta. Il crollo del vec­chio socia­li­smo, in ragione fon­da­men­tale (ma non solo) della cam­pa­gna giu­di­zia­ria di Mani pulite, e il rifiuto, da stu­diare ancora fino in fondo, della diri­genza post-comunista di suben­trar­gli in quel ruolo, hanno pro­dotto que­sto uni­cum nella sto­ria euro­pea degli ultimi due secoli: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui non esi­ste un par­tito socia­li­sta.
Il con­ti­nuo decalage auto­de­fi­ni­to­rio — Pci, Pds, Ds, Pd… — e cioè in buona sostanza l’incertezza pro­fonda su cosa si è e soprat­tutto su cosa si vuole essere o diven­tare, ha pro­dotto la per­dita di qual­siasi iden­tità cul­tu­rale e ideale. Il ren­zi­smo replica: che biso­gno ce n’è? La poli­tica ne pre­scinde. Intanto andiamo avanti a tutta birra. Poi, even­tual­mente, si vedrà.
2. Come già accen­navo, la chiave di tutta que­sta sto­ria sta nell’incredibile serie di errori com­messi dalla vec­chia diri­genza post comu­ni­sta (che non abbiamo né spa­zio né voglia di appro­fon­dire in que­sta sede, ma diamo ormai per sto­ri­ca­mente appu­rati). L’ultimo sopras­salto iden­ti­ta­rio si veri­fica quando Ber­sani scon­figge net­ta­mente Renzi alle pri­ma­rie del 2012. Il genio del ren­zi­smo con­si­ste nell’avere colto il momento in cui lo sfi­ni­mento del vec­chio gruppo diri­gente lascia aperte le porte al più dra­stico dei rove­scia­menti. Tale rove­scia­mento con­si­ste essen­zial­mente di tre aspetti:
a) Renzi sosti­tui­sce la forza ple­bi­sci­ta­ria del con­senso alla gerar­chia orga­niz­zata e sca­lare (e tal­volta un po’ omer­tosa) del Par­tito. Cioè, in sostanza, nega l’utilità e l’opportunità in re del Par­tito, il quale resta come un puro guscio, la ban­diera da sven­to­lare (ma nean­che troppo, spesso quasi per niente) nelle occa­sioni uffi­ciali. Cioè: cam­bia la nozione stessa di demo­cra­zia, che que­sto paese bene o male ha pra­ti­cato dal ’45 a oggi (tute­lata, se non erro, da certi aspetti non irri­le­vanti della nostra Costituzione);
b) Insieme con l’utilità e l’opportunità del pro­prio Par­tito (e, più in gene­rale, della forma par­tito in quanto tale), nega l’utilità e l’opportunità della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare. Infatti, tra­di­zio­nal­mente, fra il corpo degli eletti, i quali, almeno teo­ri­ca­mente, dovreb­bero rap­pre­sen­tare l’autentica volontà popo­lare, e la dire­zione del Par­tito cor­ri­spon­dente c’è sem­pre stata (almeno dopo la chiu­sura, per il Pci, della fase sta­li­niana) una dia­let­tica di con­fronto e di scam­bio. Oggi la rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare viene trat­tata alla stre­gua di una sem­plice ese­cu­trice dei dik­tat pro­ve­nienti dalla dire­zione renziana;
c) La poli­tica si dispiega, per il verbo ren­ziano, come la serie di atti che ser­vono a rag­giun­gere il più rapi­da­mente ed effi­ca­ce­mente pos­si­bile quel deter­mi­nato risul­tato. La dire­zione di mar­cia dell’intero pro­cesso, e i suoi riflessi sulla situa­zione sociale, cul­tu­rale ed etico-politica del paese, restano nell’ombra. Pro­ba­bil­mente ci sono, ma meno si vedono e meglio è (o forse, se si vedes­sero, sarebbe molto peg­gio). Come si dice a Roma “famo a fidasse”.
3. Se le osser­va­zioni pre­ce­denti sono mini­ma­mente fon­date, salta all’occhio che le carat­te­ri­sti­che “nuove” del ren­zi­smo (cioè la velo­cis­sima rivo­lu­zione acca­duta negli ultimi due anni nel campo della sini­stra mode­rata) sono enor­me­mente simili a quelle già veri­fi­ca­tesi nel corso degli anni pre­ce­denti nel centro-destra e nella realtà poli­tica del dis­senso e dell’opposizione popo­lari.
Per vin­cere Sil­vio Ber­lu­sconi e Beppe Grillo — cosa che non era sta­bil­mente acca­duta mai alla vec­chia diri­genza post-comunista e post-democristiana — occor­reva seguirli sul loro stesso ter­reno. Que­sto mi pare dav­vero incon­fu­ta­bile: lea­de­ri­smo asso­luto, popu­li­smo ple­bi­sci­ta­rio, discreto disprezzo dei mec­ca­ni­smi isti­tu­zio­nali e costi­tu­zio­nali, rifiuto del sistema-partito e del sistema-partiti, rot­tura degli schemi della vec­chia, logora e con­sunta imma­gine del poli­tico ancien régime, sono i punti di forza del “nuovo poli­tico” al di là e al di qua dei tra­di­zio­nali, anch’essi ter­ri­bil­mente obso­leti, limiti politico-ideali, destra, sini­stra, e quant’altro ci viene dal pas­sato. Il “nuovo poli­tico” non ha avver­sari: ha solo con­cor­renti, da bat­tere più o meno sul loro stesso ter­reno. Fra loro potreb­bero per­sino inten­dersi: e non è detto che almeno su certi ter­reni, per esem­pio la nuova legge elet­to­rale, que­sto non accada.
4. Il dato forse più signi­fi­ca­tivo di tale pro­cesso è che esso ha acqui­sito rapi­da­mente un vasto con­senso popo­lare. Il “popolo” (insomma, più esat­ta­mente, un quo­ziente piut­to­sto vasto dell’elettorato del Pd, con rami­fi­ca­zioni signi­fi­ca­tive negli altri elet­to­rati) segue Renzi su que­sta strada. Da più parti si sente ripe­tere: «Con Renzi si vince». Importa meno sapere “cosa si vince”, pur­ché sia rag­giunta una ragio­ne­vole sicu­rezza che “con Renzi si vince”. Dun­que, lea­de­ri­smo, popu­li­smo ple­bi­sci­ta­rio, liqui­da­zione dei par­titi, un discreto disprezzo per il gioco par­la­men­tare e per le isti­tu­zioni che lo garan­ti­scono, hanno fatto brec­cia in pro­fon­dità. Media — organi di stampa, tele­vi­sioni, opi­nion makers — si alli­neano sem­pre più entu­sia­sti­ca­mente. Uomini ine­qui­vo­ca­bil­mente di sini­stra (Ven­dola, Lan­dini) sem­brano guar­dare con sim­pa­tia alle pos­si­bi­lità di mano­vra, che il “nuo­vi­smo” ren­ziano con­sente loro (per forza, meglio che star fermi, oppure restare per sem­pre marginali!).
5. Dun­que, c’è stato, come sem­pre accade in que­sti casi, un pro­cesso di reci­proco rico­no­sci­mento tra il lea­der nascente e le masse mutanti (ne hanno discorso recen­te­mente Euge­nio Scal­fari ed Erne­sto Galli della Log­gia rispet­ti­va­mente su la Repub­blica e il Cor­riere della Sera: tor­nerò pros­si­ma­mente su tale argo­mento). Si potrebbe ragio­nare a lungo su tali pro­cessi. Quel che conta è però che siano avve­nuti. Con­sta­tarlo non signi­fica però sapere come con­trap­por­visi. Anzi: è dif­fi­cile inter­porsi soprat­tutto nel momento stesso in cui, come accade ora, tale con­giun­gi­mento avviene. E tut­ta­via, il momento in cui il con­giun­gi­mento avviene è però anche quello in cui una pos­si­bile inter­po­si­zione va ela­bo­rata e pre­sen­tata; altri­menti la par­tita è chiusa come minimo per un decen­nio. Ma qui con­ciano i dolenti lai. Non si tratta infatti di con­trap­porre sol­tanto un’ipotesi poli­tica a un’altra, per ora pre­va­lente. Si tratta, per rie­su­mare una vec­chia, dete­sta­tis­sima ter­mi­no­lo­gia, di ricreare una cul­tura poli­tica della sini­stra, anco­rata alla tra­di­zione (tutto quel che c’è di buono al mondo ha un pas­sato e una sto­ria) e al tempo stesso moderna, moder­nis­sima, più dell’altra che, tutto som­mato, non vede molto più al di là della punta del pro­prio naso. Ossia. comin­ciare a dire ragio­ne­vol­mente quel che si vuole e prima di dire come lo si vuole. Resta dun­que qual­cosa del pas­sato: diversi. Ma nuovi: non più comu­ni­sti. Que­sta è la scom­messa. Resta tutto som­mato cre­di­bile dal fatto che in Ita­lia di così ce ne sono tanti, li cono­sco e ci lavoro insieme. Dif­fi­cile è sten­dere la rete fra le loro non sem­pre facil­mente assi­mi­la­bili diver­sità. ma se si deve fare, si farà. In tempi di duris­sima care­stia è esat­ta­mente quello che biso­gna tor­nare a fare.
6. Prima di chiu­dere vor­rei esi­birmi nell’ultima far­ne­ti­ca­zione poli­tica, anzi poli­ti­ci­stica. Se le cose stanno come il pas­sa­ti­sta dice, biso­gne­rebbe evi­tare a ogni costo che il governo Letta cada e si vada, come gli homi­nes novi più o meno con­cor­de­mente auspi­cano, al voto.
Per tre motivi (almeno): a) biso­gna evi­tare che la destra si ricom­patti; b) biso­gna ela­bo­rare una buona legge elet­to­rale che senza equi­voci assi­curi in que­sto paese l’alternanza: il dop­pio turno e le pre­fe­renze (pos­si­bil­mente più di una), sono l’unico sistema in grado di farlo, e per otte­nerlo ci vorrà più tempo di quanto si pensi; c) abbiamo biso­gno di tempo per ela­bo­rare, pro­porre e imporre una nuova cul­tura poli­tica, della sini­stra, con le con­se­guenze che un tale pro­cesso potrebbe avere sull’intero assetto poli­tico e civile del paese.
Sono argo­men­ta­zioni para­dos­sali per uno che invita a resu­sci­tare la vecchio-nuova sini­stra? Sì, è vero. Ma il para­dosso è la nostra attuale con­di­zione di vita — per­sino della vita pub­blica e civile (tal­volta per­so­nale), oltre che poli­tica. Fare a meno del para­dosso oggi non si può. Per­ciò è neces­sa­rio astu­ta­mente governarlo.
(il manifesto, 16 gennaio 2014)
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Agenda 2014 (tranquilli, nulla cambia)

Ricominciamo dunque da dove ci eravamo lasciati. Propongo infatti l’ennesima lettura di Luciano Gallino, una sua intervista a il manifesto del 31 dicembre 2013. I temi del 2014 sono – più o meno – tutti qui.

Contro la mistica dell’austerità
di Roberto Ciccarelli
Pro­fes­sor Gal­lino, la crisi è finita?
Per nulla. La Cina è un caso a parte, men­tre la situa­zione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge. L’attuale pre­si­dente della Fed, Ben Ber­nanke, ha detto che ormai il tasso di disoc­cu­pa­zione è un para­me­tro poco rap­pre­sen­ta­tivo. Infatti la disoc­cu­pa­zione effet­tiva, che com­prende sia gli «sco­rag­giati» o i part-time che vor­reb­bero lavo­rare a tempo pieno, è molto più ele­vata di quanto sem­bri. Gli Stati Uniti hanno potuto per­met­tersi di pom­pare migliaia di miliardi di dol­lari nell’economia, ma i risul­tati sono stati abba­stanza mode­sti. Il piano di ridu­zione degli sti­moli mone­tari (tape­ring, ndr.) è risul­tato meno effi­cace sull’occupazione di quanto si creda. A set­tem­bre c’è stato un calo dal 7,3% al 7,2%, ma c’è stato anche un calo dei posti di lavoro rispetto a quelli pre­vi­sti (148 mila con­tro 188 mila). Sul mer­cato del lavoro sono entrate quindi meno per­sone di quelle sti­mate. Que­sto signi­fica che il tasso di disoc­cu­pa­zione è più alto. Oltre 100 milioni di per­sone vivono in con­di­zioni di povertà, per pro­teg­gerle non basta nem­meno il sala­rio minimo che Obama intende aumen­tare a 10 dol­lari all’ora. Il sala­rio è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno red­dito per le fami­glie che hanno dovuto met­tere al lavoro tutti, nonni e figli compresi.
L’ex segre­ta­rio Usa al Tesoro Law­rence Sum­mers parla di «sta­gna­zione seco­lare». Tutto fa pen­sare che riguardi anche l’Eurozona.
Per un vec­chio neo­li­be­rale come Sum­mers è strano sen­tirlo rispol­ve­rare un con­cetto che ha più di 70 anni. Lui dice che senza sti­moli forti dall’esterno, una fru­strata, il sistema capi­ta­li­stico è ten­den­zial­mente pro­penso alla sta­gna­zione alla quale oggi con­tri­bui­scono molti fat­tori, dalla glo­ba­liz­za­zione alla crea­zione di nuove tec­no­lo­gie e alle delo­ca­liz­za­zioni. Ciò ha por­tato al para­dosso per cui gli Usa con­tri­bui­scono alla cre­scita della Cina ma non alla pro­pria. La sta­gna­zione carat­te­rizza anche l’Europa e allarga le dise­gua­glianze in tutti i suoi paesi. Non si dice mai che in Ger­ma­nia esi­ste una parte della popo­la­zione che ha inflitto costi umani e sociali ele­vati alla mag­gio­ranza e ne prende grandi van­taggi. In que­sto mec­ca­ni­smo ha influito nega­ti­va­mente sui bilanci degli altri paesi il suo eccesso di espor­ta­zioni. Siamo nel pieno di una sta­gna­zione che durerà molti anni per­chè non si vede bene cosa fare per uscirne.
    Ritiene che l’uscita dalla crisi possa avve­nire con il rilan­cio della pro­du­zione e dei con­sumi di massa iden­tici a quelli del «tren­ten­nio glo­rioso», tra il 1945 e 1973?
    Lo pen­sano i gover­nanti e alcuni eco­no­mi­sti che hanno sem­pre in mente il modello che ha pro­vo­cato la crisi: pro­durre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumen­tando la pre­ca­rietà. Non credo a que­sta pro­spet­tiva. E se mai que­sto avve­nisse sarebbe un vero disa­stro, per­chè la crisi non è solo finan­zia­ria o pro­dut­tiva, è anche evi­den­te­mente una crisi eco­lo­gica che pro­duce la deser­ti­fi­ca­zione del pia­neta, distrugge risorse che hanno impie­gato migliaia di anni per accu­mu­larsi. Rischiamo inol­tre di essere sep­pel­liti dai rifiuti, uno dei pro­blemi pro­vo­cati dall’esplosione nel 2007 del modello pro­dut­tivo, come dimo­stra la Cam­pa­nia, che è un caso esem­plare di quanto sta accadendo.

L’Ocse avverte che la cre­scita tor­nerà, ma non pro­durrà nuova occu­pa­zione sta­bile. Senza con­si­de­rare che i milioni di posti fissi bru­ciati nella crisi sono irre­cu­pe­ra­bili. Visto che la crea­zione di occu­pa­zione è la pre­messa per ogni tipo di cre­scita, come la si può finan­ziare oggi in Ita­lia e in Europa?
Biso­gna ridi­scu­tere i trat­tati euro­pei e modi­fi­care lo sta­tuto della Banca Cen­trale Euro­pea, innan­zi­tutto. Non si tiene conto abba­stanza di quanto la legi­sla­zione dei nostri paesi sia for­te­mente con­di­zio­nata da que­sti trat­tati. In Ita­lia esi­stono 300 mila leggi e il cal­colo è dif­fi­cile. In Fran­cia o in Ger­ma­nia, dove ce ne sono 9 o 10 mila, si pensa che l’80 per cento di quelle in vigore siano ispi­rate dai trat­tati o dalle diret­tive. Se non si passa di lì, penso che sia molto dif­fi­cile fare poli­ti­che eco­no­mi­che che non siano quelle scon­si­de­rate fatte negli ultimi tre anni. I governi con­ti­nue­ranno a bat­tere i tac­chi e a fir­mare qual­siasi cosa che Bru­xel­les, la Bce o l’Fmi gli propongono.
Nono­stante tutto il pre­si­dente della Bce Mario Dra­ghi sol­le­cita i governi a con­ti­nuare le «riforme» anche nel 2014…
Così facendo non si farà molta strada per affron­tare seria­mente la crisi. Trovo scan­da­loso che il Trat­tato isti­tu­tivo dell’Unione Euro­pea e lo sta­tuto della Bce igno­rino quasi del tutto il pro­blema della nostra epoca: la crea­zione di occu­pa­zione. L’articolo 123 del Trat­tato Ue vieta alla Bce di con­ce­dere sco­perti di conto o qual­siasi forma di faci­li­ta­zione cre­di­ti­zia alle ammi­ni­stra­zioni sta­tali. È un divieto unico tra le ban­che cen­trali esi­stenti sul pia­neta, un’altra assur­dità del Trat­tato. È dif­fi­cile modi­fi­carlo a causa della con­tra­rietà dei tede­schi che attac­cano Dra­ghi. È curioso però notare che que­sto stesso arti­colo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mer­cato secon­da­rio. Cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acqui­stò 218 miliardi di titoli di stato, di cui 103 ita­liani. Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe pre­stare miliardi di euro in cam­bio dell’impegno di un piano indu­striale che pre­veda l’assunzione netta di nuova manodopera.
Che cosa ha fatto Dra­ghi per la crescita?
Ha pre­stato mille miliardi alle ban­che senza porre con­di­zioni. Si è reso ridi­colo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le ban­che. In realtà que­sti soldi sono stati usati per scambi ban­cari o per acqui­stare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in que­sto caso senza porre con­di­zioni. Senza risorse, le poli­ti­che con­tro la disoc­cu­pa­zione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli euro­pei, sono pan­ni­celli caldi rispetto ai 26 milioni di disoc­cu­pati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa.
    Molti eco­no­mi­sti, come la Banca Mon­diale, riten­gono che il Pil non sia più l’unico indi­ca­tore per misu­rare la cre­scita. E pro­pon­gono altri indi­ca­tori per misu­rare il tasso di svi­luppo umano. Come ren­derli vincolanti?
    Cam­biare para­digma pro­dut­tivo non implica solo cam­biare indi­ca­tori, com­porta una tra­sfor­ma­zione poli­tica. In que­sta fase man­cano le pre­messe poli­ti­che per rea­liz­zarla. I discorsi che i governi euro­pei fanno sull’economia, in Ita­lia come in Ger­ma­nia, sono di un’ottusità incom­pa­ra­bile. Vanno tutti in dire­zione con­tra­ria a quello che biso­gna fare, e di certo non ser­vono per rifor­mare la finanza, mutare il modello pro­dut­tivo e ope­rare una tran­si­zione di milioni di lavo­ra­tori verso nuovi set­tori ad alta inten­sità di lavoro. La crisi deve essere affron­tata in tutti gli aspetti e non solo su quello finan­zia­rio e pro­dut­tivo. Pur­troppo la discus­sione pub­blica è a zero.
La «green eco­nomy», o «cre­scita verde» come la defi­ni­sce l’Ocse, rap­pre­sen­tano un’alternativa a quello che lei defi­ni­sce il «tota­li­ta­ri­smo neoliberale»?
Il cam­bia­mento di para­digma pro­dut­tivo si misura anche a par­tire dalla neces­sità di rom­pere la subor­di­na­zione al cal­colo eco­no­mico di qual­siasi azione, quella che Michel Fou­cault defi­niva la «ratio» del neo­li­be­ra­li­smo. In que­sta chiave, que­ste idee potreb­bero aprire nuovi set­tori di inter­vento carat­te­riz­zati da un’alta inten­sità di lavoro. Que­sto non signi­fica creare pian­ta­gioni di cotone dove la mac­china fa il lavoro di cento brac­cianti. Biso­gna pen­sare a set­tori dove il lavoro umano è molto attrez­zato. La ricerca bio­a­li­men­tare, al di là dei fami­ge­rati Ogm, è sicu­ra­mente una di que­sti. C’è la ricerca medica, i beni cul­tu­rali. Invece di pro­durre beni di sosti­tu­zione di tipo tra­di­zio­nale, o gad­get come i cel­lu­lari, biso­gna pen­sare all’ambiente, alla scuola, ai ser­vizi pub­blici nel senso ampio del ter­mine, alla riqua­li­fi­ca­zione idro­geo­lo­gica dei nostri territori.
Il caso dell’Ilva dimo­stra la dif­fi­coltà di con­ci­liare l’esigenza dell’occupazione con un modello pro­dut­tivo com­pa­ti­bile con l’ambiente e la salute. Come gover­nare quella che si defi­ni­sce una transizione?
Il caso dell’Ilva è indi­ca­tivo di quello che non biso­gna fare. Ho stu­diato a lungo que­sti sta­bi­li­menti a Taranto. Quando furono costruiti rap­pre­sen­ta­rono un grande suc­cesso indu­striale, ma dove­vano essere ricon­ver­titi almeno vent’anni fa, quando la pro­du­zione side­rur­gica è radi­cal­mente cam­biata. Biso­gnava con­cor­dare con la pro­prietà una tran­si­zione, abbat­tere l’inquinamento, met­tere in grado la pro­du­zione di far fronte esi­genze indu­striali sem­pre più com­plesse. Lo hanno fatto in Ger­ma­nia, in Giap­pone e negli Stati Uniti, tranne che a Taranto. L’acciaio in sé non vuol dire nulla, ha mille carat­te­ri­sti­che diverse a seconda della desti­na­zione dei suoi pro­dotti. E ci vogliono sta­bi­li­menti più pic­coli. In que­sto modo è anche pos­si­bile aumen­tare l’occupazione.
Uscire dall’euro è una rispo­sta ade­guata per con­tra­stare le poli­ti­che di austerità?
Que­ste poli­ti­che sono un sui­ci­dio pro­gram­mato, ben venga qua­lun­que inter­vento per allie­viarne le con­se­guenze. L’euro è un pro­blema, ma non biso­gna farla troppo facile. È nato con gravi difetti e resta una moneta stra­niera. È una cosa da pazzi, non suc­cede in nes­sun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiu­te­rebbe molto, ma uscire dall’euro è un’idea insen­sata. Il Marco sarebbe riva­lu­tato del 40%, milioni di con­tratti tra enti pri­vati e pub­blici dovreb­bero essere ridi­scussi. Ci vor­reb­bero 20 anni per farlo, entre­remmo in una spi­rale dram­ma­tica. Credo che oggi ci siano altre urgenze in Ita­lia e in Europa.
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Capodanno

Da un po’ di tempo gira anche sul web un testo tra i più “popolari” di Antonio Gramsci che s’intitola “Capodanno”, scritto per le pagine delle cronache torinesi dell’Avanti! e pubblicato il 1° gennaio 1916, novantotto anni fa. Per lo più il testo è troncato, come vedremo, dell’ultimo periodo e quando è riportato integralmente è almeno mal digerito. Comunque, questo è il testo integrale.

Capodanno
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno piú nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
(Antonio Gramsci, Avanti!, anno XX, 1° gennaio 1916, cronache torinesi, nella rubrica “Sotto la Mole” – testo tratto da Cronache torinesi. 1913-1917, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1980)

Il testo meriterebbe una certa analisi, dalla concezione sottesa alla scrittura, lo stesso lessico (la film, luce abbarbagliante, gli accenti acuti su cosí e piú). Ma mi basta sottolineare che oggi si toglie solitamente l’ultimo periodo: “Aspetto il socialismo anche per questa ragione. (…)”.

Infatti, la questione di fondo posta da Gramsci è il cambiamento, il problema sta sempre lì. Ma quale cambiamento? Oggi tutti ne parlano e si cambia sempre, proprio tutti i giorni. Siamo tutti trottole che girano, si fermano, cadono, rigirano, si rifermano, etc.  e siamo anche consapevoli della presenza della cosiddetta “mano invisibile” che ci governa (ci fa girare). Ma non ci si aspetta più niente, né il vituperato socialismo né altro. Non su questa terra.

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Cosa ci può dare il 2014

(Segue da Cosa ci lascia il 2013)

Ho usato un’espressione molto semplice per definire il 2013. Ma dopo un anno simile cosa ci può dare l’anno seguente?

Vediamo solo alcuni tra i principali aspetti politici:
(1) Il vecchio mondo (Ue, Bce, Napolitano, Letta) ha fatto di tutto per peggiorare la situazione, facendo salire un’altra volta anche la destra sociale (quella economica non ha niente da lamentarsi);
(2) Un nuovo münchhausen (Grillo) aspetta il momento opportuno per tirarsi su usando sempre il proprio codino;
(3) Il nuovo che avanza (Renzi) ha idee standard – liberismo e leaderismo – e appoggi strepitosi, quindi vincerà tranquillamente e non cambierà nulla.

Dunque, cosa ci possiamo aspettare dal nuovo anno? Personalmente, nessun cambiamento importante. Non resta che uscire dagli schemi, o tornare all’antico. Per esempio il classico Friedrich Hölderlin (1770-1843) che scriveva: “Ma dove è il periodo, cresce/ Anche ciò che dà salvezza.” (“Wo aber Gefahr ist, wächst/ Das Rettende auch.” – in Almanacco delle muse per l’anno 1808).

Così, aspetto il periodo. Potrebbe essere la prossima primavera. Il 25 maggio si rinnoverà il Parlamento Europeo, lì potrebbe esserci un piccolo, ancora debole, segnale di cambiamento. Tutto nasce piccolo in natura e nella storia dell’uomo, poi può crescere. Io punto lì, su questo segnale debole e su questa crescita.

Certo non sono solo, anzi, la cosa è ormai più che matura. Cito da un fonte tanto poco estremista:

L’evidente e urgente necessità è quella che l’Europa abbandoni la sua politica legata alle disuguaglianze e alle avventure del capitalismo finanziario, dei pareggi di bilancio e delle politiche di austerità e che riprenda la strada della difesa dei diritti fondamentali, rovesciando la priorità da un Leviatano tecno-amministrativo per puntare su un’Unione europea democratica.
Si potrà così liberare dai populismi e dai tentativi autocratici che stanno emergendo nei vari Paesi e giungere a un’autentica sovranità democratica europea, non impostata sull’economia e sulla difesa della ricchezza del capitale finanziario a svantaggio dei diritti dei cittadini, come avrebbe voluto il giudice della Corte Suprema americana Louis Brandeis, che un secolo fa ricordava: «Si può avere la democrazia oppure un’enorme ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non si può avere le due cose insieme».

(Guido Rossi, “La scommessa vincente della democrazia contro la crisi“, Il Sole 24 Ore del 29-12-2013.)

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Cosa ci lascia il 2013

Il 2013 verrà probabilmente ricordato come l’anno delle prime dimissioni di un Papa (Benedetto XVI, il 11 febbraio) e della prima elezione di un Papa non europeo (il cardinale Jorge Mario Bergoglio, il 13 marzo).

In Italia anche per la vittoria del Movimento 5 Stelle alle elezioni del 24-25 febbraio e per la (prima) rielezione di un Presidente della Repubblica (Giorgio Napolitano, il 20 aprile). Meno per l’insediamento di Enrico Letta a capo di governo (28 aprile).

Certo, da noi sono successe anche disgrazie più immediate, come al porto di Genova (7 maggio), dove una nave cargo ha urtato la torre di controllo facendo 9 morti, e in Sardegna, in particolare ad Olbia (18 novembre), dove il ciclone Cleopatra e l’incuria del suolo hanno prodotto anche 16 morti.

I cicloni italiani sono ancora piccoli rispetto al tifone Haiyan che nelle Filippine (9 novembre) ha causato oltre 10.000 morti. Anche rispetto ai tornado americani: ben 81 hanno causato (17 novembre) la morte di (solo) 8 persone nell’Illinois.

Ma molti morti sono stati contati a Lampedusa, in almeno un paio di occasioni. Prima sono stati oltre 300 (3 ottobre), subito dopo (11 ottobre) altri 38, con almeno 50 dispersi. (Ormai questi a due cifre sono numeri piccoli. Come piccoli erano i viaggiatori le cui bare i fotografi stanno puntando nella foto.)

Nella politica internazionale c’è da segnalare il movimento di protesta in Turchia (10 giugno), il colpo di stato in Egitto (3 luglio) e il perdurare per tutto l’anno della guerra civile siriana.

E verso fine anno di nuovo nella politica interna, dopo tanti mesi di logoramento e trascinamento, degno del popolo più masochista, cinque nuovi ingredienti per un menù per niente chiaro:
(1°) la decadenza di Berlusconi da senatore (27 novembre) in seguito alla sentenza definitiva della Corte di Cassazione (1 agosto);
(2°) la spaccatura della destra berlusconiana con l’uscita di Alfano e altri 4 ministri nel “Nuovo Centro Destra” (15 novembre);
(3°) la dichiarazione d’incostituzionalità del “porcellum” da parte della Corte Costituzionale (4 dicembre);
(4°) le manifestazioni di movimenti di destra sedicenti “i forconi” (9 dicembre);
(5°) l’insediamento di Matteo Renzi (15 dicembre) a segretario del Pd, in seguito delle primarie di partito (8 dicembre).

Ma, oltre agli eventi e loro date, i cittadini italiani – non tutti, come sempre – ricorderanno il 2013 soprattutto e semplicemente come un anno di merda.

(Segue)

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