Agenda 2014 (tranquilli, nulla cambia)

Ricominciamo dunque da dove ci eravamo lasciati. Propongo infatti l’ennesima lettura di Luciano Gallino, una sua intervista a il manifesto del 31 dicembre 2013. I temi del 2014 sono – più o meno – tutti qui.

Contro la mistica dell’austerità
di Roberto Ciccarelli
Pro­fes­sor Gal­lino, la crisi è finita?
Per nulla. La Cina è un caso a parte, men­tre la situa­zione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge. L’attuale pre­si­dente della Fed, Ben Ber­nanke, ha detto che ormai il tasso di disoc­cu­pa­zione è un para­me­tro poco rap­pre­sen­ta­tivo. Infatti la disoc­cu­pa­zione effet­tiva, che com­prende sia gli «sco­rag­giati» o i part-time che vor­reb­bero lavo­rare a tempo pieno, è molto più ele­vata di quanto sem­bri. Gli Stati Uniti hanno potuto per­met­tersi di pom­pare migliaia di miliardi di dol­lari nell’economia, ma i risul­tati sono stati abba­stanza mode­sti. Il piano di ridu­zione degli sti­moli mone­tari (tape­ring, ndr.) è risul­tato meno effi­cace sull’occupazione di quanto si creda. A set­tem­bre c’è stato un calo dal 7,3% al 7,2%, ma c’è stato anche un calo dei posti di lavoro rispetto a quelli pre­vi­sti (148 mila con­tro 188 mila). Sul mer­cato del lavoro sono entrate quindi meno per­sone di quelle sti­mate. Que­sto signi­fica che il tasso di disoc­cu­pa­zione è più alto. Oltre 100 milioni di per­sone vivono in con­di­zioni di povertà, per pro­teg­gerle non basta nem­meno il sala­rio minimo che Obama intende aumen­tare a 10 dol­lari all’ora. Il sala­rio è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno red­dito per le fami­glie che hanno dovuto met­tere al lavoro tutti, nonni e figli compresi.
L’ex segre­ta­rio Usa al Tesoro Law­rence Sum­mers parla di «sta­gna­zione seco­lare». Tutto fa pen­sare che riguardi anche l’Eurozona.
Per un vec­chio neo­li­be­rale come Sum­mers è strano sen­tirlo rispol­ve­rare un con­cetto che ha più di 70 anni. Lui dice che senza sti­moli forti dall’esterno, una fru­strata, il sistema capi­ta­li­stico è ten­den­zial­mente pro­penso alla sta­gna­zione alla quale oggi con­tri­bui­scono molti fat­tori, dalla glo­ba­liz­za­zione alla crea­zione di nuove tec­no­lo­gie e alle delo­ca­liz­za­zioni. Ciò ha por­tato al para­dosso per cui gli Usa con­tri­bui­scono alla cre­scita della Cina ma non alla pro­pria. La sta­gna­zione carat­te­rizza anche l’Europa e allarga le dise­gua­glianze in tutti i suoi paesi. Non si dice mai che in Ger­ma­nia esi­ste una parte della popo­la­zione che ha inflitto costi umani e sociali ele­vati alla mag­gio­ranza e ne prende grandi van­taggi. In que­sto mec­ca­ni­smo ha influito nega­ti­va­mente sui bilanci degli altri paesi il suo eccesso di espor­ta­zioni. Siamo nel pieno di una sta­gna­zione che durerà molti anni per­chè non si vede bene cosa fare per uscirne.
    Ritiene che l’uscita dalla crisi possa avve­nire con il rilan­cio della pro­du­zione e dei con­sumi di massa iden­tici a quelli del «tren­ten­nio glo­rioso», tra il 1945 e 1973?
    Lo pen­sano i gover­nanti e alcuni eco­no­mi­sti che hanno sem­pre in mente il modello che ha pro­vo­cato la crisi: pro­durre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumen­tando la pre­ca­rietà. Non credo a que­sta pro­spet­tiva. E se mai que­sto avve­nisse sarebbe un vero disa­stro, per­chè la crisi non è solo finan­zia­ria o pro­dut­tiva, è anche evi­den­te­mente una crisi eco­lo­gica che pro­duce la deser­ti­fi­ca­zione del pia­neta, distrugge risorse che hanno impie­gato migliaia di anni per accu­mu­larsi. Rischiamo inol­tre di essere sep­pel­liti dai rifiuti, uno dei pro­blemi pro­vo­cati dall’esplosione nel 2007 del modello pro­dut­tivo, come dimo­stra la Cam­pa­nia, che è un caso esem­plare di quanto sta accadendo.

L’Ocse avverte che la cre­scita tor­nerà, ma non pro­durrà nuova occu­pa­zione sta­bile. Senza con­si­de­rare che i milioni di posti fissi bru­ciati nella crisi sono irre­cu­pe­ra­bili. Visto che la crea­zione di occu­pa­zione è la pre­messa per ogni tipo di cre­scita, come la si può finan­ziare oggi in Ita­lia e in Europa?
Biso­gna ridi­scu­tere i trat­tati euro­pei e modi­fi­care lo sta­tuto della Banca Cen­trale Euro­pea, innan­zi­tutto. Non si tiene conto abba­stanza di quanto la legi­sla­zione dei nostri paesi sia for­te­mente con­di­zio­nata da que­sti trat­tati. In Ita­lia esi­stono 300 mila leggi e il cal­colo è dif­fi­cile. In Fran­cia o in Ger­ma­nia, dove ce ne sono 9 o 10 mila, si pensa che l’80 per cento di quelle in vigore siano ispi­rate dai trat­tati o dalle diret­tive. Se non si passa di lì, penso che sia molto dif­fi­cile fare poli­ti­che eco­no­mi­che che non siano quelle scon­si­de­rate fatte negli ultimi tre anni. I governi con­ti­nue­ranno a bat­tere i tac­chi e a fir­mare qual­siasi cosa che Bru­xel­les, la Bce o l’Fmi gli propongono.
Nono­stante tutto il pre­si­dente della Bce Mario Dra­ghi sol­le­cita i governi a con­ti­nuare le «riforme» anche nel 2014…
Così facendo non si farà molta strada per affron­tare seria­mente la crisi. Trovo scan­da­loso che il Trat­tato isti­tu­tivo dell’Unione Euro­pea e lo sta­tuto della Bce igno­rino quasi del tutto il pro­blema della nostra epoca: la crea­zione di occu­pa­zione. L’articolo 123 del Trat­tato Ue vieta alla Bce di con­ce­dere sco­perti di conto o qual­siasi forma di faci­li­ta­zione cre­di­ti­zia alle ammi­ni­stra­zioni sta­tali. È un divieto unico tra le ban­che cen­trali esi­stenti sul pia­neta, un’altra assur­dità del Trat­tato. È dif­fi­cile modi­fi­carlo a causa della con­tra­rietà dei tede­schi che attac­cano Dra­ghi. È curioso però notare che que­sto stesso arti­colo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mer­cato secon­da­rio. Cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acqui­stò 218 miliardi di titoli di stato, di cui 103 ita­liani. Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe pre­stare miliardi di euro in cam­bio dell’impegno di un piano indu­striale che pre­veda l’assunzione netta di nuova manodopera.
Che cosa ha fatto Dra­ghi per la crescita?
Ha pre­stato mille miliardi alle ban­che senza porre con­di­zioni. Si è reso ridi­colo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le ban­che. In realtà que­sti soldi sono stati usati per scambi ban­cari o per acqui­stare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in que­sto caso senza porre con­di­zioni. Senza risorse, le poli­ti­che con­tro la disoc­cu­pa­zione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli euro­pei, sono pan­ni­celli caldi rispetto ai 26 milioni di disoc­cu­pati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa.
    Molti eco­no­mi­sti, come la Banca Mon­diale, riten­gono che il Pil non sia più l’unico indi­ca­tore per misu­rare la cre­scita. E pro­pon­gono altri indi­ca­tori per misu­rare il tasso di svi­luppo umano. Come ren­derli vincolanti?
    Cam­biare para­digma pro­dut­tivo non implica solo cam­biare indi­ca­tori, com­porta una tra­sfor­ma­zione poli­tica. In que­sta fase man­cano le pre­messe poli­ti­che per rea­liz­zarla. I discorsi che i governi euro­pei fanno sull’economia, in Ita­lia come in Ger­ma­nia, sono di un’ottusità incom­pa­ra­bile. Vanno tutti in dire­zione con­tra­ria a quello che biso­gna fare, e di certo non ser­vono per rifor­mare la finanza, mutare il modello pro­dut­tivo e ope­rare una tran­si­zione di milioni di lavo­ra­tori verso nuovi set­tori ad alta inten­sità di lavoro. La crisi deve essere affron­tata in tutti gli aspetti e non solo su quello finan­zia­rio e pro­dut­tivo. Pur­troppo la discus­sione pub­blica è a zero.
La «green eco­nomy», o «cre­scita verde» come la defi­ni­sce l’Ocse, rap­pre­sen­tano un’alternativa a quello che lei defi­ni­sce il «tota­li­ta­ri­smo neoliberale»?
Il cam­bia­mento di para­digma pro­dut­tivo si misura anche a par­tire dalla neces­sità di rom­pere la subor­di­na­zione al cal­colo eco­no­mico di qual­siasi azione, quella che Michel Fou­cault defi­niva la «ratio» del neo­li­be­ra­li­smo. In que­sta chiave, que­ste idee potreb­bero aprire nuovi set­tori di inter­vento carat­te­riz­zati da un’alta inten­sità di lavoro. Que­sto non signi­fica creare pian­ta­gioni di cotone dove la mac­china fa il lavoro di cento brac­cianti. Biso­gna pen­sare a set­tori dove il lavoro umano è molto attrez­zato. La ricerca bio­a­li­men­tare, al di là dei fami­ge­rati Ogm, è sicu­ra­mente una di que­sti. C’è la ricerca medica, i beni cul­tu­rali. Invece di pro­durre beni di sosti­tu­zione di tipo tra­di­zio­nale, o gad­get come i cel­lu­lari, biso­gna pen­sare all’ambiente, alla scuola, ai ser­vizi pub­blici nel senso ampio del ter­mine, alla riqua­li­fi­ca­zione idro­geo­lo­gica dei nostri territori.
Il caso dell’Ilva dimo­stra la dif­fi­coltà di con­ci­liare l’esigenza dell’occupazione con un modello pro­dut­tivo com­pa­ti­bile con l’ambiente e la salute. Come gover­nare quella che si defi­ni­sce una transizione?
Il caso dell’Ilva è indi­ca­tivo di quello che non biso­gna fare. Ho stu­diato a lungo que­sti sta­bi­li­menti a Taranto. Quando furono costruiti rap­pre­sen­ta­rono un grande suc­cesso indu­striale, ma dove­vano essere ricon­ver­titi almeno vent’anni fa, quando la pro­du­zione side­rur­gica è radi­cal­mente cam­biata. Biso­gnava con­cor­dare con la pro­prietà una tran­si­zione, abbat­tere l’inquinamento, met­tere in grado la pro­du­zione di far fronte esi­genze indu­striali sem­pre più com­plesse. Lo hanno fatto in Ger­ma­nia, in Giap­pone e negli Stati Uniti, tranne che a Taranto. L’acciaio in sé non vuol dire nulla, ha mille carat­te­ri­sti­che diverse a seconda della desti­na­zione dei suoi pro­dotti. E ci vogliono sta­bi­li­menti più pic­coli. In que­sto modo è anche pos­si­bile aumen­tare l’occupazione.
Uscire dall’euro è una rispo­sta ade­guata per con­tra­stare le poli­ti­che di austerità?
Que­ste poli­ti­che sono un sui­ci­dio pro­gram­mato, ben venga qua­lun­que inter­vento per allie­viarne le con­se­guenze. L’euro è un pro­blema, ma non biso­gna farla troppo facile. È nato con gravi difetti e resta una moneta stra­niera. È una cosa da pazzi, non suc­cede in nes­sun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiu­te­rebbe molto, ma uscire dall’euro è un’idea insen­sata. Il Marco sarebbe riva­lu­tato del 40%, milioni di con­tratti tra enti pri­vati e pub­blici dovreb­bero essere ridi­scussi. Ci vor­reb­bero 20 anni per farlo, entre­remmo in una spi­rale dram­ma­tica. Credo che oggi ci siano altre urgenze in Ita­lia e in Europa.
Questa voce è stata pubblicata in Politica e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.

Una risposta a Agenda 2014 (tranquilli, nulla cambia)

  1. Adriano Zanon scrive:

    Le elezioni europee e i trattati da rifare
    di Luciano Gallino

    Sulle condizioni di vita dei cittadini europei, già afflitti dalle politiche di austerità, incombono altri rischi presenti in alcuni trattati che la Ue si accinge a varare o sono appena entrati in vigore. Riguardano i salari pubblici e privati; i diritti del lavoro; le politiche sociali; lo stato della sanità pubblica; il sistema previdenziale; la sicurezza alimentare; infine la possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale. Le prossime elezioni europee offrono una importante occasione sia per cominciare finalmente a discutere in pubblico di tali rischi, sia per fermare un paio dei trattati ancora non sottoscritti perché su di essi il Parlamento europeo ha diritto di veto.

    Un trattato che potrebbe venire subito bloccato da Strasburgo è quello sull’Unione bancaria. L’idea alla base era valida: impedire che in futuro l’eventuale dissesto di grandi banche private sia di nuovo caricato sul bilancio pubblico dello Stato in cui hanno sede, com’è avvenuto dal 2008 in poi. Ma la bozza varata nel dicembre scorso contiene gravi difetti. L’autorità per accertare se una banca è in difficoltà e avviare al caso una procedura di fallimento o amministrazione controllata (resolution) sarebbe affidata alla sola Bce. Il che da un lato attribuisce alla Bce un potere enorme, dall’altro lascia fuori dall’Unione bancaria il Regno unito, poiché non fa parte dell’Eurozona; il quale non solo è la maggior area finanziaria del continente, con tre banche sulle prime venti (Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland) che totalizzano 7 mila miliardi di dollari di attivi; è pure il Paese in cui nella primavera 2008, quindi prima ancora che in Usa, si verificarono i maggiori disastri bancari.

    Inoltre il meccanismo di risoluzione è complicatissimo, e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire. Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi. Ma il difetto peggiore della bozza dell’Unione bancaria consiste nell’avallare l’idea che la crisi apertasi nel 2008 fosse dovuta a difetti di regolazione del sistema bancario, piuttosto che a un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito. Sulla strada di questo trattato si profila al momento un grosso ostacolo. Infatti il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha già dichiarato che lo considera un pessimo errore, per cui il Parlamento voterà no. Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni.

    Un’altra minaccia pendente sulla testa degli europei è il Ttip (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti). La Ce ha tenuto centinaia di riunioni riservate con gli americani per varare un accordo che offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa, e a quelle europee di fare altrettanto in Usa. Basti pensare che gli Usa non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale; il diritto a contratti collettivi in tema di salari; la parità di retribuzione uomodonna; il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica. Se il Ttip fosse approvato, le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni. Le medesime società potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro; una legislazione che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana. Pertanto il Ttip è stato accusato da numerose Ong di essere un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario, e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire.

    Contro la minaccia del Ttip si ergono fortunatamente degli oppositori di peso. Uno potrebbe essere di nuovo il Parlamento europeo, visto che questo ha già bocciato nel 2012 un progetto analogo che si chiamava Acta (Accordo commerciale contro la contraffazione). Esso avrebbe esteso grandemente la sorveglianza elettronica non solo sui siti web, ma perfino sui pc dei privati. Un altro oppositore è nientemeno che il Senato Usa, dove il leader della maggioranza democratica, Harry Reid, pochi giorni fa ha respinto la richiesta del presidente Obama di aprire all’esame del Ttip (e di un trattato gemello con l’Asia) una “pista veloce” (fast track). Ciò comporterà un cospicuo allungamento dei tempi per la discussione del Ttip, piaccia o no a Bruxelles.

    Poi c’è il Patto fiscale, che da quest’anno obbliga gli stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60 per cento del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1560 miliardi. Il debito si aggira sui 2060 miliardi, pari al 132 per cento del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario (la differenza tra le tasse che lo stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi). Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu? Naturalmente, ecco levarsi il ditino ammonitore degli esperti neoliberali: ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito/Pil. Certo, se il Pil crescesse in termini reali del 4 per cento l’anno, pari a oltre 62 miliardi nel 2014 e poi via a crescere, il Patto fiscale farebbe meno paura. Accade però che le previsioni più ottimistiche non vadano al di là dell’1 per cento o meno per molti anni a venire. Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto.

    Le soluzioni potrebbero essere diverse, tra le quali chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito/Pil la colossale spesa per interessi. Ma in fondo il problema non è il suddetto rapporto. È l’idea che a forza di contrarre la spesa pubblica si arrivi a ripagare il debito. Grazie a tale idea perversa, lo stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il Paese in una spirale inarrestabile di deflazione. In altre parole, l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna. Sarebbe un grande tema da sottoporre al più presto a una discussione pubblica, insieme agli altri indicati sopra, e adattissimo per l’agenda del Parlamento europeo; a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno.

    (la Repubblica, 13 febbraio 2014)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *