No ad un nuovo ospedale

Anche oggi compare su la Nuova Venezia la notizia che «L’ospedale unico si fa con la sede a San Donà». La relazione dei tecnici (ben 221 pagine!) è in mano del presidente della Conferenza dei sindaci per la sanità, il sindaco di Caorle Luciano Striuli, che convocherà l’organismo appena possibile.

Siamo curiosi di vederne il contenuto, nel frattempo, la nostra posizione è semplice, è quella sintetizzata il 22 febbraio scorso da Ermes Drigo nel suo blog:

“Facciamo un unico polo specializzando i tre ospedali esistenti; niente grandi opere, niente sprechi, niente tangenti, niente ulteriori debiti per i nostri figli e soprattutto manteniamo una struttura sanitaria pubblica nel nostro territorio.”

Una posizione vicina si trova nel recente comunicato del Circolo Pd di Portogruaro, dove tra l’altro si scrive:

“Abbiamo spiegato e argomentato le nostre posizioni, abbiamo detto no all’ospedale unico, ora diciamo basta a scelte politiche che vogliono solo penalizzare i cittadini Portogruaresi!”

Certo, questo tema divide non solo i territori interessati, ma anche i partiti. Così che il Pd portogruarese pare un’altra entità rispetto a quello sandonatese. Perfino all’interno del M5S ci sono differenze, come si può leggere in un recente comunicato.

Ma le popolazioni del portogruarese, nonostante i tentativi ridicoli da parte di alcune forze locali durante l’attuale campagna elettorale, sono semplicemente concordi. Non si può mettere in discussione un elemento consolidato e caratteristico della vita civile locale e si cerchi piuttosto di migliorare i servizi, che soprattutto in questo ultimo decennio sono stati progressivamente sviliti e svuotati.

Adesso basta. Portogruaro ed i comuni adiacenti non si accontentano solo di vedere aumentare la funzione logistica, stradale e ferroviaria, di questo territorio.

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W gli alpini

In queste ore gli alpini stanno invadendo Pordenone. Con loro molti altri cittadini arriveranno da ogni parte d’Italia e anche da fuori per l’annuale adunata. Sono previste 350mila presenze. E in qualche modo ci sarò anch’io.

Feci la naja alpina negli anni 1972-73, quindici mesi nella Brigata Julia, 8° Reggimento, Battaglione Gemona (motto “Mai daûr”), 69a compagnia (“La Fulmine”). Stetti a L’Aquila (per ben sei mesi), a Gemona e Venzone (entrambe per venti giorni, tre anni prima del terremoto del 1976), ma soprattutto a Pontebba. Sciai (si fa per dire) sul Pramollo quando non era ancora attrezzato. Facemmo il lungo campo estivo tra Forni di Sopra e il Passo Mauria, dove vidi passare Battaglin davanti a Fuente, Gimondi e Merckx (che era naturalmente in maglia rosa), all’ultima tappa Auronzo-Trieste del Giro 1973. Oggi le caserme frequentate sono state abbattute o in via di abbattimento. Il Battaglion Gemona (nappina bianca) non c’è più. Esiste solo il battaglion Tolmezzo, che ha assorbito anche la mia vecchia compagnia.

Non avevo certo scelto io il corpo militare, ma essendo di Sesto al Reghena, cioè un friulano, era quasi fatale finire tra gli alpini. Come mio zio Emilio (“Mìlio”, 1908-1983) che era contento perché ero del Gemona come lui. Come mio padre Angelo (“Gin”, 1922-1998), che da artigliere di montagna del 3° Reggimento, Gruppo Conegliano, 14a batteria, fece la campagna di Russia, riportando a casa la pelle.

Da bambino andavo alle adunate locali con mio padre che mi aveva preparato un cappello su misura. E dopo cena spesso si cantava le canzoni alpine in trio – perché anche le sorelle hanno avuto il loro ruolo. E un momento per me significativo fu quando, tornando a casa da scuola (avevo appena cominciato le medie a San Vito al Tagliamento), mia madre mi disse che mio padre non c’era, era andato a Longarone con gli alpini, perché era successo un disastro di morti per il crollo di una diga. Era il 10 ottobre 1963, un giovedì. Non ricordo quanto tempo mio padre, un contadino con la sua stalla quotidiana, sia rimasto via, ma ricordo che raccontò poche cose di quanto aveva visto. Disse solo che gli alpini lì erano indispensabili.

Per la verità, fosse dipeso da me, non avrei neanche fatto il militare: ero figlio di una famiglia di alpini, ma anche del Sessantotto, forse anche di più. Non ero però un obiettore di coscienza. Concepivo l’uso delle armi, per difendersi o per resistere, per combattere la tirannia e l’ingiustizia dell’imperialismo da parte di popoli oppressi. Non ero un pacifista inteso come un assoluto ‘non violento’ o un gandhiano. Invece odiavo l’ottusità della retorica militare e il falso spirito di servizio, che servivano solo a giustificare le nefandezze dei comandi, politici e militari, nelle guerre coloniali e mondiali. E così, anche dopo la naja che feci da soldato semplice in una compagnia d’assalto, mi sono tenuto lontano dall’ideologia degli alpini, un impasto organizzato nel tempo attraverso uno strumento fondamentale come l’Associazione Nazionale Alpini (ANA) e cementato attentamente scegliendo solo dai comportamenti virtuosi e diventato un vero e proprio mito, ma totalmente vuoto di senso storico e critico su tutte le vicende reali.

Poi nel tempo ho letto anche i libri sugli alpini, particolarmente le memorie sul fronte russo, apprezzando soprattutto Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, due militari di carriera che dopo la campagna di Russia hanno detto no a quelli della Repubblica di Salò, finendo il primo in prigione in Germania ed il secondo tra i partigiani in montagna e diventando poi due veri scrittori. Mentre Giulio Bedeschi, che fu anche repubblichino, ha avuto un successo enorme, ma si è caratterizzato proprio per aver contribuito ad edificare il mito degli alpini ed in particolare della Julia. Ma non voglio affrontare qui un impegnativo capitolo su questa grande memorialistica.

Ai funerali di mio padre il saluto degli alpini della nostra zona fu, come sempre, forte. E ancora in Abbazia, dopo il coro che intonò “Signore delle cime” di Bepi de Marzi, il suo commilitone di Russia, l’allora sottotenente Arrigo Cozzi, poi per tutti noi sestensi semplicemente il maestro Cozzi, ebbe poche ma efficaci parole per ricordarlo. Ve le risparmio, ma io gliene sono ancor oggi grato. E senza mio padre era fatale che mi iscrivessi anch’io alla sezione ANA di Sesto. Purtroppo senza mantenere la continuità e la disciplina dovute, passando solo a salutare qualche alpino andato avanti o a presenziare a qualche importante commemorazione. Ma infine, in questi anni ed in qualche modo, mi sono riconciliato con una parte del “pensiero” degli alpini.

Già, una parte, perché è un fatto reale che gli alpini sono sempre stati reclutati soprattutto tra i contadini, di montagna e di pianura, e che una parte determinante del loro spirito è la concezione del mondo della civiltà contadina, fondata sulla solidarietà, sul rispetto della vita e della natura e sul senso della misura. L’altra parte, il senso della gerarchia e della disciplina, la fedeltà cieca e acritica, pur dopo l’assurda esperienza della Grande Guerra, sono stati imposti dall’ideologia dello stato italiano, prima durante il fascismo e poi durante il trentennio democristiano. E questa è l’ambivalente ideologia degli alpini. Sono due parti che non possono convivere, ma che nell’immaginario sociale finora sono riusciti a tenere in qualche modo unite. Almeno così sembra.

Ma oggi non c’è più bisogno di difendere a tutti i costi i comportamenti di tutti i protagonisti storici, dei vertici militari come della truppa. I momenti di eroismo individuale e collettivo, lo spirito di sacrificio e la grande dignità dimostrata nelle peggiori tragedie militari non possono oscurare la realtà delle guerre di aggressione, i gravi danni portati alle popolazioni civili, per continuare a dire che gli alpini hanno sempre e soltanto servito la patria e difeso l’onore dell’esercito italiano.

Oggi ci sono le condizioni per far valere di più la componente contadina su quella militare. Basta volerlo. Lo stesso Statuto dell’ANA all’Art.2 (Scopi) si propone, tra l’altro, di:

d) promuovere e favorire lo studio dei problemi della montagna e del rispetto dell’ambiente naturale, anche ai fini della formazione spirituale e intellettuale delle nuove generazioni;
e) promuovere e concorrere in attività di volontariato e Protezione Civile, (…).

E così, nell’educazione al rispetto dell’ambiente e nella solidarietà civile, gli alpini oggi mi piacciono più di una volta. Mentre mi è sempre piaciuta la loro “misura”, simbolizzata dalla marcia trentatré e dal canto corale sempre contenuto, anche se spesso terribilmente straziante.

Solo su una cosa non sono misurati gli alpini: col vino. Ma per questo mi sono sempre stati simpatici e – pur con attenzione – andrò all’adunata.

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“Riprendiamoci la terra di nessuno”

A solo venti giorni dal voto europeo, il dibattito è talmente povero da annichilire anche uno già pazzo come me, che cerca ancora e sempre di portare il discorso sugli aspetti chiave. Oggi infatti il ragionamento non premia, tantomeno la lettura lunga. Funziona meglio lo slogan o la battuta di cui – non a caso – sono sempre dotati i tre principali protagonisti della scena politica attuale.

Ma c’è qualcuno che sa veramente che programma hanno Berlusconi, Grillo o Renzi ed i loro relativi partiti sui temi europei? Al massimo si può dire che producono slogan contro qualcun altro. Il primo è contro tutti, compreso se stesso. L’importante è sopravvivere grazie ad uno spirito pubblico spappolato, come il cervello di troppi, dai media. Il secondo è già da un po’ che minaccia di andarsene. E’ l’ennesimo salvatore. Dopo di lui il diluvio, è il concetto fatto proprio soprattutto dal suo partito, che è l’ennesimo stadio di una larva in evoluzione perpetua. Il terzo aspetta di raccogliere il frutti di tanto scempio, distribuendo insulti e catastrofismo, una concimaia buona a tutte le coltivazioni.

Eppure resta qualche voce in questo deserto. Chi volesse tentare anche qui è linkato qualcosa (tag: Ue, austerity, Luciano Gallino). Mentre una voce che si sente solo ora chiaramente in Italia è quella di un ancor giovane economista francese Thomas Piketty. Costui è quindici anni che studia e pubblica sull’impatto dell’eguaglianza/ ineguaglianza economica, ma è diventato un nuovo fenomeno con il suo ultimo libro, Le capital au XXIe siècle, appena tradotto in inglese e diventato così “a modern Marx“.

Piketty ha firmato insieme ad altri intellettuali francesi un nuovo manifesto, pubblicato il 6 maggio da la Repubblica e qui copiato e linkato da Micromega. (Grassetto ed evidenziazioni sono miei.)
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Riprendiamoci la terra di nessuno della moneta unica
L’Unione europea sta vivendo una crisi esistenziale, come le elezioni europee presto ci ricorderanno in modo brusco. Ciò per lo più riguarda i paesi della zona euro, impantanati in un clima di sfiducia e di crisi del debito che è lungi dall’essere conclusa: la disoccupazione persiste, la deflazione è una minaccia che incombe. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità che immaginare che il peggio sia alle nostre spalle.
È per questi motivi che accogliamo con grande interesse le proposte volte a rafforzare l’unione politica e fiscale dei paesi della zona euro. Da soli, i nostri paesi molto presto non avranno granché peso nell’economia mondiale. Se non ci uniamo in tempo, per portare il nostro modello di società nel processo della globalizzazione, la tentazione di ritirarsi all’interno dei nostri confini nazionali alla fine avrà la meglio e sfocerà in tensioni che faranno impallidire al confronto le difficoltà contingenti dell’Unione. Attraverso il presente manifesto vorremmo dare il nostro contributo al dibattito sul futuro democratico dell’Europa.
È giunto il momento di riconoscere che le istituzioni europee esistenti sono disfunzionali e devono essere ricostruite.

La questione centrale è semplice: la democrazia e le autorità pubbliche devono essere messe nella condizione di poter riacquistare il controllo del capitalismo finanziario globalizzato del XXI secolo e di regolamentarlo in maniera efficace. Un’unica valuta con 18 debiti pubblici diversi sui quali i mercati possono speculare liberamente, e 18 sistemi fiscali e benefit in competizione incontrollata tra di loro non funziona, e non funzionerà mai. I paesi della zona euro hanno scelto di condividere la loro sovranità monetaria, e quindi di rinunciare all’arma della svalutazione unilaterale, ma senza mettere a punto nuovi strumenti economici, fiscali, e di budget comuni. Questa terra di nessuno è il peggio di tutti i mondi immaginabili.
Troppo spesso l’Europa odierna ha dimostrato di essere stupidamente invadente su questioni secondarie (come il tasso dell’Iva dei parrucchieri e dei club ippici) e pateticamente impotente su quelle davvero importanti (come i paradisi fiscali e la regolamentazione finanziaria). Dobbiamo invertire l’ordine delle priorità: meno Europa per le questioni nelle quali i paesi membri agiscono bene da soli, più Europa quando l’unione è essenziale.
In concreto, la nostra prima proposta è che i paesi della zona euro, a cominciare da Francia e Germania, condividano la Corporate Income Tax (Cit, imposta sul reddito d’impresa). Ogni paese, preso a sé, è raggirato dalle multinazionali di tutti i paesi, che giocano sulle scappatoie e le differenze esistenti tra le legislazioni delle varie nazioni per evitare di pagare le tasse. Per combattere questa “ottimizzazione fiscale”, un’autorità sovrana europea necessita di poteri che le consentano di fissare una base fiscale comune quanto più ampia possibile e quanto più strettamente regolata.
Oltre a ciò è necessario universalizzare lo scambio automatico delle informazioni bancarie all’interno della zona euro e fissare una politica concertata che renda la tassazione del reddito e della ricchezza più progressiva, e al tempo stesso è indispensabile combattere insieme e uniti una battaglia efficace contro i paradisi fiscali esterni alla zona. L’Europa deve contribuire a portare la giustizia tributaria e la volontà politica nel processo di globalizzazione.
La nostra seconda proposta scaturisce direttamente dalla prima. Per approvare la base fiscale della Cit e più in generale per discutere e adottare le decisioni fiscali, finanziarie e politiche su ciò che si dovrà condividere in futuro in modo democratico e sovrano, dobbiamo dare vita a una camera parlamentare per la zona euro. Potrà essere un parlamento dell’eurozona, formato da membri del parlamento europeo dei paesi interessati (una sotto-formazione del parlamento europeo ridotto ai soli paesi della zona euro), oppure una nuova camera basata sul raggruppamento di una parte dei membri dei parlamenti nazionali (per esempio 30 parlamentari francesi dell’Assemblea Nazionale, 40 parlamentari tedeschi del Bundestag, 30 deputati italiani, e così via, in base alla popolazione di ciascun paese). Noi crediamo che questa seconda soluzione, la cui idea si ispira alla “camera Europea” proposta da Joschka Fischer nel 2011, sia l’unica alternativa per dirigerci verso l’unione politica. È impossibile esautorare del tutto i parlamenti nazionali dei loro poteri di stabilire le imposte. Ed è precisamente sulla base di una sovranità parlamentare nazionale che si può forgiare una sovranità parlamentare europea condivisa.
In base a tale proposta, l’Unione europea avrebbe due camere: il parlamento europeo esistente, direttamente eletto dai cittadini dell’Ue dei 28 paesi, e la camera europea, in rappresentanza degli stati tramite i loro stessi parlamenti nazionali. La camera europea in un primo tempo coinvolgerebbe soltanto i paesi della zona euro che vogliono realmente indirizzarsi verso una maggiore unione politica, fiscale e di budget. Questa camera, tuttavia, dovrebbe essere concepita in modo tale da accogliere tutti i paesi dell’Ue che accetteranno di percorrere insieme questa strada. Un ministro delle finanze dell’eurozona, e in definitiva un governo europeo vero e proprio, risponderebbero del loro operato alla camera europea.
Questa nuova architettura democratica per l’Europa renderebbe finalmente possibile superare il mito secondo cui il concilio dei capi di stato può fungere da seconda camera in rappresentanza degli stati. Questa ingannevole concezione riflette l’impotenza politica del nostro continente: è impossibile per una persona sola rappresentare un intero paese, a meno di rassegnarsi all’impasse permanente imposta dall’unanimità. Per dirigersi una volta per tutte verso la regola della maggioranza per le questioni di ordine fiscale e di budget conta che i paesi della zona euro scelgano di condividere, ed è necessario creare un’autentica camera europea, nella quale ogni paese sia rappresentato non dal suo solo capo di stato, ma dai membri che rappresentano tutte le opinioni politiche.
La nostra terza proposta affronta direttamente la crisi del debito. Noi siamo convinti che l’unico modo di lasciarci tutto ciò definitivamente alle spalle sia di mettere in comune i debiti dei paesi della zona euro. In caso contrario, le speculazioni sui tassi di interesse riprenderanno e continueranno. Questo è anche l’unico modo per la Banca Centrale Europea per attuare una politica monetaria efficace e reattiva, come fa la Federal Reserve degli Stati Uniti. Di fatto l’operazione di messa in comune del debito è già iniziata con il Meccanismo Europeo di Stabilità, l’emergente unione bancaria e il programma di transazioni monetarie della Bce. È necessario adesso andare oltre, continuando a chiarire la legittimità democratica di questi meccanismi.
Thomas Piketty, direttore della Scuola di alti studi in scienze sociali e professore presso la Scuola di economia di Parigi
Florence Autret, scrittore e giornalista
Antoine Bozio, direttore dell’Istituto di politica pubblica
Julia Cagé, economista presso l’università di Harvard e la Scuola di economia di Parigi
Daniel Cohen, professore all’École Normale Supérieure e della Scuola di economia di Parigi
Anne-Laure Delatte, economista
Brigitte Dormont, professore, Università Paris Dauphine
Guillaume Duval, direttore di “Alternatives Economiques”
Philippe Frémeaux, presidente dell’Istituto Veblen
Bruno Palier, direttore della ricerca Istituto di studi politici di Parigi
Thierry Pech, direttore generale di Terra Nova
Jean Quatremer, giornalista
Pierre Rosanvallon, professore, Collège de France
Xavier Timbeau, direttore dei dipartimenti di analisi e previsioni, Istituto di studi politici di Parigi
Laurence Tubiana, professore, Istituto di studi politici di Parigi, presidente dell’Istituto per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali
(Il testo è un estratto del manifesto pubblicato dal Guardian. Traduzione di Anna Bissanti.)
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Con la rivoltella dentro un libro di Montale

Pier Paolo Pasolini (1922-1975) che saluta il fratello Guido (1925-1945) in partenza per le montagne. Non sarebbe più tornato. Anzi, fu ucciso da altri partigiani, a Porzûs (7-18 febbraio 1945).

La Resistenza fu anche questo. Anzi, per evitare equivoci, faccio proprio il giudizio di Giorgio Bocca: “L’episodio più nero, più amaro del settarismo, è quello di Porzus, ma data la situazione c’è da chiedersi come un fatto del genere sia avvenuto una sola volta.” (Storia dell’Italia partigiana, 1980).

A un ragazzo
Era un mattino in cui sognava ignara
nei ròsi orizzonti una luce di mare:
ogni filo d’erba come cresciuto a stento
era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine
lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiava esanime
nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti,
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba
del binario, attendeva il treno di Spilimbergo…
L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella,
nel bianco colore dell’aria e della terra.
Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta
ch’era stata mia, la nuca giovinetta.
Pier Paolo Pasolini, estratto da La religione del mio tempo (1956-57)
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Di peggio in peggio

Quando posso pubblico gli interventi di Luciano Gallino. Ormai ripete sempre le stesse cose, con un’eleganza perfino eccessiva. E dimostra che col governo Renzi si vuol solo peggiorare ulteriormente la situazione. Al fondo non c’è mai fine. (Le evidenziazioni sono mie.)

“Progetto vecchio e pericoloso”. Gallino boccia il Job Act
intervista di Giacomo Russo Spena
Voce bassa, idee chiare. Come al solito. Gli 80 euro? “Uno spot, era meglio investire quei soldi in nuova occupazione”. La Cgil? “Sta appannando la bandiera di vero sindacato”. E sul Job Act, “è un progetto vecchio vent’anni che porterà all’estremo la precarietà”. Il sociologo Luciano Gallino riflette sulle misure del governo Renzi – dal Def al provvedimento del ministro Poletti – arrivando ad una netta bocciatura: “Sul lavoro non c’è quel cambiamento auspicato”.
Professore, partiamo proprio dal Def. Dopo settimane di annunci e proclami, sembra che la montagna abbia partorito un topolino. Il premier Matteo Renzi ha deciso di rispettare i vincoli imposti dall’Europa rinunciando ad utilizzare il margine fino al 3% del deficit annuo. Non doveva avere più coraggio nei confronti della trojka?
Sicuramente, ma Renzi esprime un governo e una classe politica interamente supina nei confronti dei dettati dell’Europa, i quali invece vanno messi in discussione. Per farlo ci vorrebbero due prerogative, avulse all’attuale governo: una vera forza politica nazionale e le competenze per poter intervenire su punti specifici.
Tra la varie misure ipotizzate, i mille euro all’anno per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25mila lordi. È un reale antidoto per contrastare la crisi o le appare una mossa più che altro propagandistica? E, per Lei, ha una reale copertura economica?
Non si è ancora ben capito da dove arriveranno i fondi. Pur ipotizzando che abbiano trovate le risorse sufficienti, siamo ad una “partita di giro” per i cittadini: si toglie da un lato per spostarlo all’altro, si mette un’esigua cifra in tasca alla gente e si preleva altrove. L’operazione ha un grande impatto mediatico, 10 miliardi per 10 milioni di persone è uno spot che rimane impresso nelle menti. Ma siamo nel campo di interventi a pioggia a fronte di una recessione gravissima nel Paese e in Europa. Quei fondi si sarebbero dovuti concentrare su qualche singolo aspetto con effetti a breve e sicuri.
Per esempio?
Con 10 miliardi di euro si creano quasi un milione di posti di lavoro, a 1200 euro netti al mese più i benefici del caso. L’impatto sull’economia sarebbe stato più forte: questi 80 euro non cambiano infatti le sorti delle persone, mentre concentrati su un tot di cittadini questa cifra avrebbe inciso nelle loro vite. Renzi ha preferito lo spot ad effetto al reale cambiamento.
Passiamo al Job Act, qual è il suo giudizio?
Siamo di fronte ad un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna guardando soprattutto nello specchietto retrovisore. Una cosa pericolosa. Da non fare.
Ci spieghi meglio…
Il progetto del Job Act nasce vecchio. Di vent’anni. Nel 1994 l’OCSE – uno dei tanti organismi internazionali che entra negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, taglio dello stato sociale, concertazione etc… – produsse uno studio sull’indice di LPL (Legislazione a Protezione dei Lavoratori), un indicatore di rigidità del mercato: riteneva che tanto più alto fosse l’indicatore quanto più alta era la disoccupazione. Da allora molti giuristi, economisti, sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero dall’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice LPL possa portare ad aumento dell’occupazione. Nel 2006 la stessa OCSE, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento. L’indice LPL per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5, dopo 12 anni con le riforme delle leggi Treu 1997 e Maroni-Sacconi 2003 era sceso ad 1,5. Più che dimezzato. I precari sono diventati 4 milioni. La riforma Fornero ha seguito la stessa scia e ora il Job Act, a favorire ancora la mobilità in uscita. Nel 2014 siamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994 e l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante.
Quindi boccia il concetto di precarizzazione espansiva, ovvero l’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare una crescita dei redditi e dell’occupazione?
La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione. Invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi. Così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata.
L’associazione di giuristi democratici ritiene incompatibile il Job Act con il diritto comunitario, per questo ha denunciato l’Italia e il presidente del consiglio Renzi alla Commissione europea. Che ne pensa?
Azione meritoria che sottoscrivo, senz’altro.
Durante il congresso della Fiom. Il segretario Maurizio Landini ha attaccato duramente la Cgil di Susanna Camusso. Siamo alle porte di un quarto sindacato confederale?
Mi dispiaccio del conflitto interno alla prima grande confederazione italiana che porta ancora la bandiera di vero sindacato, ovvero quell’organizzazione capace di aprire discussioni, avanzare vertenze e produrre conflitti a vantaggio del lavoratore. La Cgil è l’ultima a rappresentare quest’idea di sindacato. Ultimamente, però, con Camusso questa bandiera si è appannata. L’unico soggetto che riesce a tenerla alta è la Fiom.
(Micromega online, 14 aprile 2014)
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Corso Silvio Trentin

Su la Nuova Venezia di oggi si possono leggere queste parole (p.34):

Pedonalizzazione del centro, primo sì della giunta che ieri ha approvato la delibera. (…) «Obiettivo è la rivitalizzazione del centro cittadino, a sostegno alle attività commerciali esistenti e per creare condizioni che favoriscano l’insediamento di nuove imprese», spiega il sindaco, (…).

Quale sindaco? Andrea Cereser, quello di San Donà, dove hanno deliberato di pedonalizzare nei fine settimana parte di corso Trentin, cioè la strada statale Triestina.

La notizia oggi non è ancora online, ma era annunciata anche ieri. E a me è venuto uno strano prurito in tutto il corpo.

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L’altra Europa con Tsipras: le liste

Questi sono i nominativi per il Collegio Nord Est:
Paola Morandin, operaia, Electrolux Susegana
Adriano Prosperi, storico
Piergiovanni Alleva, giuslavorista e avvocato CGIL, Bologna
Oktavia Brugger, ambientalista, Alto Adige
Isabella Cirelli, referendum scuola pubblica, Bologna
Annalisa Comuzzi, pacifista, Udine
Stefano Lugli, comitati terremotati, Modena
Ivano Marescotti, attore, romagnolo
Riccardo Petrella, economista ambientalista, Verona
Cristina Quintavalla, comitato Audit Bilancio comune Parma
Carlo Salmaso, attivista per la scuola pubblica, Padova
Edoardo Salzano, detto Eddy, urbanista e blogger, Venezia
Camilla Seibezzi, diritti civili, Venezia
Assunta Signorelli, psichiatra basagliana, Trieste
NB1 – Ho messo di tutti la città dove vivono o operano professionalmente, salvo per il prof. Prosperi che credo viva in Toscana.
NB2 – Ricordo che la legge elettorale italiana prevede lo sbarramento al 4% e la possibilità di dare tre preferenze.
L’Altra Europa con Tsipras: il programma
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Segni di apocalisse

Questa settimana si sta concludendo con le immagini, sempre in ritardo, che arrivano da Yarmouk, una delle città siriane più provate.

Ora abbiamo anche la nuova situazione dell’Ucraina, con l’invasione, tanto per cominciare, della Crimea da parte dei carri armati russi. Tutto avviene sempre in assenza di adeguate iniziative delle istituzioni internazionali, a partire dall’Ue.

Come si fa ad essere ottimisti? Noi siamo presi dalla situazione italiana che in confronto è una commedia. Ma la distrazione interna non basta. Ognuno faccia quello che può.

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Venezia

Pubblico un articolo integrale di Edoardo Salzano perché è semplicemente fondamentale. Metto in evidenza solo il finale, la denuncia del nuovo grande rischio che incombe sulla città più fragile e sulla sua laguna.

Cartoline da Venezia, città «vetrina»
di Edoardo Salzano   

Vene­zia, que­sta parola è l’etichetta di molte realtà. La più ristretta è costi­tuita dalla città antica, cir­con­date dalle acque sal­ma­stre della Laguna, cele­brata in tutto il mondo da interi archivi di car­to­line illu­strate e da milioni di imma­gini scat­tate da turi­sti d’ogni con­ti­nente. La più ampia è quella di un’area metro­po­li­tana i cui con­fini variano, a seconda delle ten­denze degli stu­diosi e dei tempi della poli­tica, dalle dimen­sioni di una ven­tina di comuni a quelle di qual­che pro­vin­cia. In que­ste note mi rife­ri­sco al noc­ciolo essen­ziale del più vasto con­te­sto: l’intima unione tra la città insu­lare, edi­fi­cata nel corso del mil­len­nio che è alle nostre spalle, e quel par­ti­co­la­ris­simo ambiente sal­ma­stro da cui ha tratto la sua vita e la sua forma, la sua Laguna.

Immo­bile e mutevole

La forma fisica, la strut­tura mate­riale della città insu­lare è cam­biata pochis­simo nell’ultimo tren­ten­nio, ma sono cam­biate pro­fon­da­mente la sua strut­tura sociale, il modo in cui viene vis­suta dai suoi abi­ta­tori per­ma­nenti o tem­po­ra­nei o flut­tuanti, i poteri che ne orien­tano le tra­sfor­ma­zioni e i con­flitti che li divi­dono. È soprat­tutto su que­sto aspetto che vor­rei sof­fer­marmi, per­ché è all’esito di que­sti con­flitti che è legato il futuro: il pre­va­lere dei rischi che il trend pre­an­nun­cia o delle spe­ranze che l’ottimismo della volontà con­sente di intravedere.

Trent’anni fa la sede delle deci­sioni era nelle isti­tu­zioni: nei con­si­gli del Comune, della pro­vin­cia e della regione, e nelle parti poli­ti­che (nei par­titi) che in quelle sedi tro­va­vano gli accordi neces­sari per gover­nare. Era attra­verso i par­titi che gli inte­ressi sociali, eco­no­mici, ideali eser­ci­ta­vano le loro influenze sulle scelte, ed era attra­verso i par­titi che si espri­me­vano le visioni sul futuro della città e le regole del suo funzionamento.

Il cam­bia­mento ini­ziò nel corso degli anni Ottanta. L’evento più rile­vante fu l’affidamento da parte dello Stato a un con­sor­zio di imprese pri­vate, in larga pre­va­lenza del set­tore dell’edilizia, il Con­sor­zio Vene­zia Nuova, del com­plesso di inter­venti più con­si­stente sulla strut­tura fisica ed eco­no­mica della città: gli inter­venti per la sal­va­guar­dia della Laguna e la rea­liz­za­zione del pro­getto MoSE), con la legge Nico­lazzi del 1984). Nello stesso anno Gianni De Miche­lis, potente e lucido espo­nente del Psi di Craxi, lan­ciava la pro­po­sta di rea­liz­zare a Vene­zia l’Esposizione mon­diale del 2000. La pro­po­sta vedeva con­ver­gere sulle «magni­fi­che sorti e pro­gres­sive» di una Vene­zia lan­ciata sui mer­cati inter­na­zio­nali l’universo delle grandi imprese ita­liane Men­tre il Con­sor­zio Vene­zia Nuova diven­tava uno dei prin­ci­pali attori della vita eco­no­mica della città con il potere che gli deri­vava dal ruolo di con­ces­sio­na­rio unico dello Stato e dalle ingenti risorse finan­zia­rie pub­bli­che di cui dispo­neva, in città si mani­fe­stava e via via si esten­deva una forte cam­pa­gna di con­tra­sto alla pro­po­sta di Expo.

L’opposizione vinse e scon­fisse, allora, il dise­gno di De Miche­lis. È utile riflet­tere oggi sulle ragioni che allora pre­val­sero. Si era riu­sciti a far com­pren­dere (ai vene­ziani, ai par­la­men­tari ita­liani e a quelli euro­pei) che gli effetti di un’Expo a Vene­zia «sareb­bero stati dirom­penti: non tanto sulle “pie­tre” della città, quanto sul deli­cato equi­li­brio tra strut­tura fisica e strut­tura sociale, tra le pre­ziose forme della città e la società che le abita» (l’Unità, 13 giu­gno 1990). Que­sto equi­li­brio, si osser­vava allora, «è già minac­ciato da un non gover­nato turi­smo di massa, che modi­fica giorno per giorno l’assetto sociale ed eco­no­mico delle città: influi­sce sul mer­cato immo­bi­liare, sulla qua­lità del com­mer­cio, sui prezzi delle merci, sui modi di frui­zione della città e dei suoi servizi».

Era già ini­ziata la tra­sfor­ma­zione del com­plesso indu­striale di Porto Mar­ghera: prima il pas­sag­gio del capi­tale dai mono­poli pri­vati alle Par­te­ci­pa­zioni sta­tali, poi la chiu­sura delle fab­bri­che più anti­che, il pen­sio­na­mento anti­ci­pato dei lavo­ra­tori, men­tre diven­tava via via più acuta la con­sa­pe­vo­lezza del pesante danno alla salute del ter­ri­to­rio, dei lavo­ra­tori e degli abi­tanti, deri­vante dall’inquinamento pro­dotto dalle indu­strie chi­mi­che. A livello nazio­nale erano gli anni del cra­xi­smo ram­pante, della scon­fitta della classe ope­raia con il fal­li­mento del refe­ren­dum per la scala mobile, della dere­gu­la­tion e del trionfo di slo­gan dive­nuti senso comune («meno Stato e più mer­cato», «via lacci e lac­ciuoli», «pri­vato è bello»), ormai vin­centi anche nella gestione poli­tica della sini­stra comunista.

A par­tire da que­gli anni è ini­ziato anche a Vene­zia un pas­sag­gio che ha carat­te­riz­zato tutta l’economia ita­liana (e con essa la società e il sistema dei poteri e dei valori).

La ren­dita turistica

Men­tre nella fase del capi­ta­li­smo for­di­sta la cen­tra­lità del mec­ca­ni­smo eco­no­mico era nella cre­scita del pro­fitto e del sala­rio, in quella del finan­z­ca­pi­ta­li­smo (Gal­lino) essa è stata assunta da quella forma di red­dito che i libe­rali clas­sici defi­ni­vano «paras­si­ta­ria» la ren­dita. In Ita­lia, un peso pre­pon­de­rante ha assunto, accanto a quella finan­zia­ria, la ren­dita urbana, nelle sue diverse forme legate ai van­taggi pri­vati accu­mu­la­bili dalle tra­sfor­ma­zioni nell’uso del suolo (Tocci). Men­tre in gene­rale in Ita­lia (nei grandi cen­tri sem­pre più den­si­fi­cati come nelle cam­pa­gne deva­state dallo sprawl) è cre­sciuta in modo abnorme la ren­dita immo­bi­liare: quella cioè deri­vante dall’incremento di valore deri­vante dal pas­sag­gio dall’utilizzazione agri­cola dei suoli a quella edi­li­zia. A Vene­zia, invece, l’interesse degli ope­ra­tori eco­no­mici si è rivolto soprat­tutto ai van­taggi che pote­vano otte­nere dalle ren­dite deri­vanti da gigan­te­schi incre­menti degli flussi turi­stici. Anzi­ché ado­pe­rarsi nel com­pito, dif­fi­cile ma indi­spen­sa­bile, di gover­nare i flussi turi­stici, ci si è impe­gnati ad aumen­tarli senza tre­gua, con­si­de­rando un grave danno per la città ogni ridu­zione quan­ti­ta­tiva delle pre­senze turistiche.

Ogni cosa è in vendita

Sem­pre più i poteri pub­blici hanno pri­vi­le­giato l’uso della città come «vetrina» capace di attrarre com­pra­tori di qual­cosa che della città fosse un emblema o un bran­dello: per i più poveri di denaro e di tempo, una coca-cola e uno scatto foto­gra­fico, per i più ric­chi e potenti un palazzo antico o una torre moder­ni­stica. Tra i com­pra­tori più ambiti, quelli che pote­vano a loro volta accre­scere il valore della «merce Vene­zia» pro­muo­vendo a sua volta l’attrattiva che la città eser­ci­tava verso i poten­ziali com­pra­tori. E sem­pre più i poteri pub­blici si sono asser­viti ai com­pra­tori della città.

Il pro­cesso è ini­ziato con la giunta gui­data da Mas­simo Cac­ciari nel 1990, quando sono state can­cel­late le regole che avreb­bero con­sen­tito di osta­co­lare i cambi di desti­na­zione d’uso dalla resi­denza alle altre uti­liz­za­zioni. Esso è pro­se­guito con rin­no­vata lena negli anni suc­ces­sivi, non solo rin­cor­rendo quei «mece­nati» che appa­ri­vano già dispo­ni­bili a com­prare (i Benet­ton e i Car­din, i Trus­sardi e i Vuit­ton), ma anche cedendo a essi — e ai loro agenti — quote cre­scenti di potere. Stelle fisse più splen­denti nella costel­la­zione dei poteri extrai­sti­tu­zio­nali che gui­dano le tra­sfor­ma­zioni della città sono il Con­sor­zio Vene­zia Nuova, l’Autorità por­tuale, la Save, pro­prie­ta­ria pri­vata degli aero­porti di Vene­zia e Tre­viso, la poten­tis­sima Fon­da­zione Vene­zia della Cassa di rispar­mio, e l’associazione Vene­zia 2000, erede uffi­ciale della stra­te­gia avviata dai pro­mo­tori dell’Expo 2000.

Gli effetti di que­sta gestione della città non hanno tar­dato a mani­fe­starsi. Essi sono avver­ti­bili nella vita quo­ti­diana: l’impossibilità di tro­vare alloggi in affitto a un prezzo ragio­ne­vole, la scom­parsa dei ser­vizi per la vita quo­ti­diana, il degrado fisico della città pro­vo­cato dalle orde di turi­sti che la inva­dono per poche ore, la ridu­zione degli spazi e dei ser­vizi pub­blici deri­vante sia dall’aumento di quelli occu­pati dal turi­smo sia dalla pro­gres­siva sven­dita degli immo­bili di pro­prietà pub­blica per favo­rire ulte­rior­mente la «voca­zione turi­stica» della città.

Ma altret­tanto gravi sono gli effetti visti da quanti, vene­ziani o non vene­ziani, con­si­de­rano Vene­zia e la sua Laguna un patri­mo­nio dell’umanità e hanno com­preso pie­na­mente in che cosa que­sto par­ti­co­lare patri­mo­nio con­si­ste: nella piena siner­gia tra lo spon­ta­neo e l’artificiale, tra la natura e la sto­ria, tra gli spazi e gli edi­fici che ne costi­tui­scono la parte più com­piu­ta­mente arte­fatta e la mute­vole comu­nità che la abita e vi lavora. È sin­go­lare il fatto che così pochi, nel mondo e in Ita­lia (e per­fino a Vene­zia) abbiano com­preso l’assoluta sin­go­la­rità di quella laguna: l’unica al mondo restata tale dopo un mil­len­nio di tra­sfor­ma­zioni ope­rate dall’uomo. Se lo si fosse com­preso nes­suno avrebbe tol­le­rato il carat­tere distrut­tivo dell’ingresso in Laguna di quei mostruosi edi­fici semo­venti, causa non solo di un danno este­tico, né solo di un rischio di cata­strofe, ma attori di un quo­ti­diana degra­da­zione dei pre­cari equi­li­bri tra terra e acqua, argilla e limo, vege­ta­zioni e fauna in assenza dei quali ogni laguna si tra­sforma in uno sta­gno o in un brac­cio di mare.

Le Grandi navi un effetto posi­tivo tut­ta­via l’hanno avuto. Hanno pro­vo­cato il nascere di un’opposizione popo­lare che è riu­scita a coa­gu­lare in un unico fronte, ancora varie­gato e ricco di con­trad­di­zioni, quanti si bat­tono per un futuro diverso da quello minac­ciato dai nuovi padroni della città, age­vo­lati dalla com­pli­cità delle isti­tu­zioni cit­ta­dine. Allo stato degli atti, nello sfal­da­mento delle isti­tu­zioni e del sistema dei par­titi, l’unica spe­ranza risiede nei movi­menti di pro­te­sta che il disfa­ci­mento della città e della società provoca.

Ma non c’è molto tempo. Già si annun­cia un nuovo evento: la pro­po­sta di fare di Vene­zia la Porta dell’Expo 2015, che si svol­gerà a Milano. Il cer­chio si chiude. Il tren­ten­nio vene­ziano si con­clude come era ini­ziato. Scon­giu­rato trent’anni fa il rischio di una expo tutta vene­ziana, oggi Vene­zia diventa la luc­ci­cante vetrina e la sere­nis­sima hall dell’expo mila­nese. E tutto si tiene. Le masse di turi­sti sca­ri­cati con le Grandi Navi in quello che fu la Laguna riem­pi­ranno di dol­lari, yuan e rubli le aziende con sede in Vene­zia che sapranno inter­cet­tarli, e andranno a Milano, aumen­te­ranno i treni veloci tra Vene­zia e Milano e dimi­nui­ranno (la coperta è stretta) quelli per i pen­do­lari. L’occasione sarà pro­pi­zia per rilan­ciare il pro­getto della metro­po­li­tana Lagu­nare dal Lido all’Arsenale a Tes­sera, per pri­va­tiz­zare il com­plesso dema­niale dell’Arsenale, e ven­dere altri pezzi di città al migliore offerente.

(il manifesto, 19 febbraio 2014)

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Direttore, per sempre

Un mese dopo, Claudio Abbado (Milano, 26 giugno 1933 – Bologna, 20 gennaio 2014) vorrei salutarlo, ma non con parole, con la sua direzione.

Gustav Mahler (1858-1905), Sinfonia n.5, Adagietto. Sehr langsam:

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