W gli alpini

In queste ore gli alpini stanno invadendo Pordenone. Con loro molti altri cittadini arriveranno da ogni parte d’Italia e anche da fuori per l’annuale adunata. Sono previste 350mila presenze. E in qualche modo ci sarò anch’io.

Feci la naja alpina negli anni 1972-73, quindici mesi nella Brigata Julia, 8° Reggimento, Battaglione Gemona (motto “Mai daûr”), 69a compagnia (“La Fulmine”). Stetti a L’Aquila (per ben sei mesi), a Gemona e Venzone (entrambe per quaranta giorni, tre anni prima del terremoto del 1976), ma soprattutto a Pontebba. Sciai (si fa per dire) sul Pramollo quando non era ancora attrezzato. Facemmo il lungo campo estivo tra Forni di Sopra e il Passo Mauria, dove vidi passare Battaglin davanti a Fuente, Gimondi e Merckx (che era naturalmente in maglia rosa), all’ultima tappa Auronzo-Trieste del Giro 1973. Oggi le caserme frequentate sono state abbattute o in via di abbattimento. Il Battaglion Gemona (nappina bianca) non c’è più. Esiste solo il Tolmezzo, che ha assorbito anche la mia vecchia compagnia.

Non avevo certo scelto io il corpo militare, ma essendo di Sesto al Reghena, cioè un friulano, era quasi fatale finire tra gli alpini. Come mio zio Emilio (“Milio”, 1908-1983), che era contento perché ero del Gemona come lui. Come mio padre Angelo (“Gin”, 1922-1998), che da artigliere di montagna del 3° Reggimento, Gruppo Conegliano, 14a batteria, fece la campagna di Russia, riportando a casa la pelle.

Così da bambino andavo anche alle adunate locali con mio padre che mi aveva preparato un cappello su misura. Così dopo cena spesso si cantava le canzoni alpine in trio – perché anche le sorelle hanno avuto il loro ruolo. E un momento importante fu quando, tornando a casa da scuola (avevo appena cominciato le medie a San Vito al Tagliamento), mia madre mi disse che mio padre non c’era, era andato via, a Longarone con gli alpini, perché era successo un disastro di morti per il crollo di una diga. Era il 10 ottobre 1963, un giovedì. Non ricordo quanto tempo mio padre, un contadino con la sua stalla quotidiana, sia rimasto via, ma ricordo che raccontò poche cose di quanto aveva visto. Disse solo che gli alpini lì erano indispensabili.

Per la verità, fosse dipeso da me, non avrei neanche fatto il militare: ero figlio del Sessantotto più che di una famiglia di alpini. Non ero però un obiettore di coscienza. Concepivo l’uso delle armi, per difendersi o per resistere, per combattere la tirannia e l’ingiustizia dell’imperialismo da parte di popoli oppressi. Non ero un pacifista inteso come un assoluto ‘non violento’, un gandhiano. Invece odiavo l’ottusità della retorica militare e il falso spirito di servizio, che servivano solo a giustificare le nefandezze dei comandi, politici e militari, nelle guerre coloniali e mondiali. E così, anche dopo la naja che feci da soldato semplice in una compagnia d’assalto, mi sono tenuto lontano dall’ideologia degli alpini, un impasto organizzato nel tempo attraverso uno strumento fondamentale come l’Associazione Nazionale Alpini (ANA) e cementato attentamente scegliendo solo dai comportamenti virtuosi e diventato un vero e proprio mito, ma totalmente vuoto di senso storico e critico su tutte le vicende reali.

Poi nel tempo ho letto anche i libri sugli alpini, particolarmente le memorie sul fronte russo, apprezzando soprattutto Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, due militari di carriera che dopo la campagna di Russia hanno detto no a quelli della Repubblica di Salò, finendo il primo in prigione in Germania ed il secondo tra i partigiani in montagna e diventando poi due veri scrittori. Mentre Giulio Bedeschi, che fu anche repubblichino, ha avuto un successo enorme, ma si è caratterizzato proprio per aver contribuito ad edificare il mito degli alpini ed in particolare della Julia. Ma non voglio affrontare qui un impegnativo capitolo su questa grande memorialistica.

Ai funerali di mio padre il saluto degli alpini della nostra zona fu, come sempre, forte. E ancora in Abbazia, dopo il coro che intonò “Signore delle cime” di Bepi de Marzi, il suo commilitone di Russia, l’allora sottotenente Arrigo Cozzi, poi per tutti noi sestensi semplicemente il maestro Cozzi, ebbe poche ma efficaci parole per ricordarlo. Ve le risparmio, ma io gliene sono ancor oggi grato. Senza mio padre presente, era fatale che mi iscrivessi anch’io alla sezione ANA di Sesto. Purtroppo senza mantenere la continuità e la disciplina dovute, passando solo a salutare qualche alpino andato avanti o a presenziare a qualche importante commemorazione. Ma insomma, in questi anni ed in qualche modo, mi sono riconciliato con una parte del pensiero degli alpini.

Già, una parte, perché è un fatto reale che gli alpini sono sempre stati reclutati soprattutto tra i contadini, di montagna e di pianura, e che una parte determinante del loro spirito è la concezione del mondo della civiltà contadina, fondata sulla solidarietà, sul rispetto della vita e della natura e sul senso della misura. L’altra parte, il senso della gerarchia e della disciplina, la fedeltà cieca e acritica, pur dopo l’assurda esperienza della Grande Guerra, sono stati imposti dall’ideologia dello stato italiano, prima durante il fascismo e poi durante il trentennio democristiano. E questa è l’ambivalente ideologia degli alpini. Sono due parti che non possono convivere, ma che nell’immaginario sociale finora sono riusciti a tenere in qualche modo unite. Almeno così sembra.

Ma oggi non c’è più bisogno di difendere a tutti i costi i comportamenti di tutti i protagonisti storici, dei vertici militari come della truppa. I momenti di eroismo individuale e collettivo, lo spirito di sacrificio e la grande dignità dimostrata nelle peggiori tragedie militari non possono oscurare la realtà delle guerre di aggressione, i gravi danni portati alle popolazioni civili, per continuare a dire che gli alpini hanno sempre e soltanto servito la patria e difeso l’onore dell’esercito italiano.

Oggi ci sono le condizioni per far valere di più la componente contadina su quella militare. Basta volerlo. Lo stesso Statuto dell’ANA all’Art.2 (Scopi) si propone, tra l’altro, di:

d) promuovere e favorire lo studio dei problemi della montagna e del rispetto dell’ambiente naturale, anche ai fini della formazione spirituale e intellettuale delle nuove generazioni;
e) promuovere e concorrere in attività di volontariato e Protezione Civile, (…).

In questo senso, nell’educazione al rispetto dell’ambiente e nella solidarietà civile, gli alpini oggi mi piacciono più di una volta. Mentre mi è sempre piaciuta la loro “misura”, simbolizzata dalla marcia trentatré e dal canto corale sempre contenuto, anche se spesso terribilmente straziante.

Solo su una cosa non sono misurati gli alpini: col vino. Ma per questo mi sono sempre stati simpatici e – pur con attenzione – andrò all’adunata.

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