Gli Stati Uniti non sono più un paese affidabile

Siamo in tempi difficili come non ho mai ho vissuto. Ogni giorni succede qualcosa che andrebbe riportato, pensato, commentato. E i testi interessanti non mancano mai, ma non sono possibili in questo misero spazio, letto da sette persone ogni trimestre. Ma devo rompere gli indugi con testi come questo dell’economista francese Thomas Piketty. Col grassetto lo divido in due parti, sul presente mondiale e sul necessario futuro dell’Europa. E mi permetto le solite evidenziazioni.

Gli Stati Uniti hanno perso il controllo del mondo
di Thomas Piketty

Gli Stati Uniti non sono più un paese affidabile. Per alcuni non è una novità. La guerra in Iraq nel 2003 – con più di centomila morti, la destabilizzazione della regione e il ritorno dell’influenza russa – aveva già mostrato al mondo le conseguenze dannose della tracotanza militare statunitense. Ma la crisi attuale è inedita, perché chiama in causa il cuore stesso della potenza economica, finanziaria e politica del paese, che sembra disorientato, governato da un leader instabile e imprevedibile, senza alcun contrappeso in grado di ristabilire la democrazia.

Per ragionare su quello che succederà in futuro, bisogna rendersi conto della portata della svolta in corso. Se i trumpiani stanno portando avanti una politica così brutale e disperata è perché non sanno come reagire all’indebolimento economico del loro paese. A parità di potere d’acquisto, cioè in termini di volume reale di beni, servizi e macchinari prodotti ogni anno, il pil della Cina nel 2016 ha superato quello degli Stati Uniti. Oggi lo supera del 30 per cento e raggiungerà il doppio del pil statunitense entro il 2035. La realtà è che gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo del mondo.

E, cosa ancor più grave, l’accumulo dei deficit commerciali ha portato il debito estero pubblico e privato del paese a un livello senza precedenti (il 70 per cento del pil nel 2025). La risalita dei tassi d’interesse potrebbe portare gli Stati Uniti a dover versare al resto del mondo somme notevoli, cosa che finora avevano evitato grazie al loro controllo sul sistema finanziario mondiale. È per questo che gli economisti trumpiani hanno proposto di tassare gli interessi che i possessori stranieri di titoli statunitensi dovrebbero versare. In modo ancor più diretto, Trump vuole riportare a galla il paese appropriandosi dei minerali ucraini, della Groenlandia e di Panamá.

Da un punto di vista storico l’enorme deficit commerciale statunitense (fra il 3 e il 4 per cento del pil in media ogni anno, dal 1995 al 2025) ha un solo precedente per un’economia di queste dimensioni: equivale più o meno a quello delle principali potenze coloniali europee (Regno Unito, Francia, Germania, Paesi Bassi) tra il 1880 e il 1914. La differenza è che questi paesi possedevano enormi risorse esterne.

Trump, in fin dei conti, non è che un leader coloniale impotente. Come l’Europa del passato, vorrebbe che la pax americana fosse ripagata da contributi versati dal resto del mondo, per finanziare il suo deficit. Il problema è che Washington è già in declino, e che l’epoca attuale non si presta a questo colonialismo senza freni. Perso nella nostalgia, Trump ignora il fatto che gli Stati Uniti nel 1945 hanno imposto una frattura con l’ordine coloniale europeo e realizzato un altro modello di sviluppo, fondato sull’ideale democratico e su un vantaggio educativo sul resto del mondo. Così il presidente degli Stati Uniti indebolisce il prestigio politico sul quale il suo paese ha costruito la leadership.

Cosa fare di fronte a questo tracollo? In primo luogo, rivolgersi ai paesi del sud e proporre un nuovo multilateralismo sociale e ambientalista. L’Europa deve anche promuovere una riforma del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, uscendo così dall’attuale sistema basato sulla ricchezza e dando spazio a paesi come il Brasile, l’India e il Sudafrica. Se continuerà ad allearsi con gli Stati Uniti per bloccare questo processo irreversibile, allora i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) costruiranno un’architettura internazionale parallela sotto la tutela di Pechino e Mosca.

Inoltre l’Europa ha sbagliato nel 2024 a opporsi alla proposta di giustizia fiscale promossa dal Brasile al G20, votando contro l’introduzione alle Nazioni Unite di una convenzione quadro sulla fiscalità equa, anche stavolta insieme agli Stati Uniti, il tutto per mantenere il monopolio dell’Ocse e del club dei paesi ricchi su questi temi, considerati troppo importanti per essere lasciati ai poveri.

Bruxelles deve infine riconoscere il suo ruolo negli squilibri commerciali mondiali. È facile criticare la Cina che, come hanno fatto gli occidentali prima di lei, abusa del suo potere per sottopagare le materie prime e inondare il mondo di prodotti manifatturieri. Ma il fatto è che l’Europa ha una scarsa domanda e investe poco sul suo territorio. Tra il 2014 e il 2024 la bilancia commerciale di beni e servizi degli Stati Uniti ha registrato un deficit annuale medio di circa 800 miliardi di dollari (705 miliardi di euro). Nello stesso periodo l’Europa ha realizzato un surplus medio di 350 miliardi di dollari, quasi quanto la Cina, il Giappone, la Corea e Taiwan messi insieme (450 miliardi). Ci vorrà molto di più dello stimolo fiscale-militare tedesco o della tassa sui combustibili fossili prodotti all’esterno dell’Unione perché l’Europa contribuisca finalmente a promuovere un modello più giusto di sviluppo economico, sociale ed ecologico. ◆ fdl

Questo articolo è uscito su Le Monde.

(Internazionale, 18/24 aprile 2025 • Numero 1610)

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Il costume degl’italiani

    Questo testo ha duecento anni, ma per me è attualissimo e vorrei mantenerlo in vista per un po’. (Ovviamente, spaziatura e grassetto sono miei.)
Primieramente dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando massimamente a proporzion degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. (…) Secondariamente, e questa è cosa molto osservabile, come l’opinion pubblica, così la vita non ha in Italia non solo sostanza e verità alcuna, che questa non l’ha neppure altrove, ma né anche apparenza, per cui ella possa essere considerata come importante. (…) Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente.

Ma lasciando questo e restringendoci alla sola mancanza di società, certo è che uno de’ grandissimi e principali mezzi che restano oggi agli uomini per non avvedersi affatto della nullità delle cose loro, o per non sentirla, benché conoscendola, per non essere nella pratica persuasi della total frivolezza delle loro occupazioni qualunque e della totale indegnità della vita ad esser con fatiche e con sollecitudini coltivata, studiata ed esercitata, uno, dico, de’ principali mezzi e forse il principale assolutamente, è la società.

Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani (1824)

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La guerra dei trent’anni (e oltre)

    La situazione peggiora di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno. Siamo dentro la guerra e dobbiamo esserne consapevoli. Per cambiare il trend non bastano le battute, le prese di distanza, le preghiere mattutine, ignorare i mass media (tv in primis, ma non solo). Qui, Paolo Favilli ci spiega che non è neanche una serie di eventi iniziati da poco. Cerchiamo di capirli meglio.


La «guerra mondiale»

Trent’anni di conflitto armato a pezzi

di Paolo Favilli

«È una gran cosa essere capaci di vedere ciò che è sotto il proprio naso. Di solito non lo facciamo, ma è un grande talento da coltivare». Si tratta di un’affermazione espressa nell’immediato dopoguerra dal grande saggista Dwight Macdonald, ripresa poi da Noam Chomsky nel suo Le conseguenze del capitalismo del 2021. Per comprendere la «guerra mondiale a pezzi» che si sta svolgendo sotto il nostro naso bisogna cercare di vedere quello che sotto il nostro naso era già evidente agli inizi degli anni Novanta del Novecento.

Zbigniew Brzezinski, nel 1993 (Il mondo fuori controllo) e poi soprattutto nel 1997 (La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana), aveva costruito il quadro teorico entro il quale doveva muoversi, in maniera articolata, tutta l’immensa forza di cui disponeva la potenza vincitrice della guerra fredda. Il nuovo ordine mondiale, il modo in cui la globalizzazione doveva essere governata, non sarebbero stati il frutto della naturale espansione del libero mercato, bensì di una realtà da plasmare in maniera tale che l’affermazione del Washington consensus potesse svolgersi in piena sicurezza.

Per plasmare il nuovo ordine mondiale occorreva una politica internazionale che non si limitasse alla difesa di uno statu quo, che pure era il risultato di una vittoria epocale sull’Urss, il nemico storico del Novecento. Occorreva una politica costante di intervento in tutte quelle aree del mondo in cui il momento unipolare potesse essere messo in pericolo dal sorgere di attori competitivi. In questa visione ogni area del mondo è considerata solo per la sua funzione geostrategica sul piano di una scacchiera nella quale il primum movens dei pezzi rimane il mantenimento dell’American Superpower. Persino la vecchia Europa appare sulla scacchiera come «l’essenziale testa di ponte geopolitica dell’America» (A Geostrategy for Eurasia, «Foreign Affairs», September 1, 1997). E l’Ucraina come territorio da sottrarre in ogni modo ai residui di influenza russa.

Tale sistematica «teorica» si è successivamente articolata in numerosi elaborati di ogni livello prodotti da centri studi e da centri operativi statunitensi. Una ricca documentazione del tutto sotto il nostro naso. E si è articolata, soprattutto, nella guerra continua che, a partire dai bombardamenti Nato di quella che era, seppure in dimensioni ridotte, ancora la repubblica Federale di Jugoslavia, ha progressivamente interessato tutte le aree dell’intervento attivo indicato da Brzezinski.

Questo insieme di relazioni, che è davvero sotto il nostro naso, ha nella guerra il suo principio dinamico. Nell’esercizio teorizzato e praticato della guerra confluiscono tutti gli aspetti contraddittori dei modi di accumulazione caratterizzanti le diverse forme di capitalismo che si confrontano. Gli imperialismi conflittuali di oggi si manifestano in forma assai diversa rispetto a quella considerata come l’età classica dell’Imperialismo. Necessario dunque operare per distinzioni, avendo ben presente, però, che la meccanica della centralizzazione del capitale accomuna nel profondo tanto la belle époque, che l’età, da poco alle spalle, dell’euforia globalizzante. A ognuna il suo 1914?

Meccanica della centralizzazione e meccanica della competizione sono elementi strutturalmente compenetrati nel «nuovo conflitto imperialista», come recita il sottotitotolo di La guerra capitalista, (Brancaccio, Giammetti, Lucarelli, 2022): un «libro da leggere» (copyright Piergiorgio Bellocchio, «Quaderni Piacentini»).

I pezzi della guerra mondiale in atto, se lasciati alle loro dinamiche naturali, hanno possibilità di saldarsi tutt’altro che esigue. Perciò la realtà intrisa di bellicismo così pervasiva nel momento attuale, è la questione del nostro tempo. La stessa questione sociale, così dipendente dai rapporti di dominio che la guerra ridefinisce continuamente, deve esserne pensata come aspetto.

L’orrore che ci sovrasta non può essere combattutto solo con posizioni ireniche, che pure sono ammirevoli e indispensabili. In Italia, in questo momento, si sta discutendo della presentazione alle prossime elezioni europee di una lista non tanto pacifista, bensì contro la guerra. Il che significa contro le ragioni della guerra. È essenziale che l’iniziativa in corso abbia esiti positivi. È anche il modo di rifiutare l’immagine dell’Occidente che la retorica bellicista imperante agita come condizione necessaria per la vittoria. Il nostro Occidente non è quello di Pizarro e di Cortés così intrinseco al sistema teorico di Brzezinski, ma quello fecondo di umanismo e giustizia evocato da Erasmo da Rotterdam.

il Manifesto, 9 febbraio 2024

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Il problema adesso è nostro

Il 24 febbraio 2022 è cominciata una nuova guerra in Europa, cioè mondiale. Spero di capirci qualcosa di più di quanto si può fare guardando la tv.

Ucraina: la frontiera fragile tra noi e l’orrore
di Paolo Rumiz
Due popoli imparentati tra loro a milioni. Oggi c’è un’invasione, l’Europa è in allarme. Ma è dal ’14 che l’Ucraina è in guerra: dov’era la politica in questi otto anni? Oggi per la prima volta dal ’45 la guerra non è più una cosa che riguarda gli altri.
Come soffia il vento sulla mia frontiera. Vento gelido di Nordest. Passa sulle trincee della Grande guerra, fischia nei rottami delle garitte jugoslave sull’ex cortina di ferro, si infila nelle fessure, toglie il sonno. Viene da lontano. Sa di steppe e di neve. Porta profughi a migliaia, ci frusta il viso. Ci avverte che ogni diaframma è saltato tra noi e gli spazi sterminati che hanno inghiottito le armate di Hitler e Napoleone. C’è un’invasione, l’Europa è in allarme. Ma è dal ’14 che l’Ucraina è in guerra. Dov’era la politica in questi otto anni? Pensava ad altro: ai rifugiati, al Covid. E noi per anni abbiamo vissuto di emergenze in una sequenza monotematica che ignorava il resto del mondo. Ora c’è l’Ucraina, e anche l’Ucraina cancella tutto il resto fino a quando un nuovo allarme mondiale la sostituirà. La pandemia continua, ma non è più un tema. Avanti così, in una rete di amnesie che ci espone a bruschi risvegli.
Oggi dal silenzio dell’indifferenza siamo precipitati nel frastuono delle “Breaking news” che alzano il livello dell’ansia ma non aiutano a capire. Per otto anni abbiamo dormito, come i governanti che nel 1914 hanno dato il via al massacro mondiale in uno stato di ebete sonnambulismo. Ciechi e muti, come a Srebrenica, dove eravamo complici. Oggi c’era dalla nostra un leader finalmente presentabile come Zelensky, ma non abbiamo colto l’occasione, e ora ne subiamo le conseguenze. Ci muoviamo ancora in ordine sparso, uniti solo da un’isteria maccartista da analfabeti contro un grande popolo vittima di un autocrate. Questo, mentre le badanti russe e ucraine in Italia pregano per la pace nelle stesse chiese, leggono insieme Dostoevskij e insieme cantano nella cripta di San Nicola a Bari. Sanno che i loro due popoli, un po’ come Miroslav Krleža disse con autoironia di Serbi e Croati, sono «lo stesso letame diviso in due dal carro della storia».
Ora parlano i kalashnikov. Un giovane musicista ucraino posta su whatsapp la foto di un lanciagranate puntato sulla strada da una finestra e scrive: «Avevo comprato una tromba per far musica, ma Dio ha deciso diversamente e mi ha regalato questo meraviglioso strumento che mi dice: “Forza, suonami!”. E io lo sto suonando». Maksim, chiamiamolo così, ha lavorato nell’orchestra sinfonica europea alla quale ho prestato la voce narrante. Gli abbiamo scritto: «lascia stare Dio, che non c’entra. È da irresponsabili mettere in mano a un civile uno strumento simile. La guerra falla fare ai soldati. La tua battaglia è in musica, per il tuo Paese e per l’Europa». Risposta: «La guerra non è stata una mia scelta. Io volevo suonare, ero pronto a partire per dei festival. Ora non posso fare altro che combattere per la patria o morire. Pregate per la mia terra».
Anche nel più mite degli ucraini si agita un cosacco, e Maksim ci ricorda che è tardi per la politica e la diplomazia; che non è più il tempo dei distinguo, perché la guerra disattiva la dialettica e il pensiero complesso. Non serve dirgli che nei tank che assediano la sua città vi sono giovani di vent’anni che soffrono a eseguire gli ordini, perché Russi e Ucraini sono, a milioni, imparentati fra loro. Inefficace farlo ragionare sul fatto che la sua scelta renderà più pesanti le perdite fra i civili. Inutile farlo riflettere che questa è una strana invasione, se lascia aperti dei confini, non tocca le reti telefoniche e consente a dei treni di andare. O che tra le forze ucraine vi sono formazioni come il Battaglione Azov, noto per le torture ai civili russi nel Donbass. Miserabili sfumature, di fronte all’enormità di un’aggressione.
Dalla mia casa di campagna vedo passare gli ucraini in fuga che accogliamo a braccia aperte e, a poca distanza, nei boschi, i poveri cristi da Siria e Afghanistan che nessuno vuole. Nella corrente alternata della solidarietà, i secondi non sono più di moda. Peggio: aiutarli è ancora un crimine, secondo la legge Salvini che il nuovo governo non ha mai abrogato. I loro paesi li abbiamo bombardati anche noi, ma puniamo egualmente questi migranti con un’avversità razziale che non ci rende così diversi da Polacchi e Ungheresi. Li lasciamo morire di gelo sulla frontiera bielorussa o marcire nei gulag turchi, greci, bulgari. Cinque milioni di profughi che non vogliamo vedere perché non sono biondi e non hanno gli occhi chiari.
La mia frontiera è un sismografo che registra ogni scossa anche a migliaia di chilometri. Da quando sono nato, non ho fatto che veder genti in fuga da guerre, pulizie etniche o carestie. Istriani, Dalmati, dissidenti Jugoslavi, Curdi, Bosniaci, Iracheni, Afghani, Siriani e ogni genere di popoli africani. Una processione dolente, interminabile, che continua ad arrivare da Est o da Sudest per confluire nello stesso punto. Una sola cosa non avevo mai visto: che su questa linea ci fosse chi ha diritto alla vita e chi può anche crepare. Tu sì, tu no. Due file, come ad Auschwitz. Difficile dormirci sopra.
Vado a far legna nel bosco per… non finanziare la Gazprom. Un modo vigliacco per nascondermi, non pensare al tramonto dell’Europa e sfuggire alla vergogna. O per sparire da questo mondo ipercontrollato dove la libertà è morta e la pietà pure. Fa freddo e la stufa inghiotte intere cataste. Intanto, la macchina delle armi va avanti lo stesso. Da decenni finanziamo il riarmo di Putin comprando il suo gas e, pur di avere il culo al caldo, abdichiamo dai principi fondativi della nostra democrazia. Cecenia? Anna Politkovskaja? Tutto dimenticato. Meglio sorseggiare aperitivi, guardare Netflix e intanto delegare alla sola America la nostra difesa, senza integrare il pensiero atlantico con una visione mediterranea. Eppure mai come ora è tempo di esportare la democrazia in un altro modo, senza erodere gli spazi cuscinetto fra noi e la Russia e senza far danni irrimediabili come a Kabul, dove siamo stati cacciati a pedate da un’orda di guerrieri scalzi.
Ero a Leopoli nell’inverno del 2014, durante la rivolta di piazza Maidan a Kiev. Fu subito chiaro che il popolo non si era sollevato contro i Russi, ma contro i corrotti. Una rivolta civica, nata dalla nausea per gli eccessi di un governo di ladri. In piazza Maidan la fertile Ucraina, granaio d’Europa, si chiedeva le ragioni della sua povertà e le trovava nella corruzione della cleptocrazia post-comunista. Ma appena il governo fantoccio del Cremlino è caduto a furor di popolo, la nomenclatura, con la tipica, collaudata giravolta che s’era già vista in Jugoslavia o con la caduta di Ceausescu in Romania, ha ordinato ai servizi segreti di trasformare la rabbia politica in uno scontro etnico, per non pagare il conto del suo fallimento. Ammazzatevi fra voi, idioti, invece di discutere il potere.
L’Ucraina è lontana da Washington. L’Europa occidentale no, non può permettersi di ignorarlo. L’Ucraina è Europa. Per certi aspetti ne è il baricentro. «Ucraina vuol dire frontiera, terra di mezzo», mi ricordò già nel 2008 in una stazione fra Leopoli e Odessa uno studente di medicina. Detestava Putin, ma aggiunse: «Se il mio Paese smette di essere ciò che è stato per secoli, cioè uno stato cuscinetto, per entrare in un’alleanza occidentale, succede il putiferio e Mosca interviene». Ripenso spesso a quell’incontro di quattordici anni fa, fatto in un viaggio per Repubblica. Chiunque ha un briciolo di memoria sa che la fascia di territorio fra i Balcani e il Baltico è anche una linea di faglia altamente infiammabile, una Blood Land, come l’ha definita Timothy Snyder, dove Est e Ovest non hanno ancora risolto le loro pretese imperiali e dove il fango ha inghiottito sessanta milioni di vite in una successione di tragedie lunga un secolo. Non possiamo consentire che si incendi ancora.
Oggi per la prima volta dal ’45 la guerra non è più una cosa che riguarda gli altri. Stavolta, più che con la guerra jugoslava, ci sfiora l’idea che potremmo diventare profughi anche noi. Sarebbe un peccato scoprire solo quando è tardi il sapore dolce della pace.
(la Repubblica, 12 marzo 2022)
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Il lavoro in Italia oggi

Riporto integralmente e da me solo evidenziato questa recensione del libro di Valentina Furlanetto, Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, Laterza, Roma-Bari 2021.

Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa : Furlanetto, Valentina: Amazon.it: Libri

Così lavorano gli italiani
di Daniela Barbieri
Una bracciante «morta di stanchezza» e un rider sfruttato all’inverosimile. Pensate a migranti irregolari, vero? Triste sorpresa: sono storie di italiani. Come scrive l’autrice: «di italiani costretti ad adattarsi al subappalto, al nero e all’assenza di diritti ce ne saranno sempre di più». Attenzione agli stereotipi: i buoni e i cattivi (fra nativi e stranieri) possono anche scambiarsi di ruolo. E «se la nostra società si basa su un’infrastruttura di stampo para-schiavistico, se il sistema è sotto gli occhi di tutti ed è accettato, non contrastato, tollerato allora nessuno è completamente innocente: né la politica, né i grandi sindacati, né le istituzioni, né le aziende, né i cittadini consumatori, né noi.
Neppure i migranti che spesso, una volta capito come funziona, diventano loro stessi caporali o sfruttatori dei connazionali». Un bel libro con 9 capitoli a raccontare gran parte dell’economia italiana, partendo da ciò che di solito viene taciuto: il sudore e il sangue di chi fatica. Andrew Daldani è un fattorino eppure lavora nell’industria della carne con una pistola «per stordire gli animali» (la solita falsa cooperativa). Elisabetta Cebotari e Lilia Bicec sono due badanti come Manuela («se mi servono soldi … mi prostituisco»). Le loro storie si intrecciano in parte con quelle di Antonio Esposito, Maurizio, Stefania Vezzali che a loro ricorrono per assistere parenti anziani.

I numeri? «Due milioni di badanti e lavoratrici domestiche in Italia producono 18,8 miliardi di valore aggiunto… di cui 7,7 da imputare ai regolari e 11,3 agli irregolari». Fra i costi umani c’è il mal di vivere da esilio e sfruttamento: «una sindrome Italia» da curare come grave depressione.

Chiameremo Josè il driver che lavora (ovviamente in subappalto) per Amazon. Ed è attraverso lui che l’autrice ci guida nella logistica italiana: «800mila addetti per circa 15mila imprese e 70 miliardi di fatturato».
Il 7 maggio 2020 l’italo-maliano Cheickna Hanal Diop viene licenziato per aver «denunciato pubblicamente le condizioni di lavoro ad altissimo rischio» durante il covid all’Istituto Palazzolo Don Gnocchi. Il quarto capitolo racconta “gli eroi” (in subappalto anche loro) dell’assistenza agli anziani che vengono cacciati se si occupano dei diritti… loro e dei pazienti, cioè di tutti.
Il settore pulizie vuol dire «600mila operatori, il 70% donne». Anche qui emerge come il lavoro sia semi-schiavistico. Può andare persino peggio: è il caso dei braccianti nell’Agro Pontino come racconta Kalu Singh: 10 ore al giorno per 600 euro al mese ma lui deve pagarne 250 per dormire in un container. Accade così in tutta Italia (con rare eccezioni) ed è il capitolo più lungo e impressionante.
Chi legge si sorprenderà forse scoprendo che in Italia esistono ancora gli spaccapietre (molti sono cinesi) e lavorano nelle stesse condizioni del Medioevo. Invece le grandi navi sembrano simbolo della modernità eppure nei cantieri regna lo stesso mix di subappalti e sfruttamento come per i ciclo-fattorini (circa 20mila) del cibo raccontati nell’ultimo capitolo.
Ogni storia consente di fare luce su alcuni settori lavorativi italiani esaminando somiglianze (molte) e differenze importanti – a esempio «il lavoro di cura» – con il resto d’Europa. Una volta i bravi giornalisti partivano da una storia o una persona per analizzare grandi questioni. Valentina Furlanetto riesce a farlo per 200 pagine senza banalizzare mai.
(Le Monde diplomatique il Manifesto, febbraio 2022)

 

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Gli Stati Uniti hanno perso il controllo del mondo

Piketty

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Come scongiurare il collasso ecologico

Riporto l’articolo di Paolo Cacciari pubblicato su il manifesto di oggi. E’ la maggior sintesi possibile e leggibile oggi sulle cause della crisi in corso.

Tre vie maestre per scongiurare il collasso ecologico
di Paolo Cacciari
Hanno ragione Guido Viale e Tonino Perna. Non c’è logica razionale che giustifichi le scelte delle imprese che operano nel girone infernale del “libero mercato”. Ho calcolato più volte che un elettrodomestico che duri più a lungo (circostanza del tutto realizzabile) farebbe bene ai lavoratori (meno ore di lavoro necessario a pari produttività), ai consumatori (meno spese), all’ambiente naturale (meno impiego di materie prime, meno energia, meno rifiuti) e pure agli imprenditori che potrebbero ottenere gli stessi profitti diminuendo i costi di produzione. E questo vale per tutti i settori produttivi di oggetti e servizi di largo consumo.
Perché allora le industrie non scelgono questa strada preferendo accelerare vertiginosamente il ciclo Denaro-Merce-Denaro? Perché, in realtà, non è l’industria a condurre le danze, ma la finanza. Perché non è il “giusto profitto” che viene cercato, ma il più alto e rapido Roi (Return On Investment), ovvero il tasso di rendimento dei capitali investiti. Per assurdo, questa logica non guida solo i finanziatori (fondi di investimento, gestori del risparmio, banche e strozzini di vario tipo), ma gli stessi amministratori delle imprese che vengono remunerati non in ragione dei risultati produttivi raggiunti, ma in azioni e bonus sul valore di borsa delle imprese.
Vale così anche per i governi degli stati strangolati dai debiti e costretti a cercare sul mercato del denaro sempre nuovi prestiti. Quindi, la prima azione necessaria per far rientrale l’economia in un sentiero di sostenibilità sarebbe quella di liberarla dalla morsa finanziaria. Tagliare gli artigli alle rendite parassitarie, inique e pericolose, come dimostrano le periodiche esplosioni di “bolle” e di crisi di solvibilità che finiscono per mandare a picco quelle imprese meno capitalizzate che operano fuori dai grandi circuiti oligopolistici transnazionali. Le soluzioni normative ci sarebbero tutte: ripubblicizzazione del credito, sovranità monetaria, politica fiscale.
Ma non basta. Per scongiurare il collasso ecologico servono altre due azioni. È necessario ridurre comunque e rapidamente il volume complessivo dei prelievi di materie prime. Ricordo che la produzione di oggetti ha superato le 30 Gigatonnellate all’anno, che è come se ogni persona impiegasse ogni settimana una quantità di cemento, metalli, legno, petrolio e altro pari al proprio peso corporeo (Global human-made mass exceeds all living Biomass, in Nature, vol. 588, 2020). Una follia che compromette gli equilibri ambientali e mette in pericolo lo stesso sviluppo economico, come dimostrano le conseguenze del cambiamento climatico e le stesse pandemie da zoonosi.
Occorre quindi bilanciare la riduzione dello sforzo produttivo della megamacchina industriale compensando la diminuzione del volume complessivo del tempo di lavoro impiegato con forme di attività più utili alla società (oltre che all’ambiente), più soddisfacenti per i lavoratori e le lavoratrici chiamati a svolgerle e comunque remunerate dignitosamente.
Anche qui le soluzioni ci sono tutte: diminuzione e redistribuzione degli orari di lavoro, introduzione di qualche forma di reddito di esistenza incondizionato, massiccia conversione delle attività economiche a favore di quelle a maggiore intensità di lavoro (vedi agroecologia, cura delle persone, manutenzioni, autoproduzioni, recupero dei beni non utilizzati…), messa a disposizione di mezzi di produzione anche a chi non ha capitali a disposizione.
Infine, il terzo e il più difficile cambiamento è di tipo culturale: comprendere che un pianeta rigenerato nei suoi cicli vitali non è solo più bello, ma è anche più ospitale, più sano, più ricco di opportunità, più piacevole da abitare. La “transizione ecologica” è liberazione da una condizione umana stressata e alienata e riconquista di una dimensione di vita piena, pulita, pacifica. Il rispetto della natura non richiede alcun sacrificio, alcuna rinuncia se non a quelle attività che ci fanno ammalare, a quei consumi che inquinano l’aria e le acque, a quelle “comodità” che ci instupidiscono e ci rendono pedine passive di interessi a noi estranei.
Pensiamoci bene; ci sono tre capitoli di spesa che il sistema economico dominante non riduce mai: le spese militari (il bastone), la pubblicità (la carota) e la farmaceutica (le pillole per farci credere di curare i mali della società).
(il manifesto, 21 dicembre 2021)

L’immagine è un olio su tela di 200x145cm di René Magritte, Le château des Pyrénées, 1959. Le sottolineature sono mie.

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“Dire la verità”

Ieri era il compleanno di Antonio Gramsci, Nino per i famigliari e gli amici. Nacque infatti ad Ales, nel cuore della Sardegna, il 22 gennaio 1891, centotrenta anni fa anni fa. In realtà ne visse molti meno, come sappiamo, perché morì a Roma il 27 aprile 1937, quando ne aveva quarantasei, dopo dieci anni e mezzo passati nelle carceri fasciste.

La sua vicenda umana e politica credo sia nota a chi inciampa su questo blog, quindi per ricordarlo – una cosa che faccio con immensa gratitudine – riporterò solo alcune sue parole che mi sembrano, tra le tante, degne di riflessione proprio in relazione ai nostri tristi tempi.

E’ opinione molto diffusa in alcuni ambienti (e questa diffusione è un segno della statura politica e culturale di questi ambienti) che sia essenziale nell’arte politica il mentire, il sapere astutamente nascondere le proprie vere opinioni e i veri fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che realmente si vuole ecc. ecc. L’opinione è tanto radicata e diffusa che a dire la verità non si è creduti. Gli italiani in genere sono all’estero ritenuti maestri nell’arte della simulazione e della dissimulazione , ecc. Ricordare l’aneddoto ebreo: «Dove vai?» domanda Isacco a Beniamino. «A Cracovia», risponde Beniamino. «Bugiardo che sei! Tu dici di andare a Cracovia perché io creda invece che tu vada a Lemberg; ma io so benissimo che vai a Cracovia: che bisogno c’è dunque di mentire?». In politica si potrà parlare di riservatezza, non di menzogna nel senso meschino che molti pensano: nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente.
(Quaderno 6,  § 19)
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Il fantasma del Pci


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Il 21 gennaio 1921, cent’anni fa, nacque il Partito Comunista Italiano (Pci)  e in queste settimane sono stati pubblicati molti interventi su giornali, riviste e libri, nonché sul web. Si racconta di un soggetto politico prodotto dalla scissione del Partito Socialista Italiano e che è stato ammazzato dal suo gruppo dirigente nel 1990 e nei decenni successivi definitivamente sepolto anche da chi per molti anni non si era rassegnato a riconoscerne la fine.

Le cose che vengono ripetute sono la scissione come elemento decisivo dell’avvento del fascismo e la dipendenza della frazione italiana dall’Internazionale comunista, cioè dai bolscevichi. Mentre le costanti di questa storia sarebbero state l’impossibilità di un simile partito a partecipare pienamente alla vita democratica del nostro paese e la sua incapacità a risolvere il legame con il regime sovietico. Ma in questo quadro apparentemente così chiaro, perchè dedicare trent’anni dopo tanto interesse ad un tale aborto della politica italiana?

Tutto questo lavoro su un fantasma? Pare proprio di sì. La politica italiana di oggi appare come la negazione dell’impegno storico di diverse organizzazioni politiche, più o meno grandi, ma tra queste il Pci è l’unico che appare come un fantasma che si aggira ancora tra noi.

Eppure non sembra proprio che qui ed ora ci sia il pericolo di una sua nuova materializzazione. Non ci sono proprio le condizioni. Quando avvenne la prima volta si chiamava Partito Comunista d’Italia e si era ancora nei primi anni del primo dopoguerra, la tragedia che aprì il Novecento. Poi il fantasma tornò a materializzarsi nel 1944, ancora nel pieno della seconda guerra mondiale e allora come Pci si definì anche “partito nuovo”. E per la verità fu proprio una forza che con lucida visione strategica contribuì alla stesura della Costituzione della Repubblica Italiana che ancora oggi ci permette e ci garantisce una vita politica democratica.

Eppoi tra le condizioni ci vorrebbe anche un leader, no? Il Pci ne ebbe tanti e ne voglio ricordare solo tre: Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Loro sono ancora assai presenti nel pensiero e nel dibattito politico, e non solo italiano. Loro sono fantasmi molto attivi.

E per individuare almeno un po’ la figura dell’intero fantasma del Pci riporto l’articolo che Luigi Pintor scrisse per il Manifesto del 21 gennaio  2001, vent’anni fa. Lettura come sempre ancora molto utile.

La storia non è finita, un fantasma ha tempi lunghi
di Luigi Pintor
Suppongo che non fosse facile decidere che cosa fare, nel 1921, avendo alle spalle la macelleria della guerra europea e di fronte la violenza incombente dei fascismi. Ma c’era in piedi, in un grande paese feudale, una rivoluzione di operai e contadini mai vista nella storia e così nacque anche un partito comunista italiano. Fu battezzato a Livorno ma era già nato a Torino. È un merito dei nostri antenati, anche se oggi è considerato un errore. Noi, nel nostro tempo, non riusciamo a fare nulla di equivalente.
Finirono rapidamente in prigione o in esilio, la borghesia italiana sa essere sbrigativa contro le classi subalterne in generale. E vent’anni dopo (ma anche prima) la classe dirigente ricomincerà a guerreggiare fino alla nota catastrofe. Da ragazzino, in quegli anni, ho conosciuto un anarchico padre di un compagno di scuola ma non un comunista. Ne sentivo parlare perché bruciavano chiese spagnole ma erano fantasmi, di cui oggi si celebra l’ottantesimo compleanno.
Sbucarono a un certo punto dal nulla (ossia dalle carceri, dall’esilio, dalla clandestinità) e si moltiplicarono alla luce del sole. Adesso avevano alle spalle le bandiere rosse di Stalingrado, che arriveranno fino alla porta di Brandeburgo, ma si moltiplicarono per virtù propria, per avere a lungo e tragicamente combattuto.
Non so dare un giudizio storico e politico corretto su una vicenda che ha dominato il secolo e coinvolto mezza umanità. Continuo a pensare che sia stato il più grande tentativo mai compiuto di rovesciare l’ordine sociale che ha sempre retto il mondo e non mi spiego che un’impresa simile sia finita come risucchiata da un buco nero, apparentemente senza residui.
Mi sento però in grado di dare un giudizio sicuro sulla liberazione e la rifondazione democratica del paese in cui viviamo. È in quel momento che i giovani di allora hanno incontrato i comunisti e l’antifascismo in generale, quello operaio e popolare in primo luogo. Nel bene e nel male, come sempre, ma nel bene in misura di gran lunga maggiore. Tuttavia, è proprio contro questo esito felice che l’anticomunismo (non il revisionismo, ma l’anticomunismo come maschera della reazione) ha compiuto la sua opera devastante.
Avere reciso questa radice, questa particolarità della storia nazionale, è la colpa imperdonabile dei nipotini e bisnipotini del 1921. È la causa dello snervamento, dello smarrimento, dell’anonimato della sinistra di oggi, ciò che le impedisce di prospettare o anche solo di desiderare una società giusta: di essere un’autentica forza riformatrice e perciò rivoluzionaria.
Così oggi 1921 e 1945 sono numeri o poco più. Piccoli giornali e una limitata forza politica di opposizione ricordano il compleanno di un fantasma (come lo chiamano i giornali) mentre la sconfitta della sinistra vergognosa di sé bussa alla porta. Il comunismo è una parola, l’anticomunismo è l’insegna del potere. Il mondo sviluppato celebra i suoi fasti al plutonio e al latte sicuro, quello meno sviluppato è in via di estinzione. È il capitalismo globale, signori.
Ma chi può dirlo? Forse questo mondo non è unificato quanto piuttosto dimezzato e storpio. Forse il fantasma che centocinquant’anni fa si aggirava in Europa oggi si aggira nell’aria in attesa di planare da qualche parte. Ha tempi lunghi, tempi ideali, quelli della «futura umanità» che cantavano gli antenati.
(il manifesto, 21 gennaio 2001)
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Koala

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I primi giorni del 2020 sono presi da due notizie diverse ma entrambe di guerra: dall’inconcepibile attacco statunitense in Iraq con l’uccisione del generale iraniano Soleimani e le reazioni conseguenti e dagli incendi che devastano l’Australia e colpiscono foreste e animali. Commentare e giudicare entrambe queste situazioni non è possibile in questo blog e vedrò eventualmente come seguirle negli aspetti più chiari ed importanti per noi.

Ma oggi mi permetto di riportare solo alcuni versi di un poeta tedesco, Jan Wagner, nato nel 1971 ad Amburgo e vivente a Berlino, da poco pubblicati da Einaudi nella raccolta Variazione sul barile dell’acqua piovana. E’ una sorta di preghiera scritta qualche anno fa, ma che oggi suona come epitaffio. Bellissimo e amaro anche il riferimento al ciclista.

koalas

so viel schlaf in nur einem baum,
so viele kugeln aus fell
in all den astgabeln, eine boheme
der trägheit, die sich in den wipfeln hält und hält

und hält mit ein paar klettereisen
als krallen, nie gerühmte erstbesteiger
über den flötenden terrassen
von regenwald, zerzauste stoiker,

verlauste buddhas, zäher als das gift,
das in den blättern wächst, mit ihren watte-
ohren gegen lockungen gefeit
in einem winkelchen von welt: kein water-

loo für sie, kein gang nach canossa.
betrachte, präge sie dir ein, bevor es
zu spät ist – dieses sanfte knauser-
gesicht, die miene eines radrennfahrers

kurz vorm etappensieg, dem grund entrückt,
und doch zum greifen nah ihr abgelebtes
grau –, bevor ein jeder wieder gähnt, sich streckt,
versinkt in einem traum aus eukalyptus.

koala

ma quanto sonno in un albero solo,
quante sfere pelose nel groviglio
dei rami, una bohème
dell’inerzia, che sulla cima si tiene e si tiene

e si tiene con un paio di grappette
come artigli, pionieri mai celebrati
della scalata sulle flautanti terrazze
della foresta pluviale, stoici arruffati,

pulciosi budda, più tenaci dei veleni
nel fogliame, con le loro ovattate
orecchie a respingere seduzioni
nel margine del mondo: niente water –

loo per loro, nessuna andata a canossa.
guardali, imprimeteli bene in testa,
prima che sia troppo tardi – quel viso
sereno di un taccagno o di un ciclista

prima della vittoria di tappa, il loro grigio
stanco, discosto dal suolo ma al tatto
prossimo -, prima che si stirino e con uno sbadiglio
sprofondino in un sogno d’eucalipto.

(Da Jan Wagner, Variazioni sul barile dell’acqua piovana [2014], trad. it. di Federico Italiano, Einaudi, Torino 2019.)

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