Il 21 gennaio 1921, cent’anni fa, nacque il Partito Comunista Italiano (Pci) e in queste settimane sono stati pubblicati molti interventi su giornali, riviste e libri, nonché sul web. Si racconta di un soggetto politico prodotto dalla scissione del Partito Socialista Italiano e che è stato ammazzato dal suo gruppo dirigente nel 1990 e nei decenni successivi definitivamente sepolto anche da chi per molti anni non si era rassegnato a riconoscerne la fine.
Le cose che vengono ripetute sono la scissione come elemento decisivo dell’avvento del fascismo e la dipendenza della frazione italiana dall’Internazionale comunista, cioè dai bolscevichi. Mentre le costanti di questa storia sarebbero state l’impossibilità di un simile partito a partecipare pienamente alla vita democratica del nostro paese e la sua incapacità a risolvere il legame con il regime sovietico. Ma in questo quadro apparentemente così chiaro, perchè dedicare trent’anni dopo tanto interesse ad un tale aborto della politica italiana?
Tutto questo lavoro su un fantasma? Pare proprio di sì. La politica italiana di oggi appare come la negazione dell’impegno storico di diverse organizzazioni politiche, più o meno grandi, ma tra queste il Pci è l’unico che appare come un fantasma che si aggira ancora tra noi.
Eppure non sembra proprio che qui ed ora ci sia il pericolo di una sua nuova materializzazione. Non ci sono proprio le condizioni. Quando avvenne la prima volta si chiamava Partito Comunista d’Italia e si era ancora nei primi anni del primo dopoguerra, la tragedia che aprì il Novecento. Poi il fantasma tornò a materializzarsi nel 1944, ancora nel pieno della seconda guerra mondiale e allora come Pci si definì anche “partito nuovo”. E per la verità fu proprio una forza che con lucida visione strategica contribuì alla stesura della Costituzione della Repubblica Italiana che ancora oggi ci permette e ci garantisce una vita politica democratica.
Eppoi tra le condizioni ci vorrebbe anche un leader, no? Il Pci ne ebbe tanti e ne voglio ricordare solo tre: Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Loro sono ancora assai presenti nel pensiero e nel dibattito politico, e non solo italiano. Loro sono fantasmi molto attivi.
E per individuare almeno un po’ la figura dell’intero fantasma del Pci riporto l’articolo che Luigi Pintor scrisse per il Manifesto del 21 gennaio 2001, vent’anni fa. Lettura come sempre ancora molto utile.
La storia non è finita, un fantasma ha tempi lunghi
di Luigi Pintor
Suppongo che non fosse facile decidere che cosa fare, nel 1921, avendo alle spalle la macelleria della guerra europea e di fronte la violenza incombente dei fascismi. Ma c’era in piedi, in un grande paese feudale, una rivoluzione di operai e contadini mai vista nella storia e così nacque anche un partito comunista italiano. Fu battezzato a Livorno ma era già nato a Torino. È un merito dei nostri antenati, anche se oggi è considerato un errore. Noi, nel nostro tempo, non riusciamo a fare nulla di equivalente.
Finirono rapidamente in prigione o in esilio, la borghesia italiana sa essere sbrigativa contro le classi subalterne in generale. E vent’anni dopo (ma anche prima) la classe dirigente ricomincerà a guerreggiare fino alla nota catastrofe. Da ragazzino, in quegli anni, ho conosciuto un anarchico padre di un compagno di scuola ma non un comunista. Ne sentivo parlare perché bruciavano chiese spagnole ma erano fantasmi, di cui oggi si celebra l’ottantesimo compleanno.
Sbucarono a un certo punto dal nulla (ossia dalle carceri, dall’esilio, dalla clandestinità) e si moltiplicarono alla luce del sole. Adesso avevano alle spalle le bandiere rosse di Stalingrado, che arriveranno fino alla porta di Brandeburgo, ma si moltiplicarono per virtù propria, per avere a lungo e tragicamente combattuto.
Non so dare un giudizio storico e politico corretto su una vicenda che ha dominato il secolo e coinvolto mezza umanità. Continuo a pensare che sia stato il più grande tentativo mai compiuto di rovesciare l’ordine sociale che ha sempre retto il mondo e non mi spiego che un’impresa simile sia finita come risucchiata da un buco nero, apparentemente senza residui.
Mi sento però in grado di dare un giudizio sicuro sulla liberazione e la rifondazione democratica del paese in cui viviamo. È in quel momento che i giovani di allora hanno incontrato i comunisti e l’antifascismo in generale, quello operaio e popolare in primo luogo. Nel bene e nel male, come sempre, ma nel bene in misura di gran lunga maggiore. Tuttavia, è proprio contro questo esito felice che l’anticomunismo (non il revisionismo, ma l’anticomunismo come maschera della reazione) ha compiuto la sua opera devastante.
Avere reciso questa radice, questa particolarità della storia nazionale, è la colpa imperdonabile dei nipotini e bisnipotini del 1921. È la causa dello snervamento, dello smarrimento, dell’anonimato della sinistra di oggi, ciò che le impedisce di prospettare o anche solo di desiderare una società giusta: di essere un’autentica forza riformatrice e perciò rivoluzionaria.
Così oggi 1921 e 1945 sono numeri o poco più. Piccoli giornali e una limitata forza politica di opposizione ricordano il compleanno di un fantasma (come lo chiamano i giornali) mentre la sconfitta della sinistra vergognosa di sé bussa alla porta. Il comunismo è una parola, l’anticomunismo è l’insegna del potere. Il mondo sviluppato celebra i suoi fasti al plutonio e al latte sicuro, quello meno sviluppato è in via di estinzione. È il capitalismo globale, signori.
Ma chi può dirlo? Forse questo mondo non è unificato quanto piuttosto dimezzato e storpio. Forse il fantasma che centocinquant’anni fa si aggirava in Europa oggi si aggira nell’aria in attesa di planare da qualche parte. Ha tempi lunghi, tempi ideali, quelli della «futura umanità» che cantavano gli antenati.
(il manifesto, 21 gennaio 2001)