“Viviamo una crisi spaventosa del pensiero”

 

Edgar Morin, essendo nato a Parigi l’8 luglio 1921, ha già compiuto cent’anni ma ha una lucidità di pensiero e una chiarezza di comunicazione che oggi non si trovano facilmente. Per questo, senza introduzioni, riproduco l’intervista pubblicata su Robinson di fine 2021. Le evidenziazioni sono mie. Per chi volesse una sintesi della sua esperienza di  vita e intellettuale confermo l’interesse per il libro qui sotto e appena uscito.

MORIN Edgar, Lezioni da un secolo di vita, prefazione di Mauro Ceruti, Mimesis, 2021. Indice del libro – Mappeser.com: Mappe nel sistema dei Servizi

Edgar Morin. La cultura è il destino comune
di Maurizio Molinari
Edgard Morin compie cento anni e guarda alle democrazie europee come a una realtà pericolosamente in bilico a causa della debolezza di un pensiero collettivo che genera insicurezza, proteste, intolleranza, populismo. Per il filosofo francese, protagonista di un’idea forte di responsabilità personale come radice della libertà collettiva, la via da seguire per uscire dalla “grave crisi in cui ci troviamo” è “rafforzare la conoscenza”, cominciando dalle scuole, dall’istruzione, dai più giovani. Nell’identità attuale dell’Europa, come nel passato, c’è infatti quello che può essere il suo destino: i diritti o le guerre. La scelta dipenderà in ultima istanza da noi. Questa è la lezione che ci consegnano le parole vibranti e intense di un testimone unico della nostra storia.
Monsieur Morin, complimenti per il suo primo secolo e per il suo ultimo libro, “Lezioni da un secolo di vita”. Qual è la lezione più importante della sua vita che vuole trasmettere, condividere con i nostri lettori?
“È molto difficile rispondere, ma direi che è la lezione personale di volontà, di autocritica permanente, in altre parole di autoesame; che è compatibile, beninteso, con la critica di se stessi, vale a dire la resistenza a quel processo spontaneo che è in noi, quello che gli inglesi chiamato self-deception, che non è la giusta percezione di sé, ma piuttosto alimentare dentro di noi un inganno, assegnarci la parvenza di una bella figura, cercando invece di dimenticare quel che di negativo, di vergognoso, c’è in noi. Per me, quindi, la lezione più importante è cercare di conservare la capacità di resistere ai momenti di isteria collettiva, di odio collettivo, quasi di follia collettiva, che si manifestano continuamente nella vita delle società, in particolare in tutti i conflitti, che siano le guerre o gli scontri politici. Lo vediamo oggi nel caso della pandemia, dei vaccini. Vediamo – direi in modo quasi letterale – l’assenza di un distanziamento riflessivo da sé, la distanza/assenza di autoesame, quando invece questa dovrebbe essere la condizione preliminare, la lezione preliminare a tutte le altre”.
A proposito di questa ondata di odio collettivo, che si sta manifestando in molti Paesi europei e nella nostra società in coincidenza con la pandemia, secondo lei il populismo da dove si genera?
“Potrei dire che ogni crisi, e soprattutto una crisi grave e gravida di emozioni come questa, suscita molta angoscia e inquietudine sia riguardo al presente sia riguardo al futuro. E io stesso, che nella mia adolescenza ho vissuto un’epoca molto drammatica – gli anni che hanno preceduto la guerra segnati da una crisi economica gravissima che ha contribuito a determinare la presa del potere da parte di Hitler – ho visto come nella società francese si siano scatenate due polarità. Da un lato la Francia umanista, aperta, che integra i suoi immigrati, dall’altro la Francia reazionaria, xenofoba, antisemita. E penso che oggi, in modo diverso, durante una crisi, le stesse ansie provocano due contraddizioni: da una parte una paura che produce regressioni psicologiche e mentali e fa appello a un reset magico oppure a un capro espiatorio giudicato responsabile di tutti i mali odierni; e dall’altra un’immaginazione che si manifesta in modo estremamente dispersivo, in cui si vedono tante persone, tante associazioni, soprattutto in Francia, di solidarietà, di aiuto reciproco, di obiettivi umanistici, ma in modo dispersivo e senza una direzione precisa. Dunque, se vogliamo, c’è un rischio tipico delle crisi: pensiamo alla crisi del 1929, che ha prodotto da un lato Roosevelt, quindi un esito progressista, e dall’altro Hitler. Insomma, la crisi attuale, anche se prodotta da condizioni diverse, è di una gravità e di un’intensità tali da rendere difficile mettere in discussione le dichiarazioni perentorie, le affermazioni gratuite o addirittura le fiammate di odio; tutti questi sono elementi che, sfortunatamente, si sviluppano nelle crisi in contemporanea con gli elementi opposti, e oggi sembrano più potenti”.
 E perché sembrano più potenti?
“Perché ci dimentichiamo sempre che dall’inizio del XXI secolo si è sviluppato un processo regressivo: la crisi generale delle democrazie e la ricomparsa di un sistema autoritario dalla facciata semidemocratica che viene chiamato a torto populista, ma che non ha niente di populista, semmai è demagogico. Vediamo predominare in tutto il pianeta la frenesia del profitto immediato, gli utili enormi che le società per azioni hanno realizzato in occasione della crisi economica. Si avvertono da una parte il potere del denaro e dei regimi autoritari, fattori che in alcuni casi sono collegati, e dall’altra le resistenze, con l’esplodere della collera popolare, come si è visto in Algeria, in Cile, in Francia con i gilet gialli; e tali resistenze vengono sempre represse, perché anche se esprimono aspirazioni profonde nella popolazione, non hanno un pensiero, non hanno un’organizzazione. E bisogna ricordare che per decenni un pensiero ben organizzato c’è stato: era quello marxista, con i suoi limiti, le sue speranze, le sue verità, le sue idee. Oggi quel pensiero è in parte obsoleto: la concezione dell’uomo, la concezione della storia, la concezione della vita, della materia di Marx sono naufragate, invece bisogna ripensare il mondo, la vita, l’uomo, la società, la storia perché viviamo in un’epoca di vuoto del pensiero. Per tutta la mia vita, fino agli ultimi anni, ho cercato di portare avanti un messaggio, un pensiero, appunto, in grado di organizzare una visione, una politica umanista, anche se mi sembra di predicare nel deserto”.
Perché manca la forza del pensiero?
“Perché viviamo una crisi spaventosa del pensiero: persino e soprattutto coloro che sembrano i detentori della verità oggettiva, gli economisti che parlano di calcoli, non si rendono conto che i calcoli non sono sufficienti per comprendere tutti i problemi umani. Il calcolo è uno strumento ausiliario necessario, come le statistiche, i sondaggi e tutto il resto. Ma il punto è che sono tutti strumenti ausiliari di un pensiero assente o inserito in una serie di dogmi come i dogmi del neoliberismo. Dunque la situazione è grave. Perché? Perché viviamo in un’epoca storica eccezionale. Si può dire che tutte le epoche siano eccezionali, ma che cos’ha la nostra? La nostra è eccezionale perché comincia con una minaccia su tutta l’umanità, che è la bomba di Hiroshima, una minaccia che si moltiplica per follia, per stupidità. Per esempio noi abbiamo la consapevolezza del degrado della biosfera, che ci è necessaria per vivere e che ha prodotto il dispiegamento tecnoeconomico animato dal profitto o dal potere, dalla volontà di potenza degli Stati. Le condizioni del pianeta sono degradate in modo spaventoso e poi è arrivata la pandemia. Siamo quindi in un’epoca del tutto nuova dell’avventura umana. Siamo di fronte a dei rischi spaventosi, che non abbiamo mai percepito in modo così generale, e anche con promesse della scienza e della tecnica talmente favolose che ci si chiede se non potrebbero essere utilizzate non per accrescere i poteri umani, come vogliono i transumanisti, ma per migliorare le relazioni umane”.
Lei sta descrivendo un’umanità in bilico…
“È il contesto in cui ci troviamo. E cerchiamo di fare una diagnosi corretta, ma è difficile, perché ogni crisi crea anche delle enormi incertezze. Vivevamo già in una pseudoricerca di certezze: si facevano dei piani, come sarà l’Europa nel 2040, nel 2050, come se fosse possibile prevedere meccanicamente il futuro quando l’intento della storia è il dispiegamento dell’imprevisto, come la pandemia stessa era imprevista, come la stessa crisi della biosfera era imprevista. Serve una riconversione mentale totale: imparare a scendere a compromessi con l’incertezza, imparare a vedere la complessità, cercare di scendere a compromessi con la complessità, è questo il problema per me. E purtroppo vedo che nella classe dirigente, a tutti i livelli, non c’è affatto una presa di coscienza”.
Condivido quanto afferma sulla necessità di migliorare la qualità della vita dei cittadini per far fronte a questa stagione di incertezze che giova al populismo. Ma come possono le istituzioni democratiche aiutare a migliorare oggi la qualità della vita dei loro cittadini?
“Direi che anche qui si tratta di prendere coscienza di una cosa: che con l’aumento, diciamo quantitativo, delle possibilità di benessere materiale si è sviluppato anche un degrado della qualità della vita, con un degrado delle solidarietà tradizionali, una perdita di senso della comunità, le condizioni di isolamento e chiusura in cui viviamo, o ancora il dominio di un potere economico che fa sì, per esempio, che l’agricoltura industriale produca dei prodotti malsani, insipidi, distrugga i suoli e continui a svilupparsi a discapito di quella che potrebbe essere l’agricoltura ecologica, agroecologica, di fattoria. Dunque, se vogliamo, la riconquista della qualità della vita è innanzitutto una riconquista personale, ma ha bisogno di un aiuto politico costante. Che si viva o meno in comunità, non si fanno adeguate politiche di consumo, politiche che non ci spingano verso beni privi di reale valore, che hanno solo un valore mitologico attribuito dalla pubblicità, o prodotti malsani che degradano la salute dei bambini come le bibite zuccherate. Se non si fanno politiche che aiutino questa presa di coscienza, tutto questo non sfocia in nulla, né da un lato, cioè dai cittadini, dove effettivamente qualcosa si è rimesso in moto, né dal versante politico, dove non si comprende che la qualità della vita è diventata un problema centrale, quello che in America Latina viene chiamato il buen vivir, il buon vivere, che parte dal benessere materiale, da certe condizioni di benessere materiale, ovviamente, ma che va oltre, che è qualcosa legato alla qualità dei rapporti umani. E se i politici non capiscono questo, non vedono questa cosa, se vedono soltanto i calcoli, i tassi di crescita, il Pil pro capite e tutto il resto, non vedono l’essenziale”.
Possono essere gli Stati nazionali democratici a rispondere a questa necessità, o è una grande occasione per l’Unione Europea di rispondere rafforzando il proprio processo di integrazione?
“La questione dell’integrazione europea, oggi, è piuttosto quella di un rischio di disintegrazione europea. Penso che il primo problema sia di evitare la disintegrazione. Possiamo osservare diverse forze centrifughe; non c’è solo la Brexit, ma anche quel che sta succedendo in Polonia o in Ungheria, per esempio; anzi, persino nei nostri rispettivi paesi, Francia e Italia, esistono spinte che definiamo sovraniste, e anche queste sono forze centrifughe. Bisogna quindi rigenerare l’Europa, ripartendo dal senso di un destino condiviso, che la pandemia un po’ ha iniziato a suscitare, quando l’Europa si è resa conto che non produceva ciò che serviva a curare la pandemia stessa; ci siamo accorti che la globalizzazione ha creato sì interconnessioni, ma del tutto prive di vera solidarietà. La pandemia ha evidenziato quanto le nazioni siano ripiegate su sé stesse, immobili nel loro egoismo, sia che si tratti della distribuzioni di vaccini che di altre situazioni. Quindi, se me lo consente, anche come rigenerare l’Europa è una domanda da porsi, e come le democrazie parlamentari dovrebbero essere affiancate da istituzioni di democrazia partecipata, in cui i cittadini abbiano un ruolo permanente, sia negli organismi più vicini a loro sul territorio, come i comuni o le regioni, ma di certo anche a livello nazionale. Bisognerebbe completare la democrazia e, in special modo, rivitalizzare il pensiero politico; oggi, il pensiero politico, che sia di sinistra o di destra, si limita ai problemi di sicurezza, d’immigrazione o simili, e per il resto è il regno del neoliberismo. È questa situazione di degrado a rappresentare un problema”.
A Parigi è in corso il processo agli autori della strage del Bataclan. Perché il jihadismo ha aggredito l’Europa attraverso cittadini nati europei, e come può essere sradicato, come può esser sconfitto?
“Questo è un ulteriore problema. Vale a dire: abbiamo lo sviluppo marginale, nell’islam, di una setta di fanatici, i jihadisti, completamente allucinati, scoppiati, e questa setta, nata in condizioni storiche e sociali che non è il caso di analizzare qui, ha acquisito dimensione internazionale e ha agito a New York, con l’attentato delle Torri gemelle, per esempio, e in Francia, con l’orribile strage del Bataclan. Anche in questo caso bisogna analizzare le condizioni in cui tutto ciò è accaduto, e quindi vediamo che dopo la scomparsa del comunismo come forma, per molti, di religione terrestre, di religione di salvezza terrestre, il totale fallimento di quella religione terrestre ha rafforzato alcune religioni celesti, che in certi casi presentano aspetti di fanatismo, come l’evangelismo americano oppure, soprattutto, come il jihadismo di un settore della popolazione musulmana. Sappiamo che tutto ciò ha una dimensione effettiva, reale, perché in tutti i paesi europei esiste una parte di popolazione di origine magrebina o islamica, e all’interno di questa comunità si è installata una minuscola parte di popolazione completamente disorientata, che in un primo momento si è dedicata alla delinquenza e alla criminalità e poi ha cercato redenzione nella fede, ma nella fede più folle e fanatica, e noi non abbiamo un sistema educativo adeguato a capire questa situazione. Ho proposto al ministro competente di introdurre con urgenza nell’istruzione l'”educazione alla problematizzazione”; ciò significa che persino prima di insegnare ad acquisire spirito critico bisogna insegnare a interrogarsi, avere la capacità di farsi delle domande. Se sviluppiamo la capacità di problematizzare la conoscenza, la religione, Dio e tutte le entità di questo tipo, non solo ci doteremo di spirito critico ma, al tempo stesso, stimoleremo quello autocritico. Penso si debba rieducare lo spirito, perché non stiamo compiendo una riflessione profonda sui problemi della conoscenza: la conoscenza è sempre esposta all’errore, sia che si tratti di visione deformata, di percezione erronea, di emozioni modificate o di sbaglio nella comunicazione, sia che si tratti di teorie, magari dogmatiche e false, ci troviamo a misurarci senza sosta con l’errore e la parvenza. Dobbiamo quindi essere educati al rischio di commettere errori, di prendere abbagli. Anche questa è una cosa necessaria, ma non si fa”.
Cosa pensa delle persone che sono contro il vaccino, che rifiutano di proteggersi con la scienza e la medicina dalla pandemia?
“In questo caso siamo arrivati all’impossibilità di instaurare un dialogo, perché il vaccino si mostra come una specie di dogma; è accaduto nel momento in cui ci siamo resi conto che due dosi non sono riuscite a immunizzarci completamente, e allora c’è chi si chiede il perché della terza dose, ora che sappiamo che anche se siamo vaccinati possiamo contagiare gli altri. È una domanda, ma anziché discuterne, si ingaggiano lotte a base di statistiche contraddittorie, ognuna delle quali, tuttavia, è ben orientata; di conseguenza prende piede la radicalizzazione, perché non c’è stato un vero dibattito democratico sulla questione dei vaccini. Penso che anche in questo caso ci sia un problema: esiste una minoranza di biologi e di medici che contesta il vaccino – persino loro – e li si considera dei complottisti, ma in realtà non c’è vero dibattito, e un vero dibattito forse avrebbe evitato questa situazione, questi scontri. In realtà nemmeno il parere degli specialisti è mai del tutto chiaro; io stesso leggo ogni giorno informazioni completamente diverse e non riesco mai a formarmi un’opinione definitiva su questo argomento. Nel frattempo si è arrivati a battaglie verbali, a scontri nelle manifestazioni, ed è deplorevole”.
Lei afferma che la nostra maggiore debolezza è vivere in una stagione dove il pensiero è vuoto e quindi che c’è grande bisogno di conoscenza e che la conoscenza viene dallo studio. È questo il suo pensiero? Ritiene che dobbiamo ricominciare a studiare per ricostruire la conoscenza?
“Sì, penso sia fondamentale; anzi, nella scuola primaria e secondaria la diversità è un concetto chiave, e la conoscenza è un problema chiave”. A che cosa somiglierà l’Europa tra cento anni, secondo lei? Come se l’aspetta, come la immagina? Come saranno gli europei?
“L’Europa deve poggiare sull’idea di un destino condiviso, e assumere un carattere completamente nuovo, perché le nazioni stesse sono fondate su un destino comune; è un’idea ereditata dal passato, è evidente che questa definizione viene dalla storia comune vissuta dai nostri antenati. Per l’Europa questa comunità dal destino condiviso, ereditata dagli avi, è fondamentalmente spirituale e culturale. Potremmo dire che sia la realizzazione dell’opera di pensatori come Montaigne, Spinoza, Goethe, Leopardi. L’Europa possiede un tesoro, ricavato dalla sua stessa cultura: un tempo era un concetto chiaro. Oggi dobbiamo costruire una comunità dal destino condiviso, fondata sul presente e sul futuro, e dobbiamo capire fino a che estremo l’asse su cui ruota il mondo si sia spostato: oggi tutto si gioca tra due potenze gigantesche, Stati Uniti e Cina, e quindi il rischio più grande del pianeta è di un conflitto armato tra queste due potenze enormi. Per non parlare di tutti gli altri problemi; vediamo benissimo, per esempio, che persino un grande Paese come l’Olanda, storicamente aperto, oggi sia oscurato dal nazionalismo religioso, così come vediamo l’Europa trasformata in roccaforte di varie forme di regressione, di chiusura: religiosa, politica. L’Europa dovrebbe essere, per così dire, una nuova Svizzera, nel mondo, e non sto parlando di neutralità ma del fatto che riesca a mantenere, pur in mezzo al caos, delle strutture di libertà, degli scambi democratici. L’Europa che immagino, quindi, dovrebbe essere solidale, anziché schierarsi contro il resto del mondo; ma affinché il resto del mondo non precipiti nel caos o negli estremismi dei fanatici deve saper conservare, come se si trattasse di una missione, il proprio tesoro culturale di valenza universale, in modo che questo tesoro sia utile al resto dell’umanità, nel momento opportuno”.
Edgar Morin, la ringrazio di queste sue parole, del suo tempo, del suo modo di sorridere, che è un piacere osservare, così come lo è riflettere insieme a lei sulla conoscenza. È un privilegio ascoltarla, c’è un gran lavoro da fare sulle idee. Grazie anche di questi suoi primi cento anni, così importanti per tutti i difensori dell’Europa, dei quali faccio parte.
(Robinson, 24 dicembre 2021)
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