(Seconda parte, dove si percorre la storia del ciclismo ma ci si ferma alle soglie di Armstrong.)
Ciao Fausto, possiamo riprendere da dove ci siamo lasciati? Hai accennato alle diverse epoche del ciclismo. Quali sono? E come si distinguono?
Be’, intanto ti ripeto le mie (sorride) cinque epoche. La prima è quella preistorica e arriva fino alla prima guerra mondiale. La seconda, quella pionieristica o mitologica, cioè quella di Bottecchia, Girardengo e Binda, è quella tra le due guerre mondiali. La terza è quella epica (o classica), quella di Bartali-Coppi-Magni (sorride) e va dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta, diciamo fino a Gaul e Nencini. La quarta è quella che va da Anquetil a Pantani e che molti trascinano ad oggi col nome di moderna. Per me però – e mi ripeto – da dieci anni stiamo vivendo una quinta epoca, diciamo postmoderna, ma forse da chiamare postciclismo. I criteri per distinguere le diverse epoche sono già nel loro nome, ma passiamoci qualche minuto per spiegare meglio.
La prima, l’epoca preistorica…
Già . In questo periodo entriamo piuttosto lentamente e progressivamente nel ciclismo vero e proprio, anche perché ci voleva una bicicletta vera e propria… Stiamo parlando di mezzo secolo scarso, in cui la prima parte – circa vent’anni, dal 1870 al 1890 – è segnata soprattutto da modifiche tecniche. Ti ricordo alcune tappe significative: le ruote con i raggi (1869), la trasmissione a catena (1871-77), i cuscinetti a sfere (1875), la quasi contemporanea invenzione della “safety bycicle” (prima c’era il biciclo) e del pneumatico Dunlop (1884-88). Alla fine di questi vent’anni, con bicicletta vera (o quasi), possono nascere le prime corse. Sono quelle chiamate ancor oggi le “classiche”: la Liegi-Bastogne-Liegi (1892), la Parigi-Bruxelles (1893) e la Parigi-Roubaix (1896). All’inizio del secolo le classiche italiane, il Giro di Lombardia (1905) e la Milano-Sanremo (1907), insieme con il Tour de France (1903) e il Giro d’Italia (1909). Nel frattempo si sono sviluppate le associazioni ciclistiche e nel 1912 nasce il professionismo. Quindi si può dire che tutto quello che precede la Grande Guerra è la preistoria. Mi sembra semplice, no? (Sorride.)
Grazie, sintesi efficace. E dopo la guerra?
Sarebbe interessante anche parlare del ruolo della bicicletta in guerra, cioè sul fronte, perché era pur sempre una novità tecnica da sfruttare rispetto alle battaglie campali dell’Ottocento, ma avremo tempo… (Sorride.) Ma il dato più importante è che dopo la prima guerra e nonostante quel massacro, il ciclismo diventa internazionale, pensa il paradosso! Alle gare del Nord partecipano anche gli italiani e in Italia arrivano anche i ciclisti stranieri. E’ un fatto lento, a piccoli scatti, ma inesorabile. Comunque è qui in questo nuovo spazio-tempo, come direbbe un filosofo attuale, che ci sono i primi veri grandi ciclisti e le prime memorabili imprese. Tanto grandi quanto difficili da seguire e raccontare, al punto da finire, giustamente, nel mito. Perciò io la chiamo l’epoca del ciclismo mitologico, piuttosto che pionieristico. Quest’epoca appartengono a pieno titolo da tre grandi italiani: Costante Girardengo (1893-1978), Ottavio Bottecchia (1894-1907), Alfredo Binda (1902-1986).
Ci racconti qualcosa di questi?
Qui ci vorrebbe veramente molto tempo, ognuno di questi merita una riflessione seria. Possiamo dire che Girardengo, non a caso già chiamato il “Campionissimo”: fu il Giovanni Battista che preannuncia il nuovo profeta! Mentre Binda subì il limiti geopolitici di allora, ma era un specie di Merckx e Hinault messi assieme. Fu semplicemente il più forte al punto che le sue non sembravano neanche grandi imprese. Nel 1930, dopo che aveva vinto quattro Giri d’Italia su cinque (’25-’27-’28-’29), arrivando secondo su uno (’26), lo pagarono per non correre, dandogli quanto avrebbe preso vincendo il Giro ed alcune tappe! E’ uno dei tre ad aver vinto cinque volte il Giro (sorride), con Merckx e me. Tornando su Girardengo mi soffermerei su una corsa-capolavoro della sua incredibile carriera.
E’ il Gran Premio Wolber?
Si, proprio questo che allora era considerato il mondiale virtuale e che si corse dal 1922 al 1931. Quello vero fu istituito nel 1927 e vide al Nürburgring quattro italiani ai primi quattro posti (Binda, Girardengo, Piemontesi e Belloni). Ebbene, siamo al Wolber del ’24, 28 settembre, partecipano in 41, di cui solo due italiani, Girardengo e Bottecchia, il vincitore del Tour. La gara è su 361 chilometri, ma nelle strade d’allora si formavano normalmente dei gruppetti. Tra questi si tenevano anche le distanze per non mangiare troppa polvere. Comunque, siamo già negli ultimi chilometri quando c’è la salita del Coeur Volant. A metà rampa il Gira è avanti di 50 metri su tutti, ma si ferma e manovra sulla bicicletta. Chi lo sorpassa pensa che abbia forato, in realtà sta girando la ruota per avere il rapporto da volata. Appena fatto cio’ si tiene un po’ a distanza e quelli in testa non vedendolo (non era facile, come ti dicevo), pensano che sia fuori gioco… In realtà lui punta tutto sul lunghissimo anello della pista, ben 600 metri e sul rapporto che altri non usano! Dopo la prima curva è già in testa ma non sarà facile, per niente. Vince praticamente al fotofinish su Pélissier e Sellier. Ed entrò nel mito! (Ride di gusto.)
A proposito di Bottecchia, lui è un mito… primordiale!
E’ vero. Ottavio Bottecchia, era un muratore e cominciò a correre a 27 anni. Scoperto da Ganna, partecipò al Giro, ma senza squadra. Nel 1923 al Tour arrivò secondo e vinse i due successivi. Divenne così un beniamino dei francesi. I fascisti però lo volevano schierato, era troppo famoso per non esserlo. Nell’estate del ‘27, durante un allenamento dalle parti di Gemona del Friuli (per la precisione a Peonis, nel comune di Trasaghis – sono due nomi che non mi dimenticherò mai), dove si era trasferito (era originario di Colle Umberto, vicino Conegliano), gli diedero una lezione un po’ troppo pesante. Visse ancora solo pochi giorni e poi s’inventarono tante storie, anche da parte della sua famiglia (erano tempi duri), per spiegare l’accaduto come conseguenza di un banale litigio con un contadino a cui avrebbe rubato la frutta. In realtà Ottavio è stata una vittima, tra le prime e più note, del fascismo. Ma non voglio parlare ancora di politica…
Sì, torniamo alle nostre epoche.
Dal dopoguerra, diciamo dal ’47, alla ripresa del Tour, vinto da Jean Robic – chiamato ‘testa di vetro’ per la protesi che aveva – come dicevo, nel ciclismo si ripetono le imprese dei campioni leggendari ma su un’unica arena. Nel ’48 Gino stravinse il Tour, vincendo anche sette tappe, Fiorenzo il Giro. L’anno dopo io feci l’accoppiata, la prima della storia e la gloria, soprattutto da parte dei francesi, fu grande. Ma nel ’50 vinsero gli svizzeri Kubler il Tour e Koblet il Giro. Hugo l’anno dopo vinse anche il Tour, mentre il Giro andò ancora a Fiorenzo. Nel ’52, l’altro mio anno monstre, io ripetei l’accoppiata. Nel ‘53 il Giro fu ancora mio, ma al Tour da quell’anno Louison Bobet s’impose per tre volte di seguito. Il Giro ’54, famigerato, andò allo svizzero Clerici e quello ’55 fu quello famoso vinto da Fiorenzo con lo scherzetto che noi vecchietti facemmo a Gastone.
Fausto Coppi et Jean Robic al Tour 1952 (clicca sopra)
Insomma, tre italiani, tre svizzeri e due francesi…
Aspetta. L’aspetto fondamentale di quel ciclismo non riguarda i nomi, ma come si vinceva, o si perdeva… Non c’erano gli attuali livelli organizzativi, non a caso le prime squadre erano legate alle marche di bicicletta (Legnano, Bianchi, ecc.), il know-how di base come dite voi adesso. Quindi molto, se non tutto, dipendeva dalla forza e dalla volontà del singolo ciclista che al massimo poteva essere aiutato da un compagno, non da un’intera squadra, come si fa oggi. I due ingredienti più importanti erano dunque la tenacia e la… fortuna. Già , proprio quella oggetto delle lettere dei miei colleghi. Perché forare o cadere era molto facile, ma recuperare era molto molto difficile. Per questo in una giornata potevi vincere o perdere un’intera corsa a tappe. Tu – lo so – mi stai per dire: può succedere anche oggi. E invece no! Tra le strade dove non si fora quasi mai, le ammiraglie al seguito, i mezzi di comunicazione a disposizione. Pensa che oggi c’è quasi sempre la televisione con la telecamera dall’elicottero e quando questa non potrebbe essere usata, come in montagna col cattivo tempo, per lo più la corsa viene sospesa – una cosa allora impensabile.
Dunque, si poteva facilmente vincere alla grande o perdere alla grande.
Proprio così. La mia fortuna è stata quella di vincere con alcune grandi imprese. Memorabili, almeno per me (ridacchia). Vedi, come altri che hanno fatto l’accoppiata, per esempio Anquetil e Indurain, io ero un passista, quindi attaccabile da uno scattista, soprattutto in montagna. Ebbene, ai miei tempi, non potevo giocare sempre in difesa e lucrare solo sulle cronometro. Come dicevo, c’erano troppi rischi. Bastava una caduta (quante ne ho fatte!) e si perdeva tutto. Bisognava attaccare e vincere alla grande, guadagnare tanti minuti e così evitare continui attacchi da dover rintuzzare.
Anquetil e Indurain, non vincevano allo sprint ma non si lasciavano staccare in montagna, a parte il primo i primi anni, come lui stesso ammette nella sua lettera. Qui stava la loro forza aggiuntiva.
Tra i due c’è un quarto di secolo e qualche di differenza… Ma oggi se si fora si cambia ruota o bici in dieci-venti secondi! L’incidente più probabile oggi è d’infilare il manubrio dentro un sacchetto di plastica di uno spettatore ai bordi, com’è già successo! (Si riferisce ad Armstrong al Tour del 2004.) Ma se io avevo mal di pancia (quante volte mi è successo!), Gino o Fiorenzo, Hugo o Louison, li vedevo al traguardo. Forse, se non mio ritiravo prima. Per vincere sicuramente si doveva stravincere.
“Un uomo solo è al comando,†diceva Mario Ferretti alla radio durante la Pinerolo-Cuneo, quando facesti 192 Km di fuga – era il Giro del ‘49. E la gente – senza immagini in diretta – fantasticava sulla base delle rare foto in bianco e nero che venivano pubblicate.
Già ! Fu il caso più noto.
A quale impresa sei più legato?
L’ultima è sempre la migliore… Ricordo volentieri quella sullo Stelvio alla penultima tappa del Giro del ’53. Hugo era piuttosto tranquillo di portarsi a Milano la maglia rosa. Anche perché lo Stelvio era la prima volta che si faceva, nessuno lo conosceva. Eppoi era una sola salita, con la discesa su Bormio. Uno svizzero poteva perdere un Giro su una sola montagna?
Ci sei legato anche perché in quell’occasione conoscesti la ‘dama bianca’?
(Sorride.) Così vuole la leggenda.
Potresti raccontarne altre di tue imprese, quelle al Tour?
No, preferisco completare il discorso sul ciclismo epico. Finisce pochi anni dopo. L’ultimo degno rappresentante fu Charly Gaul.
Charly Gaul, sempre a maniche corte (clicca sopra)
Lo scalatore lussemburghese? Non vinse molto.
Non vinse neanche una classica, ma vinse 11 tappe al Giro e 10 tappe al Tour. E soprattutto vinse due Giri (’56 e ’59) e un Tour (’58). Lo fece nel momento di congiunzione tra l’epoca classica e quella successiva, iniziata da Anquetil. Costui, se noti, nella sua lettera non lo nomina affatto. Penso che a sentirne il nome gli venga ancora l’orticaria, a Jacquot. Ebbene, Charly vinceva come nessuno riusciva a fare. E’ stato il più grande scalatore, in pianura sapeva appena difendersi. Saliva come uno stambecco. Non ho mai capito dove avesse imparato a farlo. In Lussemburgo? Lì la collina più alta ha 600 metri! Ma soprattutto, più saliva e meglio respirava. Per lui era un vantaggio quello che era problema di molti ciclisti. E ancora: più c’era brutto tempo e meglio era per lui. Al Giro del ’56, durante la Merano-Monte Bondone, terzultima tappa, corsero sotto una tormenta di neve. Si ritirarono in 43, compreso Pasquale Fornara in maglia rosa. Charly vinse la tappa con 8’ sul secondo e 12’ su Fiorenzo con la spalla rotta. Charly alla partenza era 24° e staccato di quasi 17’, con quella sola tappa vinse il Giro. Al Giro del ’59 Charly si ripeté. Alla penultima tappa, da Aosta a Courmayeur, attaccò Anquetil in rosa sui passi di San Bernardo, dandogli 9’ di distacco. Alla fine della tappa tutti e due erano così stravolti che non si presentarono neanche alla premiazione. Queste erano imprese, ‘exploits’ come dice Anquetil in francese. Imprese così oggi sono impossibili, ovviamente. Questo era il ciclismo epico, quello che non si ripeterà più, per cui io preferisco chiamarlo classico.
Gaul diventò un mito vivente, in questi termini ne scrisse anche Roland Barthes…
Sì, in un libro sui miti d’oggi, pubblicato nel ’57 e quindi scritto ben prima della vittoria al Tour del ‘58, dove ne fece di tutti i colori… Barthes scriveva sul mito del Tour: “il miglior esempio che abbiamo mai incontrato di mito totale, perciò ambiguoâ€. Perché diceva che “nel Tour è viziata la base, i moventi economiciâ€, ma resta per lui comunque “un fatto nazionale affascinanteâ€. Come vedi mi son fatto trovare pronto, visto che dovevi tornare… (Sorride.)
Poi però accenna anche alcuni profili. Di te, fammi vedere bene il testo, ecco, scrive: “COPPI. Eroe perfetto. Sulla bicicletta ha tutte le virtù. Fantasma temibile.â€
Sì, ma di Charly scrive: “ GAUL. Nuovo arcangelo della montagna. In determinati momenti è visitato da un dio (…). Il dono divino a Gaul è la leggerezza: (…) come ogni essere mitico che ha il potere di vincere l’aria o l’acqua, Gaul, sulla terra, diventa balordo, impotente.â€
Infatti, Gaul è famoso anche per aver perso il Giro ’57, vinto da Anquetil, perché fermò a fare con troppo comodo i suoi bisogni ed è stato anche un personaggio singolare quando finì di correre. Dicono che bevesse e vivesse praticamente da eremita. Fu un grande ammiratore di Pantani che salutava ad ogni occasione. Anche l’ultima.
Vedo che sei informato… Charly fu un grande ciclista, quindi un grande uomo. Se beveva, sceglieva certamente della buona birra.
Quindi tu dici che il ciclismo epico finisce con Gaul e quello moderno comincia con Anquetil, all’inizio degli anni Sessanta.
Sì. Non voglio dimenticare Gastone. Fu un contemporaneo di Charly e per temperamento fu un ciclista epico. Anche se si esprimeva la massimo in discesa. Ognuno ha la sua pendenza… (Sorride.) Gastone fu molto segnato dalla vicenda di Rivière, da cui non si riprese. La sua lettera sembra ancora un atto di espiazione. Con Anquetil invece cominciano a vincere i ciclisti che non vincono, ma pareggiano. Il francese almeno vinceva le cronometro, ma pensa che nel ’62 e nel ’63 Franco Balmamion vinse due Giri addirittura senza mai vincere una tappa, neanche le cronometro.
Dopo Anquetil però vengono Merckx, che vinse sette Sanremo dal 1966 al 1976 compresi, cioè in undici anni, e Hinault, che vinse gare dal 1977 al 1984 compresi, lungo otto anni. Questi vincevano di tutto, non solo le cronometro.
Sì ma nessuno ricorda una loro singola impresa, né in attacco né in recupero. Ai loro tempi le incognite ormai erano ridottissime e se uno era il più forte poteva programmare bene la sua gara. Merckx in particolare, pensava semplicemente a vincerle tutte. E siccome andava bene su tutti i percorsi, vinceva gran parte delle gare che finiva. Questi corridori sono stati forti, ma non epici. Casomai lo è stato qualcuno del loro tempo, anche se condannato spesso ad arrivare secondo.
Pensi a Felice Gimondi contro Merckx e a Joop Zoetemelk contro Hinault?
Sì, a questi due, entrambi nella loro lunga carriera vinsero sia il Tour che il Mondiale. Zoetemelk in 18 anni da professionista finì 16 Tour, 6 volte secondo. Ma anche a Raymond Poulidor e poi Luis Ocaña, altro grandissimo grimpeur che vinse un Tour. La sua è stata anche una storia un po’ triste, ebbe tanti infortuni, fino alla fine. Volle che le sue ceneri fossero disperse sui Pirenei. Ecco, questi nomi hanno fatto la bellezza del ciclismo moderno più di altri che hanno vinto, anche molto. Bisognerebbe però parlare anche di Marco Pantani, la nota più acuta dello spartito moderno. Lui è stato l’ultimo ciclista a far pensare che il periodo epico non era mai finito. E non a caso era molto amato da Charly.
Marco Pantani e Charly Gaul, due vecchi amiconi
Già Pantani, ce lo sia dimenticati!
Tu forse, non certo io… (Sorride.) Certamente dobbiamo riprenderlo.
Va bene. Adesso però sento come il bisogno urgente di avere una definizione: cos’è il ciclismo attuale?
Dalla fine degli anni Cinquanta, le corse non sono più fini a se stesse. Prima al centro c’era il ciclismo e gli altri fenomeni approfittavano della popolarità di questo, ma senza intaccarlo, senza contaminarlo, togliendogli l’aura. Già , l’aura che non c’è più anche nell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibiltà tecnica, come scriveva Walter Benjamin. L’autenticità e l’unicità del gesto agonistico e dell’impresa ciclistica non ci sono più. Ma il ciclismo attuale non è sbocciato all’improvviso. E’ il risultato di un mutamento inesorabile e parallelo a quello che della società capitalistica occidentale. All’inizio, col neocapitalismo, si poteva chiamare neociclismo, oggi, col turbocapitalismo, si può chiamare turbociclismo, forse.
Quindi Pasolini avrebbe detto che il ciclismo è sparito con le lucciole…
Si, è vero, il ciclismo è sparito con le lucciole… (Sorride.) Non c’è dubbio che un grosso cambiamento avvenga alla fine degli anni Cinquanta, quando entra in gioco la réclame, la pubblicità , come si dice adesso, che una volta si faceva solo alle biciclette. Però adesso bisogna indurre ben altri consumi. E’ così che produttori di vermouth (sorride, ma lui passò dalla Bianchi alla Carpano), di salami, di cucine, di macchine da caffè e tanti altri, che sembrano appassionarsi alle corse, in realtà spendono per far girare la maglietta per le strade e sulle foto. E le foto sono più belle sul podio, naturalmente. Lievita così tutta l’economia del ciclismo. Le squadre sono ben equilibrate, i ciclisti ben pagati, quasi tutti.
Con il grande business del ciclismo arrivano gli americani. Il primo è Greg LeMond negli anni Ottanta, ma corre con i francesi. Con Armstrong si fa un vero salto. Ma non è eccessivo?
Qualcosa che turba, anzi qualcosa di turbolento c’è senz’altro. A partire dagli sponsor, che oggi non sono più neanche salumieri o industriali italiani ma colossi dell’economia globale, come la squadra di Armstrong, l’agenzia governativa US Postal Service, presente dal 1996 al 2004, poi rimpiazzata da Discovery Channel. Questa fu anche la squadra di Floyd Landis, l’americano squalificato per doping dal Tour vinto nel 2006, subito dopo i sette anni di Armstrong. Grandi investimenti e organizzazioni perfette. Si studia bene ogni dettaglio fisiologico. Ormai da un decennio si è arrivati a correre solo il Tour. Correre e vincere sempre solo una gara, naturalmente la più famosa, la più visibile.
Sei ad un punto particolare: ciclisti americani e doping. Ma il doping non c’era anche ai tuoi tempi?
Sì, ma il doping non si chiamava così… (Sorride.) Ai miei tempi era anche peggio, forse. Si chiamava bomba! Pensa… In piena guerra fredda. Allora però non era un fatto tanto scientifico, aveva qualcosa di magico. L’importante era crederci alla bomba. Ma è un argomento che non voglio trattare troppo. Eritropoietina, testosterone, nandrolone… Sostanze naturali ma moltiplicate per ossigenare di più e aumentare la massa muscolare, mentre noi prendevamo eccitanti, poco più del caffè. Quanto agli americani, da LeMond ad Armstrong, non mi piacciono già dai nomi, sembrano costruzioni di Walt Disney. Speriamo che questa fase, che io chiamo postmoderna, finisca presto. Forse qualcuno, magari uno spagnolo tornerà a fare l’accoppiata.
Mi pare che tutto sommato tu non voglia parlare di Armstrong… E’ perché ha effettivamente cambiato il ciclismo ma anche oscurato la vostra, la tua, immagine?
Il ciclismo epico, quello mio, ed il ciclismo attuale, quello di Armstrong, sono incommensurabili, come direbbe un filosofo vero. (Sorride.) Vedrai che tra qualche anno questo pensiero sarà un luogo comune.
Ma io spero di riparlare presto con te. E’ possibile, vero?
Tutto è possibile, per me. (Sorride.) A presto!
Riferimenti bibliografici delle due parti dell’intervista
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