“Unioni civili, l’ipocrisia dei politici cattolici”

Riporto il commento odierno di Diego Marani pubblicato su la Nuova Venezia con lo stesso titolo. Inutile dire che ne condivido il contenuto. (Le evidenziazioni sono mie.)

Le polemiche scatenate dalla questione delle unioni civili e in particolare dal capitolo sull’adozione del figliastro rivelano ancora una volta una grande mistificazione che condiziona indiscussa da ormai troppo tempo la società italiana: la presunta esistenza di un’ opinione cattolica e di un partito cattolico trasversale che la rappresenti. I deputati e senatori di ogni partito contrari alla proposta di legge che permetterebbe alle coppie omosessuali l’adozione di figli, si dicono cattolici e sostengono le loro posizioni in nome del loro credo. E qui sta la grande ipocrisia. Perché se i contrari all’adozione del figliastro e quindi ai diritti degli omosessuali fossero davvero cattolici, dovrebbero sostenere nella loro attività politica tutte le altre posizioni della chiesa cattolica e cioè essere contrari all’uso dei contraccettivi, al divorzio, all’eutanasia, all’aborto e ovviamente rifuggire loro stessi queste pratiche come anche i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, l’adulterio e la masturbazione. Dovrebbero poi andare a messa ogni domenica, rispettare la Quaresima e dal 10 febbraio prossimo consumare un solo pasto al giorno astenendosi dal mangiare carne fino alla Pasqua.

Questo dice il catechismo della chiesa cattolica che non è il Manuale delle giovani marmotte e dovrebbe essere il riferimento per chiunque si professi cattolico. Sennò perde ogni senso dichiararsi cattolico. Ora io mi chiedo quanti dei politici che si dicono cattolici sarebbero pronti a dichiarare pubblicamente che osservano le regole del catechismo cattolico. Probabilmente quasi nessuno e allora ecco dissipata la fantomatica opinione cattolica italiana e la sua rappresentanza politica. E altrettanto probabilmente quasi nessuno avrà davvero letto il catechismo della Chiesa cattolica. Perché chi di loro si professerebbe ancora cattolico se sapesse che la sua religione ammette la pena di morte? Il catechismo di Papa Ratzinger alla voce 2266 dice testualmente: «L’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte». La verità è che la maggioranza dei politici che si definiscono cattolici non conoscono la religione che rivendicano e si servono dell’etichetta cattolica per puro opportunismo. Come la maggioranza degli elettori che dicono di rappresentare, si confezionano una religione fai da te, prendendo dal catechismo solo quello che garba loro e lasciando da parte i dettami troppo scomodi. Ma chi fa questo usurpa il nome di cattolico. Una religione non è una dieta che ognuno si possa adattare a proprio piacimento. È una regola di vita. Questo uso della religione non è solo improprio, è anche profondamente immorale. È un’altra delle tante manifestazioni della nostra superficialità e del nostro pressapochismo che alla fine contaminano ogni nostro agire. Perché se ci si può dire cattolici senza esserlo davvero, allora nulla è definito, tutto è negoziabile. , quindi ad un certo momento falso. Non solo nella religione ma in ogni altro campo del vivere, se crollano i canoni della regola non esiste più nessuna autorità riconosciuta, quindi nessuna legittimità. Anche questo è il relativismo che condanna Papa Francesco.

Bisognerà che una volta o l’altra qualcuno dei fantomatici cattolici italiani abbia il coraggio di dire che il re è nudo, che non c’è nessun partito cattolico in Italia perché non c’è nessun vero cattolico o quasi. Un chiarimento che sarebbe salutare anche per la Chiesa cattolica perché così si libererebbe di questa zavorra di ipocrisia e potrebbe ripartire dai suoi fedeli più consapevoli per portare avanti la riflessione che lancia Papa Francesco quando dice «Chi sono io per giudicare gli omosessuali?».

Alla fine il punto è tutto lì. Una questione di dottrina. Una dottrina antiquata e medievale non può andare d’accordo con le leggi di uno Stato moderno che invece ha bisogno di legiferare sulle nuove realtà che investono la nostra società.

 

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“Dire la verità è una necessità politica”

Cade oggi l’anniversario della nascita di Antonio Gramsci, Nino per i famigliari e gli amici. Nacque infatti ad Ales, nel cuore della Sardegna, il 22 gennaio 1891, centoventicinque anni fa. In realtà ne visse pochi, come sappiamo, perché morì a Roma il 27 aprile 1937, quando ne aveva quarantasei, e dopo dieci anni e mezzo passati tra confino, carceri e cliniche. La sua vicenda umana e politica credo sia nota a chi arriva a questo blog, quindi per ricordarlo – una cosa che faccio con gratitudine – riporterò solo alcune sue parole che mi sembrano, tra le tante, degne di riflessione anche in relazione ai nostri tempi.

E’ opinione molto diffusa in alcuni ambienti (e questa diffusione è un segno della statura politica e culturale di questi ambienti) che sia essenziale nell’arte politica il mentire, il sapere astutamente nascondere le proprie vere opinioni e i veri fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che realmente si vuole ecc. ecc. L’opinione è tanto radicata e diffusa che a dire la verità non si è creduti. Gli italiani in genere sono all’estero ritenuti maestri nell’arte della simulazione e della dissimulazione, ecc. Ricordare l’aneddoto ebreo: «Dove vai?» domanda Isacco a Beniamino. «A Cracovia», risponde Beniamino. «Bugiardo che sei! Tu dici di andare a Cracovia perché io creda invece che tu vada a Lemberg; ma io so benissimo che vai a Cracovia: che bisogno c’è dunque di mentire?». In politica si potrà parlare di riservatezza, non di menzogna nel senso meschino che molti pensano: nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente. (Quaderno 6, § 19)

(Il post ribadisce un testo qui pubblicato il 23 gennaio 2011.)

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Pausa forzata

Questo blog – come il sito La Città Futura  che lo ospita – è rimasto bloccato per molti mesi e rimarrà poco attivo in attesa di una completa funzionalità dello stesso o finché non sarà ospitato in un nuovo sito. 
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La goccia ha scavato la roccia

brescia-28-maggio-1974-strage-di-piazza-della-loggia

Mi capita in questo blog di taggare con la parola memoria alcuni pezzi pubblicati, ma con questo articolo sull’ultima sentenza sulla strage di Brescia del lontano 1974 siamo ancora nell’attualità politica e nel conflitto italiano, anche se in atto da decenni. E qui non servono più tante parole. Si sapeva infatti che le bombe le mettevano i fascisti con l’aiuto o la copertura dei servizi segreti, solo che finora non ne avevano punito nessuno. Qualcosa è cambiato dunque. Ripartiamo da qui.

Qualcosa è cambiato
di Benedetta Tobagi
Da ieri sera, qualcosa è cambiato, per tutti. Dopo 41 anni di inchieste e processi, il massacro del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia — una bomba uccise otto persone durante una manifestazione antifascista — non è più una strage impunita.
Non lo è grazie a due condanne di grande peso e significato. La Corte d’assise d’appello di Milano, nel giudizio di rinvio (dopo l’annullamento da parte della Cassazione nel febbraio 2014, il dibattimento era cominciato a fine maggio) ha condannato come organizzatore della strage il capo dell’organizzazione terrorista d’estrema destra Ordine Nuovo nel triveneto, Carlo Maria Maggi (uscito indenne dalle inchieste per piazza Fontana), e il suo sodale Maurizio Tramonte, poco più che ventenne all’epoca dei fatti, che era al contempo militante dell’Msi, membro della struttura eversiva capitanata da Maggi e, soprattutto, confidente del Sid, il servizio segreto militare dell’epoca.
Proprio le note informative in cui, attraverso le confidenze di Tramonte, ossia la fonte “Tritone”, il Sid seppe quasi in presa diretta dei propositi stragisti del Maggi in nord Italia e delle manovre di riorganizzazione del suo gruppo clandestino, dopo che nel 1973 O.N. fu messo fuori legge, sono state cruciali per arrivare alla condanna.
La sentenza della Cassazione del 2014 aveva inchiodato Maggi a una posizione difficilissima. Inesorabile l’elenco degli elementi a suo carico (la sentenza si può leggere e scaricare gratuitamente dal sito fontitaliarepubblicana.it ). Suo l’esplosivo, gelignite, di cui era fatto l’ordigno. Faceva parte delle scorte stivate nella cantina del ristorante “Allo Scalinetto”, una trattoria veneziana a due passi da san Marco. L’avevano confezionato e trasportato per suo conto i defunti Carlo Digilio e Marcello Soffiati, entrambi membri di Ordine Nuovo, la cui partecipazione all’attentato bresciano, sebbene post mortem, era già passata in giudicato. Indubitabile il fatto che Maggi fosse un capo con responsabilità operative, con propositi stragisti. «Brescia non deve restare un fatto isolato!» disse dopo la bomba di piazza Loggia.
Arduo che questo appello-bis possa essere ribaltato in Cassazione. Potrebbe, dunque, essere la prima condanna per strage di un leader del terrorismo nero di questo calibro a passare in giudicato. Una cesura, uno spartiacque che potrebbe metter fine agli sproloqui di quanti, negli ultimi decenni, hanno provato a mistificare la verità storica sulle stragi del quinquennio 1969-’74: stragi di chiara e indubitabile matrice fascista. Con la connivenza dei servizi segreti. La Cassazione aveva bacchettato con severità i giudici bresciani per aver liquidato troppo facilmente la posizione di Tramonte: informatore dei servizi, ma non infiltrato al servizio della giustizia. Non era solo membro di Ordine Nuovo, ma partecipava pure, con Maggi, a riunioni organizzative d’alto livello. Come quella a casa di Gian Gastone Romani, leader sia del Msi che di Ordine Nuovo, tre giorni prima della bomba di Brescia (Tramonte ne uscì dicendo all’amico che lo aspettava «quelli sono tutti pazzi»). Il supplemento d’istruttoria effettuato a Milano ha accertato che la mattina del 28 maggio egli si trovava in piazza: fu forse uno dei “basisti”? Attendiamo le motivazioni. Di certo, la sua condanna getta una luce inquietante sui servizi. Sapevano, tacquero, e allontanarono gli inquirenti dalla verità – da subito.
Questa sentenza suggella definitivamente la verità sui depistaggi. Gian Adelio Maletti, che, con il capo dei servizi Miceli vide e valutò le informative di Tramonte, e le ritenne così gravi da scrivere di suo pugno, dopo la strage di Brescia, che bisognava dire tutto all’autorità giudiziaria, quando, nell’agosto 1974 fu ascoltato dai magistrati bresciani, nascose le note informative e mentì. per evitare che attraverso le parole di Tritone. Tramonte, si accendesse un riflettore sul gruppo eversivo di Carlo Maria Maggi, su quel mondo della destra eversiva con cui – lo sappiamo anche dalle inchieste su piazza Fontana – il Sid intratteneva fitti legami. Maletti è già stato condannato per aver depistato le indagini sulla strage di Milano.
Nonostante il mostruoso dispiegamento di forze per garantire l’impunità agli stragisti, la goccia ha scavato la roccia, il meccanismo del depistaggio è stato, almeno in parte, per una volta inceppato. Quarantuno anni non sono passati invano. Grazie al lavoro paziente e generoso di tanti uomini e donne, giudici, magistrati, avvocati, parti civili, il cumulo della prove, assoluzione dopo assoluzione, s’è fatto così alto da impedire, infine, la masso di precipitare ancora indietro lungo la china dell’impunità. Ora Sisifo può riposarsi. Che quelli otto morti, cinque insegnanti, due operai, un ex partigiano, volti dell’Italia che lottava e sperava, possano finalmente riposare in pace.
(la Repubblica, 23 luglio 2015)
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Quante balle sui greci. (5) De te fabula narratur

Si leggono tante cose in queste ore, alcune anche veramente interessanti, ma pochi leggono gli eventi in corso come un de te fabula narratur e un capitolo del finanzcapitalismo. Così fa Guido Viale in un articolo che sta per essere pubblicato. Il titolo provvisorio è mio.

Il dramma greco anticipa il nostro
di Guido Viale
I negoziatori del 12 luglio sono entrati nella sala della riunione in grisaglie e ne sono usciti con il volto di Dracula. Un volto che ossessionerà tutti i cittadini europei, mano a mano che si renderanno conto di quel che è accaduto; ma che da oggi ossessionerà anche i loro governanti: perché non aver difeso la Grecia di Tsipras oggi, ed essersi anzi uniti al drappello sempre più folto di coloro che ne hanno diretto il waterboarding, li espone, domani, alla prospettiva di trattamento analogo. Non solo non potranno più permettersi di proporre un cambio di rotta, ma dovranno sottostare alle pretese ogni giorno più esose di chi guida la danza dell’austerity. Con il 2016 entra in vigore il fiscal compact, cioè l’obbligo di cominciare a rientrare dal proprio debito. Nessuno ci pensava o ne parlava più; ma ora quel patto potrà essere richiamato in sevizio e scombussolare piani e bilanci di tutti gli Stati: non solo quelli già a rischio, come Italia, Spagna e Portogallo; ma anche Francia, Olanda o Finlandia, che non stanno molto meglio. I birilli di questo bowling rischiano di cadere uno dopo l’altro, e di coinvolgere, prima di quanto si possa pensare, anche la Germania.
Attaccare oggi Tsipras dopo averlo sostenuto ed esaltato fino a ieri è un po’ gaglioffo; specie se a farlo sono dei politici italiani. Innanzitutto perché da qui è difficile avere un quadro esauriente della situazione greca. Poi, perché, dopo averne condiviso l’operato, bisognerebbe mettersi “nei panni” di Tsipras, cioè di fronte alle alternative tra cui ha dovuto fare le sue scelte. Ma soprattutto perché, subito dopo, bisognerebbe ritornare nei nostri, di panni: di chi cioè ha dissipato il patrimonio della sinistra più forte d’Europa (non che non fosse da liquidare) senza aver saputo sostituirvi niente che non sia l’eterna riproposizione della propria inconsistenza. Ma se è sbagliato voltare le spalle a Tsipras in questo difficile passaggio, non per questo diventa necessario appiattirsi sulle sue posizioni. Si dovrebbe guardare la vicenda greca con quel tanto di distacco che ci è possibile per ricavarne fin da ora degli insegnamenti.
Innanzitutto l’inconsistenza intellettuale e la malafede dei negoziatori sia dell’eurogruppo che del Consiglio, già evidenziate più volte da Varoufakis, si proiettano su tutto l’establishment europeo di cui sono espressione. Una classe dirigente che manda a fondo la Grecia pensando di ricavare 50 miliardi da asset che possono essere svenduti al massimo a 7 (la favola delle privatizzazioni per pagare i debiti…), di normare l’orario di apertura delle farmacie, o di riscrivere la procedura civile in una settimana, non ha futuro. Persino il FMI giudica quelle proposte irrealizzabili. Il che lascia aperta la partita. E non dimentichiamo che si tratta degli stessi governi che hanno rifiutato di farsi carico di alcune decine di migliaia di profughi. Un’alternativa – sociale, politica e culturale – a questi esiti mostruosi deve tenerne conto: l’Unione europea potrebbe dissolversi in pochi anni.
In secondo luogo è apparsa in tutta la sua inconsistenza l’opzione di un’uscita dall’euro come alternativa alle politiche germanocentriche dell’austerity. Le scelte di Tsipras, e gli stessi rilievi critici di Varoufakis nei suoi confronti, hanno messo in luce la drammaticità, per l’intera popolazione, ma anche le difficoltà tecniche, mai prese in considerazione, di quell’opzione: soprattutto se fatta in maniera non concordata. Ma andrebbe presa in considerazione anche l’impossibilità di recuperare competitività con la svalutazione se una scelta del genere dovesse coinvolgere, anche in tempi diversi, un numero elevato di Stati membri. Ancora più insensata e grottesca appare quindi la proposta di un referendum sull’uscita dall’euro: nel tempo che separa il suo lancio dalla sua eventuale realizzazione le banche verrebbero svuotate, paralizzando per mesi l’intero paese. Eppure la politica, oggi, si nutre in buona parte di queste due cose: di “ce lo chiede l’Europa” e di promesse di un ritorno a “come si era prima” dell’euro.
In terzo luogo l’esito pesantissimo del negoziato che ha tenuto impegnato il Governo greco è dovuto anche alla mancanza di un “piano B” che contemplasse, in qualche forma, l’introduzione di una moneta parallela all’euro. Su questo punto ha ragione Varoufakis (che d’altronde l’aveva prospettato in alcuni suoi scritti). Ma anche questa non è cosa realizzabile in una settimana: avrebbe dovuto essere predisposta fin dal giorno della vittoria elettorale, e studiato prima ancora. Syriza non ha avuto né tempo né modo per farlo. Ma una discussione sulle diverse versioni correnti di questa proposta e sulle forme di un suo eventuale utilizzo andrebbe sviluppata con maggiore impegno. Anche perché è parte integrante non solo di un programma di politiche alternative alla subalternità all’attuale governance europea, ma anche di una strategia generale di riduzione del potere dell’alta finanza sulle vite di tutti.
Quarto: il vero regista di questa resa dei conti con Syriza e con la Grecia non è stato Schaeuble ma Draghi, come peraltro conferma il FMI. Sua è la lettera scritta con Trichet per varare il governo Monti, le cui misure i memoranda della Trojka ricalcano fedelmente e che oggi vengono riproposte in forma aggravata; sua è la scelta di escludere la Grecia dal quantitative easing e dalle altre misure di sostegno alle banche; sua la decisione di bloccare i fondi Ela (cioè di costringere le banche greche a chiudere) mettendo Tsipras con le spalle al muro. Il suo è stato il comportamento di chi tiene ferma la vittima per permettere agli altri di colpirla meglio. Schaeuble non avrebbe avuto un potere incontrastato nel negoziato se Draghi non avesse tenuto “bloccato” l’avversario. Una strategia alternativa deve quindi prospettare una diversa governance della BCE. Chiedere la fine della sua indipendenza non basta: significa consegnarla nelle mani del Consiglio, o dei singoli governi. Meglio allora, in attesa di un “governo europeo”, espressione di quell’unità politica da cui ci si sta in realtà allontanando a passi da gigante, che Banca centrale e politica monetaria vengano sottoposti al Parlamento europeo: che comunque potrebbe esercitare – adeguatamente attrezzato, e in regime di trasparenza che oggi non c’è – solo funzioni di indirizzo e di controllo. E’ una prospettiva – che può tradursi in una campagna, lanciata per ora in termini non sufficientemente chiari – che richiede anch’essa di essere discussa per tempo. Comunque sia, l’obiettivo della ristrutturazione o del taglio del debito è imprescindibile.
Infine, sarebbe sbagliato promuovere, come in parte si fa, un risentimento antitedesco da contrapporre al nazionalismo che ha guidato il negoziato con Tsipras e Varoufakis, condotto fin dall’inizio all’insegna di una menzogna (“non permetteremo ai greci di spassarsela a nostre spese”…); ma condizionato soprattutto dalla volontà di molcire e aizzare l’elettorato delle maggioranze in carica. La Germania non è un monolite, anche se i vantaggi usurari che ha ricavato dall’euro (un tema su cui la pubblicistica mainstream tace) sono in parte ricaduti su tutta la sua popolazione. E’ anch’essa un paese diviso in classi, su cui le politiche europee hanno inciso e incideranno sempre più in modo differente. A guadagnarci, da un’Europa e da un euro germanocentrici, non è stata tanto “la Germania”, quanto la finanza internazionale e le multinazionali al cui servizio si è posto il suo governo. La possibilità di far saltare quelle politiche riposa anche sulla possibilità che anche lì si apra una frattura lungo frontiere sociali e di classe. Che non ha bisogno, però, della demonizzazione del popolo tedesco (e meno che mai di richiami al suo passato nazista), ma di una sempre più chiara identificazione degli interessi in gioco: che sono gli stessi in Germania, in Italia, e in tutto il resto dell’Europa.
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Quante balle sui greci. (4) Gallino: L’euro non funziona

Luciano Gallino commenta l’esito del referendum greco in maniera essenziale ma sempre coerente con una visione storica e strutturale dei problemi.

Il sociologo Luciano Gallino

Gallino: «Tsipras ha respinto un colpo di stato della Troika»
di Roberto Ciccarelli
«Il refe­ren­dum con­tro l’austerità in Gre­cia è stato poli­ti­ca­mente impor­tante per l’intera Europa — sostiene Luciano Gal­lino, autore di Finan­z­Ca­pi­ta­li­smo e Il colpo di stato di ban­che e governi (Einaudi) — Se un popolo ridotto in mise­ria, che conta 11 milioni di abi­tanti, rie­sce a creare seri pro­blemi ai paesi più impor­tanti d’Europa, con un peso eco­no­mico e poli­tico come la Ger­ma­nia, ad un certo numero di per­sone potreb­bero venire delle idee.
Quali, ad esem­pio?
Anzi­ché subire pas­si­va­mente le diret­tive di Bru­xel­les, che in molti casi sono quelle di Ber­lino, potreb­bero pun­tare i piedi e discu­tere i prov­ve­di­menti. Cosa che non è avve­nuto in Ita­lia negli ultimi quat­tro governi ita­liani che hanno accet­tato pas­si­va­mente e pedis­se­qua­mente obbe­dito alle tera­pie della Com­mis­sione Euro­pea o della Bce. Non si è mai vista una banca cen­trale chie­dere di ren­dere fles­si­bile il mer­cato del lavoro. Lo fece con Tri­chet da gover­na­tore con la let­tera del 2011. Il governo Monti messo al posto di quello Ber­lu­sconi ha imme­dia­ta­mente prov­ve­duto a farlo. Chissà se il caso della Gre­cia non farà cre­scere il numero delle per­sone che vogliono farsi sen­tire sull’euro o sul fun­zio­na­mento dell’Unione Europea.
Tsi­pras ha denun­ciato un colpo di stato con­tro il suo governo. Che cosa è acca­duto dav­vero in Gre­cia nell’ultima set­ti­mana?
Si è con­cre­tata la situa­zione che sta matu­rando da molti anni. La demo­cra­zia è un fat­tore di disturbo per le isti­tu­zioni euro­pee, per molti paesi a comin­ciare dalla stessa Ger­ma­nia o per il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Tanto Lagarde, quanto Mer­kel, hanno detto in varie occa­sioni che è molto bello vivere in demo­cra­zia ma che biso­gna anche ren­dersi conto che la demo­cra­zia si deve con­for­mare alle esi­genze del mer­cato. Io trovo que­ste dichia­ra­zioni poli­ti­che di una gra­vità ecce­zio­nale per­ché dovrebbe essere vero invece esat­ta­mente il con­tra­rio. In Europa la demo­cra­zia viene con­si­de­rata ormai un intoppo per le deci­sioni del mer­cato. Del resto nei trat­tati fon­da­tivi dell’Unione i rife­ri­menti alla demo­cra­zia sono nulli. Con la Gre­cia hanno pro­prio esa­ge­rato. Se anche i primi mini­stri, per non par­lare dei fun­zio­nari della Bce o di impor­tanti espo­nenti dei socia­li­sti hanno inter­fe­rito aper­ta­mente con il governo greco, dimo­strando che per loro la demo­cra­zia è una sec­ca­tura per la libera cir­co­la­zione dei capi­tali. La social­de­mo­cra­zia è scom­parsa total­mente. È ora di pren­dere posi­zione. Non che sia facile ma, piut­to­sto che bat­tere la testa con­tro un muro, vale la pena di provarci.
Pro­fes­sor Gal­lino lei sostiene che dal 2007–8 sia in corso in Europa pro­prio un colpo di stato. Il refe­ren­dum greco è stata una prima rispo­sta col­let­tiva?
È una rispo­sta poli­tica dei greci a cin­que anni di poli­ti­che deva­stanti impo­ste da Com­mis­sione Ue, Fmi e Bce, ed è anche la prima con­tro quanto è matu­rato in Europa dalla crisi dei debiti sovrani in poi. La prima fase del colpo di stato pre­sup­po­neva che le vit­time pro­te­stas­sero un po’, per poi obbe­dire come nulla fosse suc­cesso. Oggi, il fatto che un paese eco­no­mi­ca­mente insi­gni­fi­cante alzi la testa e prenda a calci negli stin­chi que­sti poteri è un fatto rile­vante. Ale­xis Tsi­pras ha rive­lato una tem­pra fisica e poli­tica ecce­zio­nale per reg­gere cin­que mesi di trat­ta­tive. Oggi il fatto nuovo è che qual­cuno abbia detto “No”, non solo nelle piazze, ma soprat­tutto nelle trat­ta­tive, impo­nendo un refe­ren­dum al quale hanno par­te­ci­pato milioni di per­sone. Que­sto ha inner­vo­sito molto Mer­kel e gli inef­fa­bili pre­to­riani della Com­mis­sione Euro­pea o del Con­si­glio Europeo.
Quante pos­si­bi­lità esi­stono per un accordo sul debito e sui fondi per la Gre­cia?
Lo spet­tro delle opzioni sul tavolo oggi è molto ampio. La ristrut­tu­ra­zione del debito è essen­ziale, ogni eco­no­mi­sta di mezza tacca ammette che non è paga­bile. La Gre­cia ha perso il 25% del pil gra­zie alle medi­cine tos­si­che di Bru­xel­les. In que­ste con­di­zioni, se va bene, riu­sci­ranno a pagare un debito che arri­verà al 180% del Pil tra mol­tis­simi anni. Que­sta situa­zione dimo­stra che gli eco­no­mi­sti che hanno pro­po­sto que­ste ricette non cono­scono il loro mestiere e andreb­bero licen­ziati. La solu­zione è quella di affron­tare i pro­blemi imme­diati: creare occu­pa­zione qua­li­fi­cata per milioni di per­sone, se è pos­si­bile evi­tando i gio­chetti come il Jobs Act che non ser­vono a nulla, aumen­tare la pro­du­zione pos­si­bil­mente non con le vec­chie poli­ti­che indu­striali e nuove poli­ti­che di inve­sti­menti pub­blici. Per fare que­sto è neces­sa­rio ridi­scu­tere il trat­tato isti­tu­tivo dell’Unione Euro­pea, oltre che lo sta­tuto della Bce, che non con­tem­pla la neces­sità della nostra epoca, cioè creare occu­pa­zione o il pre­stito di denaro ai governi. Una cosa inau­dita per una banca centrale.
In che modo si può inter­ve­nire?
Ci sono due pro­blemi col­le­gati da affron­tare. I trat­tati, oggi, non sono modi­fi­ca­bili, se non all’unanimità. È il segno dell’impossibilità pra­tica di inter­ve­nire: come si fa a far votare 28 paesi insieme? Que­sto è il fun­zio­na­mento di un’unione nata male, fon­data sulle neces­sità eco­no­mi­che e non su quelle demo­cra­ti­che, dove la par­te­ci­pa­zione non conta nulla. Poi c’è il pro­blema della Ger­ma­nia, l’unico paese ad avere avuto van­taggi dall’euro in ter­mini di export e pro­dut­ti­vità, anche se negli ultimi dieci anni in que­sto paese i salari sono rima­sti fermi. Con­vin­cerla a dimi­nuire l’export, è dif­fi­cile se non impos­si­bile, ma que­sto è uno dei pro­blemi fon­da­men­tali e lo dicono anche gli eco­no­mi­sti tede­schi. L’euro non fun­ziona e non fun­zio­nerà mai. Non si tratta però di con­ti­nuare le invet­tive con­tro la finanza, ma di met­tersi a stu­diare cosa fare per miglio­rare l’euro, per affian­carlo a monete paral­lele o dis­sol­verlo in maniera con­sen­suale. Così com’è l’euro è una cami­cia di forza che rende la vita impos­si­bile a tutti, tranne che alla Germania.
In Europa Tsi­pras è iso­lato. Se il suo governo perde la guerra, cosa si pre­para per la Spa­gna, con Pode­mos, e in gene­rale per l’Europa?
A que­sto punto, anche se perde, Tsi­pras ha vinto comun­que. Le vit­to­rie restano, spin­gono le per­sone a fare qual­cosa che prima non osa­vano nem­meno imma­gi­nare. Qual­cosa di nuovo può rina­scere dopo la scom­parsa totale della sini­stra in Europa.
(il manifesto, 6 luglio 2015)
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L’insostenibile attesa del gesto di Maga Magò

A Portogruaro siamo in attesa del primo Consiglio Comunale dell’era Senatore, convocato per stasera 6 luglio, con ordine del giorno standard per una seduta che deve convalidare i consiglieri, presentare la nuova Giunta, eleggere il Presidente del Consiglio, etc. Ma c’è un ultimo punto che attrae più degli altri. E’ il punto 6: “Comunicazioni del Sindaco sull’attività amministrativa e sulla viabilità in Centro Storico”.

Subito dopo le elezioni vinte, il nuovo Sindaco dichiarò: «La prima cosa che farò da sindaco? Togliere la ZTL in centro storico». Cazzo! Mi son detto, ecco qua una che va avanti come un treno, non teme smentite, tantomeno ostacoli, quindi deve avere delle risorse speciali. A caldo i rossoverdi pubblicarono una nota che affermava che anche la ZTL merita il rispetto delle regole. Chissà se questa fu letta, ma resta il fatto che le dichiarazioni successive del nuovo Sindaco furono molto più attente proprio al rispetto delle procedure necessarie per modificare la viabilità. Ma a me sono rimaste fisse in testa le parole sulla volontà di aprire al traffico le torri di San Gottardo e di San Giovanni per risolvere i problemi dei negozi del centro. Perché di questo si tratta.

Così adesso mi aspetto proprio una decisione rapida e fruttuosa, un gesto semplice ma efficace, ed una comunicazione già al primo Consiglio. Naturalmente, come cittadino portogruarese e residente in centro storico, sarò ben lieto che con la sua bacchetta magica Maria Teresa Senatore risolva l’ormai pluridecennale odiosa depressione commerciale. Non importa se non ci sarà proprio più alcuno spazio per le biciclette, già oggi così sregolate. Non importa se dovrà essere rifatta la segnaletica per permettere il parcheggio anche dei molteplici suv, così ben diffusi a Porto, e soprattutto ai pick-up, indispensabili per trasportare tanta merce. Accetterò tutto… Basta che lo faccia però – e subito. Non è sostenibile tanta attesa quando si sa che qualcuno ha poteri particolari. Se è riuscita a battere il Mago Merlino, Marco Terenzi, il povero mago buono, ma pur sempre un mago, per lei, il nuovo Sindaco, risolvere i problemi dei poveri commercianti del centro dev’essere uno scherzo e questa attesa è ormai insopportabile.

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Quante balle sui greci. (3) Baranes: Chi fallisce è l’Ue

Anche questo articolo di Andrea Baranes mi pare dica qualcosa di assai diverso dal solito ritornello sui greci spendaccioni e sulla finanza pubblica greca. Speriamo che votino OXI (NO) anche per rafforzare la nuova guida politica di Tsipras e Syriza: cosa ne sarebbe con un’altra guida?

Comunque vada, sarà un fallimento
di Andrea Baranes
Ma non della Grecia. La questione è molto più seria e riguarda il falso dogma secondo cui la finanza pubblica è il problema, quella privata la soluzione

323 miliardi di euro, circa il 175% del PIL. Il debito pub­blico greco è il vero con­vi­tato di pie­tra dei nego­ziati con le isti­tu­zioni euro­pee e inter­na­zio­nali. Da un lato ogni richie­sta al Paese elle­nico, dal sur­plus ai tagli alle pen­sioni, fino all’aumento dell’IVA, è mirato a repe­rire le risorse per ripa­garlo. Dall’altro, una sua ristrut­tu­ra­zione non è in agenda, l’unica discus­sione pos­si­bile è su come fare sì che venga resti­tuito, non se sia pos­si­bile farlo e con quali modalità.

L’impossibilità di pagarlo emerge dal rap­porto pre­li­mi­nare del Comi­tato per la verità sul Debito Pub­blico, costi­tuito su deci­sione del Pre­si­dente del Par­la­mento greco. Un punto di vista di parte, quindi, ma inte­res­sante se non altro per­ché rico­strui­sce la sto­ria e le carat­te­ri­sti­che di tale debito. Una sto­ria che per­mette di sfa­tare alcuni dei prin­ci­pali luo­ghi comuni che carat­te­riz­zano il dibat­tito attuale, dal pre­sunto eccesso di spesa pub­blica al fatto che la Gre­cia con­ti­nua a pesare sulle tasche degli euro­pei, dopo i diversi piani di sal­va­tag­gio degli scorsi anni.
Dalla metà degli anni ’90 fino al 2009 la spesa pub­blica in Gre­cia è per­fet­ta­mente in linea, anzi appena infe­riore alla media dell’area euro (48% con­tro il 48,4%). Se il debito pub­blico greco si è impen­nato dall’inizio degli anni ’80 a oggi, i motivi vanno ricer­cati altrove: i due terzi dell’aumento sono dovuti agli alti tassi pagati dai bond greci, ovvero all’accumularsi di inte­ressi su inte­ressi, in un effetto valanga. Circa 40 miliardi di euro sono impu­ta­bili all’unico set­tore dove la spesa pub­blica è stata ben al di sopra della media euro­pea; non par­liamo di sanità, istru­zione o di pro­te­zione sociale, ma del set­tore militare.
Un’altra parte è da ascri­vere all’evasione e all’elusione fiscale e alla fuga di capi­tali. Un feno­meno legato anche agli “accordi fiscali” sot­to­scritti con il Lus­sem­burgo da diverse mul­ti­na­zio­nali, per pagare meno impo­ste in Gre­cia o non pagarne affatto. Infor­ma­zioni emerse con lo scan­dalo Lux­Leaks, al cen­tro del quale spicca il nome di Jean-Claude Junc­ker, già mini­stro delle finanze e primo mini­stro del Gran­du­cato, oggi a capo della Com­mis­sione UE che chiede al governo greco di rinun­ciare alla con­trat­ta­zione collettiva.
Motivi a cui si somma, con l’arrivo della moneta unica, il con­ti­nuo peg­gio­ra­mento della bilan­cia com­mer­ciale e dei paga­menti. In ultimo, l’aumento del debito ha seguito quello che si è veri­fi­cato in tutto il mondo dopo lo scop­pio della bolla dei sub­prime, men­tre il crollo del PIL pro­vo­cava un ulte­riore peg­gio­ra­mento del rap­porto debito/PIL.
Se que­sta è la situa­zione riguardo il debito, ancora più inte­res­sante guar­dare cosa è avve­nuto con i piani di sal­va­tag­gio degli ultimi anni. Piani che si sareb­bero dovuti con­trap­porre alla dina­mica del debito, ma che para­dos­sal­mente hanno con­tri­buito sostan­zial­mente a peggiorarla.
Nelle parole di Sti­glitz al Guar­dian, «pra­ti­ca­mente nulla dell’enorme quan­tità di denaro pre­stata alla Gre­cia vi è di fatto andata. È invece andata a pagare i cre­di­tori del set­tore pri­vato, incluse le ban­che tede­sche e fran­cesi». In altre parole i piani di sal­va­tag­gio altro non sono stati se non una gigan­te­sca par­tita di giro per met­tere al sicuro le grandi ban­che europee.
Prima del 2009, le ban­che tede­sche hanno pre­stato qual­cosa come 704 miliardi di dol­lari ai Paesi «PIIGS»; seguite da quelle fran­cesi con 477 miliardi. Nello stesso periodo, l’esposizione dei governi ita­liano, fran­cese o tede­sco verso la Gre­cia era pari a zero. Sem­pli­fi­cando, le ban­che pri­vate pre­sta­vano alle­gra­mente alle con­tro­parti elle­ni­che, alla ricerca di pro­fitti più alti, il che per­met­teva alla Gre­cia di acqui­stare auto­mo­bili, beni di con­sumo – e armi – tede­sche e francesi.
Una stra­te­gia soste­nuta sia dai governi sia dall’UE, per almeno tre motivi. Il soste­gno all’export e alla cre­scita dei Paesi forti; la volontà di ren­dere le ban­che euro­pee dei «com­pe­ti­tor glo­bali»; e in ultimo, ma è il fat­tore forse più impor­tante, per­ché in assenza di tra­sfe­ri­menti fiscali nell’UE, il com­pito di ridurre gli squi­li­bri e rea­liz­zare l’integrazione euro­pea è stato affi­dato alla sola finanza privata.
Il bilan­cio di una tale visione è diven­tato evi­dente dopo lo scop­pio della bolla dei sub­prime. In un mer­cato finan­zia­rio al col­lasso, Atene non è più riu­scita a rifi­nan­ziare il debito con le ban­che pri­vate, men­tre que­ste ultime, tra­volte dalla man­canza di liqui­dità, hanno chiuso i rubinetti.
È qui che inter­ven­gono i pre­sunti piani di sal­va­tag­gio. Pec­cato che almeno il 77% di tutti gli aiuti for­niti alla Gre­cia tra mag­gio 2010 e giu­gno 2013 siano finiti al set­tore finan­zia­rio. A fine 2009 le ban­che fran­cesi erano espo­ste per oltre 78 miliardi, che si ridu­cono a meno di due a fine 2014. Quelle tede­sche pas­sano da 45 a 13,5 quelle olan­desi da 12 a 1,2. Il debito è tra­va­sato dal pri­vato al pub­blico, e non ultimi ai fondi pen­sione e pic­coli rispar­mia­tori greci, secondo il noto prin­ci­pio di pri­va­tiz­zare i pro­fitti e socia­liz­zare le perdite.
Nelle con­clu­sioni del rap­porto com­mis­sio­nato dal Par­la­mento greco, «la gestione della crisi è stata un fal­li­mento come con­se­guenza del fatto che è stata affron­tata come una crisi del debito sovrano, men­tre in realtà era una crisi bancaria».
È in que­sti ter­mini che si spiega l’apparente para­dosso di un debito che regi­stra il mas­simo aumento – pas­sando dal 129,7% del 2010 al 177,1% del 2014 – pro­prio nel periodo sia di «sal­va­tag­gio» sia di appli­ca­zione delle ricette della Troika fon­date sull’austerità.
Poli­ti­che che pre­ve­dono una moneta e una banca cen­trale uni­che, ma che in assenza di unione fiscale e poli­tica lasciano i Paesi in dif­fi­coltà a gestirsi il pro­prio debito pub­blico. Un’Europa che inonda di liqui­dità senza porre con­di­zioni i respon­sa­bili della crisi e impone sacri­fici e auste­rità ai cit­ta­dini che l’hanno subita. Un sistema in cui le ban­che sono too big to fail ma gli Stati sono abban­do­nati a loro stessi. Una visione in cui regole di bilan­cio scritte a tavo­lino ven­gono prima del benes­sere e della stessa soprav­vi­venza dei popoli. Una dot­trina che con­si­dera uni­ca­mente le respon­sa­bi­lità dei debi­tori e mai quelle dei cre­di­tori. Il dogma fasullo secondo il quale la finanza pub­blica è il pro­blema, quella pri­vata la solu­zione. E l’elenco potrebbe continuare.
Quello del debito greco rap­pre­senta non uno, ma una plu­ra­lità di fal­li­menti. Il vero pro­blema è che non par­liamo né di un fal­li­mento della Gre­cia, né di un fal­li­mento eco­no­mico. La que­stione è di dimen­sioni ben più grandi e deci­sa­mente più preoccupante.
Quello che sta avve­nendo in Gre­cia rischia di essere l’emblema del com­pleto fal­li­mento poli­tico e sociale dell’intero pro­getto di Unione Europea.
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Quante balle sui greci. (2) Marazzi: Il referendum come mossa eroica

Per leggere qualcos’altro di vero sulla Grecia bisogna andare su il manifesto, sempre di oggi primo luglio. Segnalo un’intervista a Christian Marazzi.

Christian Marazzi: «Il golpe della Troika contro il governo Tsipras»
di Roberto Ciccarelli

Per Chri­stian Marazzi, eco­no­mi­sta e autore de Il dia­rio di una crisi infi­nita (Ombre Corte), «il refe­ren­dum indetto da Tsi­pras dome­nica in Gre­cia è una mossa eroica. Non vedo un ten­ta­tivo di addos­sare la respon­sa­bi­lità di una scelta sulle spalle del popolo greco di fronte ad una impasse evi­dente della trat­ta­tiva. Ci vedo invece un atto di grande one­stà e verità».

Molti sosten­gono invece che quello di Tsi­pras sia un atto di dispe­ra­zione.
Niente affatto. La sua è una resa dei conti con le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste che in Gre­cia si sono rive­late per quello che sono sem­pre state: un attacco siste­ma­tico alla demo­cra­zia, un totale disprezzo delle classi lavo­ra­trici, il per­se­gui­mento cri­mi­nale di poli­ti­che di arric­chi­mento dei più ric­chi. Oggi biso­gna andare allo scon­tro, non c’è altra solu­zione. Que­sta bat­ta­glia va fatta a piedi scalzi, con le armi della verità, con­tro la stra­te­gia della men­zo­gna della Troika e dei mass-media che misti­fi­cano i dati eco­no­mici e sociali e ser­vono gli inte­ressi dei poteri forti.

Se al refe­ren­dum vince il «No» cosa suc­cede?
Intanto sarei molto con­tento. La posi­zione di Tsi­pras si raf­for­ze­rebbe dal punto di vista della rap­pre­sen­tanza del popolo greco al tavolo della trat­ta­tiva. Si potrebbe creare una moneta paral­lela che non è un passo verso il ritorno alla Dracma, ma segne­rebbe lo sgan­cia­mento par­ziale dalle misure di auste­rità più repres­sive e darebbe la pos­si­bi­lità di pagare gli sti­pendi e assi­cu­rare le pre­sta­zioni sociali ancora in vigore. Non credo però che que­sto esito sia in alcun modo scon­tato. La Gre­cia è un paese allo stremo, si trova nella clas­sica situa­zione in cui il pri­gio­niero con­fessa il falso al suo peg­giore tor­tu­ra­tore, pur di sopravvivere.

Dai son­daggi risulta invece che la mag­gio­ranza voterà «Sì».
Per­ché i greci temono di essere iso­lati ancora di più. Il pro­blema è che nulla si sta muo­vendo per ren­dere il loro iso­la­mento meno pesante. Oggi la Gre­cia è sola, non ha avuto il soste­gno con­creto da parte dei paesi mem­bri, per non par­lare delle loro classi sociali anch’esse dan­neg­giate dalle poli­ti­che di auste­rità. Que­sta bat­ta­glia eroica la sta con­du­cendo con le sue sole forze. Ho sem­pre soste­nuto che per paesi come la Gre­cia fosse impor­tante restare nell’Eurozona. Essere den­tro e con­tro l’Europa, que­sta mi sem­brava la for­mula poli­tica più cor­retta da usare. Ma que­sta posi­zione oggi può però rive­larsi dispe­ra­ta­mente debole.

E se Tsi­pras sarà scon­fitto?
Ci potrebbe essere un rim­pa­sto di governo in vista delle ele­zioni. È lo sce­na­rio pre­fe­rito dalla Troika. Il com­mis­sa­rio euro­peo Mosco­vici aveva ini­ziato a lavo­rare in que­sto senso il giorno prima dell’indizione del refe­ren­dum, quando ha riu­nito l’opposizione nella sala atti­gua a quella dove si svol­geva l’incontro tra Tsi­pras e le «isti­tu­zioni». Una vera e pro­pria pro­vo­ca­zione fina­liz­zata a pre­pa­rare il rim­pa­sto. Biso­gna vedere cosa acca­drà den­tro Syriza. A quel punto la sini­stra sarebbe esclusa e ci si spo­ste­rebbe verso una com­pa­gine gover­na­tiva di cen­tro. Ma anche in que­sto caso la situa­zione potrebbe non miglio­rare affatto. E, alla fine, la Gre­cia potrebbe deci­dere di uscire dall’euro. Per forza mag­giore e per disperazione.

L’aggressione della Troika alla demo­cra­zia greca è un avver­ti­mento anche a Pode­mos in Spa­gna?
Indub­bia­mente è una misura pre­ven­tiva. Con il refe­ren­dum Tsi­pras ha fatto la mossa del cavallo alla quale la Troika ha rispo­sto con un’altra. La Troika è deci­sa­mente spa­ven­tata dalla pos­si­bi­lità che i movi­menti anti-liberisti abbiano presa anche in paesi cen­trali come la Ger­ma­nia, a sini­stra come a destra. Per que­sto i suoi stra­te­ghi stanno pic­chiando con­tro la Gre­cia in maniera così rozza. In loro non vedo nes­suna intel­li­genza, se non la volontà di distrug­gere Syriza, la sua legit­ti­mità e cre­di­bi­lità. Stanno agendo da golpisti.

A sini­stra molti fanno il para­gone con il colpo di stato con­tro Allende in Cile. Secondo lei è un para­gone appro­priato?
Può sem­brare for­zato, ma i ter­mini della que­stione sono que­sti. Nel 1973 i gol­pi­sti usa­rono l’esercito e la Cia. Oggi in Gre­cia indos­sano il dop­pio petto. Allora, in Suda­me­rica, non si poteva accet­tare un governo demo­cra­ti­ca­mente eletto, e di sini­stra. Oggi non lo si può accet­tare in Europa. Que­sta situa­zione è il pro­dotto di un fatto: la sini­stra non rie­sce a spin­gere in avanti lo scon­tro su scala euro­pea. L’unica cosa che mi con­forta è che saremo costretti a farlo presto.

Spin­gendo la Gre­cia verso il default, la Troika ha preso atto del fal­li­mento dell’Unione Euro­pea e la sta fram­men­tando modi­fi­can­dola pro­fon­da­mente?
Lo penso da tempo. Que­sta Europa è costruita sull’Euro, che è tutto tranne che una moneta in grado di con­tri­buire alla costru­zione di un’Europa fede­rale. Sin dall’inizio l’Euro si è anzi rive­lato un vei­colo di fram­men­ta­zione di una costru­zione che ha già dato abbon­danti segnali di implo­sione interna e di ten­denze verso la bal­ca­niz­za­zione. Da tutti i punti di vista: tassi di inte­resse, infla­zione, debito e defi­cit. Quella che è fal­lita è un’Europa finan­zia­ria che per­se­gue inte­ressi che non hanno nulla a che fare con l’armonizzazione dei per­corsi di cre­scita dei paesi membri.

Qual è il ruolo della Ger­ma­nia?
È da tempo che i suoi stra­te­ghi ordo­li­be­ri­sti hanno abban­do­nato l’idea di una reale uni­fi­ca­zione dell’Europa. L’hanno data in pasto ai mer­cati finan­ziari pen­sando di spo­stare l’asse stra­te­gico eco­no­mico tede­sco verso Est. Il loro gioco ha però tro­vato osta­coli in Ucraina e per le san­zioni alla Rus­sia. Per que­sto sono stati costretti a ripie­gare sull’Europa. Ora pre­ten­dono di imporre un sur­plus di ege­mo­nia tede­sca sul con­ti­nente. Sem­bra incre­di­bile, ma in que­sto momento la pic­cola Gre­cia conta per­ché rap­pre­senta un fat­tore di rischio per un simile pro­getto di uni­fi­ca­zione sotto il pugno di ferro tedesco.

Tre anni fa bastava che Dra­ghi dicesse «wha­te­ver it takes» per sal­vare l’Eurozona. Oggi sem­bra impo­tente. Come giu­dica il suo ruolo?
Tra il 2011 e il luglio del 2012 è stato molto abile. Il suo «atto lin­gui­stico» ha tenuto insieme una situa­zione che aveva toc­cato la soglia della rot­tura dell’eurozona. Dra­ghi è «l’ameriKano» in Europa e si scon­tra con i fana­tici dell’Ordoliberismo tede­sco, i Weid­mann, Schau­ble, la Bun­de­sbank. Oggi non sa da che parte girarsi. Ha fatto mosse schi­fose: minac­ciare di tagliare la liqui­dità dell’Ela alla Gre­cia, ha creato panico ed è respon­sa­bile della corsa ai ban­co­mat. È stato imper­do­na­bile esclu­derla dal «Quan­ti­ta­tive Easing» in una situa­zione in cui versa 60 miliardi al mese per evi­tare l’ampliamento degli spread. Comun­que, il suo QE va bene fino a un certo punto per­ché non mostra poteri tera­peu­tici. In Giap­pone, negli Usa o in Inghil­terra ha aumen­tato in maniera spet­ta­co­lare le dise­gua­glianze. Le imprese usano la liqui­dità per riac­qui­stare azioni, non certo per fare inve­sti­menti. I grandi inve­sti­tori pro­spe­rano sui mer­cati finan­ziari. La Bce non è in una situa­zione tale da con­tri­buire all’uscita da que­sta crisi.

L’alternativa alla stra­te­gia della Troika è la sovra­nità nazio­nale e il ritorno alle monete nazio­nali, come si sostiene anche a sini­stra?
A que­sta sto­ria della sovra­nità mone­ta­ria non ho mai cre­duto. La sovra­nità mone­ta­ria non c’è mai stata, nem­meno prima dell’Euro, ai tempi dello Sme. Ma poi, che signi­fica oggi una demo­cra­zia nazio­nale? Non basta lo spet­ta­colo che stanno dando i par­la­menti dal punto di vista delle garan­zie e dei diritti democratici?

La stessa cosa si può dire delle isti­tu­zione euro­pee, non crede?
Certo, per­ché sono la replica far­se­sca di quelle nazio­nali. Anzi, sono ancora più vuote. Volenti o nolenti, con­ti­nue­remo a muo­verci su un piano sovra­na­zio­nale con­ti­nen­tale. È un fatto irre­ver­si­bile. È solo su que­sto piano che oggi si può affer­mare una demo­cra­zia reale, e non formale.

Che cosa intende per «demo­cra­zia reale»?
Una demo­cra­zia è reale quando si appro­pria delle ric­chezze e le redi­stri­bui­sce, garan­ti­sce una red­dito di cit­ta­di­nanza e aumenta i salari. Eli­mina le media­zioni degli inve­sti­tori finan­ziari ed eroga diret­ta­mente risorse, ser­vizi e infra­strut­ture per i cit­ta­dini euro­pei. Que­sto può avve­nire a par­tire dalla stessa Ger­ma­nia, e non solo nei paesi peri­fe­rici. Biso­gna rilan­ciare un’idea di Europa poli­tica dove la poli­tica sia for­te­mente incar­nata in que­ste riven­di­ca­zioni per far fronte ai biso­gni di popo­la­zioni stre­mate dalla crisi. Lo scon­tro è a livello con­ti­nen­tale. Que­sto è il grande inse­gna­mento della Gre­cia: la sua lotta è la lotta per l’Europa.

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Quante balle sui greci. (1) Mazzuccato: L’errore è nella diagnosi

Sono ore drammatiche quelle che viviamo seguendo le notizie che ci arrivano sulla crisi greca. Purtroppo solo una ricostruzione storica ci farà forse capire cosa c’è stato e come si sono comportati i vari protagonisti, ma noi ci siamo ancora dentro e dobbiamo far di tutto per capire ora. Nella stampa e su internet sono pochissimi gli articoli che danno un buon contributo e soprattutto un contributo di verità. Ci sono anche personaggi che danno giudizi senza conoscere niente o quasi della situazione reale. E’ perfino normale trovare sulla stessa pagina articoli di parere opposto, come oggi su la Repubblica, a p. 28, quella dei commenti.

C’è infatti un articolo notevole di Mariana Mazzuccato, che ripropongo qui sotto, e c’è un disinvolto commento di Corrado Augias (“Atene tra nostalgia e incoscienza”) che con rara superficialità, rispondendo alla lettera di un lettore convinto che i greci (ovviamente tutti) hanno finora vissuto a sbaffo, ignorando “le più banali regole del convivere civile”, arriva a scrivere:

“(…) il duo Tsipras-Varoufakis ha ingannato gli elettori promettendo due cose inconciliabili: finirla con l’austerità dettata da Berlino, tenere l’euro senza rispettarne i requisiti fondativi. (…) Se, come personalmente spero, vincessero i sì, il capo del governo avrà un mandato per decidersi a fare il necessario. E finalmente Yanis Varoufakis potrà tornare ad insegnare.”

Parole per me miserabili, a dir poco.

Sul tema del referendum segnalo anche un articolo di Nadia Urbinati su Huffington Post, “Perché il referendum ‘eccezionale’ di Tsipras ha impresso una svolta nelle trattative”.

Quando l’errore è nella diagnosi
di Nadia Urbinati
IL MOTIVO per cui non si è riusciti a raggiungere un accordo con la Grecia è che la diagnosi era sbagliata fin dal principio: questo ha finito per far ammalare il paziente ancora di più, e oggi il paziente vuole interrompere la cura. Questa triste storia rappresenta un fallimento di immani proporzioni per la Ue.
Come Yanis Varoufakis ripete fin dall’inizio, la Grecia non aveva una crisi di liquidità, ma una crisi di solvibilità, originata a sua volta da una crisi di “competitività”, aggravata dalla crisi finanziaria. E una crisi di questo tipo non può essere risolta con tagli e ancora tagli, ma solo con una strategia di investimento seria accompagnata da riforme serie e non pro forma per ripristinare la competitività. La vera cura.
Invece, fingendo che la Grecia avesse solo una crisi di liquidità ci si è concentrati troppo su pagamenti del debito a breve termine e condizioni di austerity sfiancanti imposte per poter ricevere altri prestiti, che sarà impossibile rimborsare in futuro se non torneranno crescita e competitività. E non torneranno se la Grecia non potrà investire. Un circolo vizioso senza fine.
La realtà è che è impossibile avere un’unione monetaria con competitività tanto differenti. E finora non c’è stata una comprensione chiara di come e perché queste differenze di competitività siano nate. Se da un lato è corretto mettere l’accento sulle riforme fiscali e sulle modifiche all’età pensionabile per riportarle in linea con il resto d’Europa, dall’altro lato si è parlato molto di quello che bisognava buttare non si è parlato per nulla di quello che bisognava costruire. Come in Italia, si è puntato solo a ridurre le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici, le rigidità del mercato del lavoro ( eufemismo che sta per diritti dei lavoratori!), partendo dal presupposto che sbarazzandosi delle inefficienze sarebbe arrivata la crescita. Ma nulla è più lontano dalla verità. C’è molto da costruire, non solo da eliminare, e fin quando non si farà questo la Grecia non arriverà a nulla. E il rapporto debito/Pil aumenterà perché il denominatore (il Pil) rimarrà al palo, anche se il numeratore (il deficit) resterà basso.
La Grecia deve fare quello che la Germania fa (investire), non quello che la Germania dice (tagliare)! Molti criticano la Germania perché investe poco, ma la verità è che negli ultimi decenni la Germania ha investito in tutte le aree decisive non solo per aumentare la produttività, ma anche per creare una crescita trainata dall’innovazione. Aziende come la Siemens, che vince appalti pubblici nel Regno Unito, sono il risultato del dinamismo dell’ecosistema pubblico/privato in Germania, con forti investimenti pubblici sui collegamenti fra scienza e industria; la presenza di una banca pubblica grossa e strategica (la KfW), che offre alle imprese tedesche capitali “pazienti”, impegnati sul lungo termine; un modello di governo d’impresa incentrato sugli stakeholders (i portatori di interesse) e focalizzato sul lungo periodo, invece del modello anglosassone incentrato sugli shareholders (gli azionisti) e focalizzato sul breve periodo, che l’Europa meridionale ha copiato; un rapporto ricerca e sviluppo/Pil superiore alla media; investimenti sulla formazione professionale e il capitale umano; una strategia mission-oriented che punta a rendere “verde” l’intera economia.
Immaginate che risultato diverso (“compromesso”) avremmo avuto se le trattative avessero puntato a far digerire alla Grecia una strategia di investimenti, invece che altri tagli: va bene, noi vi salviamo, ma voi riformate il vostro Paese e mettete in moto investimenti pubblici (del tipo su elencato) per essere pronti per la sfida dell’innovazione del 2020!
Invece, insistere sul proseguimento dello status quo, con abbondanza di altre misure di austerity, ha prodotto una Grecia sempre più debole, più disoccupazione e più perdita di competitività. Alla Grecia bisognava sì somministrare la medicina tedesca, ma quella vera, non quella ideologica. E non dimentichiamo ciò che tanti hanno ripetuto: dopo la seconda guerra mondiale il 60 per cento dei debiti tedeschi fu cancellato. È un altro esempio di come la Germania abbia beneficiato di una medicina, ma ne prescriva una diversa per tutti gli altri.
Tra l’altro è anche vero che questa medicina la Grecia l’ha ingoiata in questi ultimi, dolorosi mesi, ma pochissimi glielo hanno riconosciuto: ha ridotto il disavanzo, tagliato il numero di dipendenti pubblici e alzato l’età pensionabile. Se gli avessero dato maggior respiro, avrebbe potuto fare di più.
Se la Grecia dovesse uscire, l’unica speranza è che l’insistenza di Varoufakis per un programma di investimenti a livello europeo possa almeno trovare una soluzione nazionale. Forse si potrebbe partire dalla creazione di una banca per lo sviluppo come la KfW e usarla per mettere in moto una strategia di investimenti a lungo termine.

L’Italia deve trarre gli insegnamenti giusti da questa tragedia greca. La competitività dell’Italia è scadente quasi quanto quella della Grecia, e fino a questo momento la strategia di investimenti è stata alquanto deficitaria: qualche misura pro forma sull’istruzione, tagli al settore pubblico e tanta attenzione a quello a cui i lavoratori devono rinunciare. Perciò, se ci sarà la Grexit – e l’Europa non si deciderà a portare nella stanza un vero dottore – preparatevi per l’exItalia il prossimo anno.

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