Un NO per ricostruire

Con le uscite mediatiche di questi giorni è partito lo scontro referendario del prossimo ottobre sulle riforme costituzionali volute e portate al quadruplo voto parlamentare da questa variabile maggioranza di governo. Sarà un’estate molto calda su quest’oggetto. Ne va non solo il destino di Renzi e della sua maggioranza, ma di tutti gli italiani, anche di quelli più giovani che in quest’ultimi vent’anni non hanno provato il terreno di battaglia politica fondamentale e che hanno avuto avere un’informazione politica quasi esclusivamente da spot televisivi. In queste settimane cercherò quindi di mantenere la mia attenzione su questo tema, assolutamente vitale per le nostre sorti. E per primo riporto qui sotto un articolo di Giorgio Cremaschi da Micromega (grassetto e evidenziazioni sono mie, ma tutto è importante).

Solo il no alla riforma di Renzi è cambiamento 
di Giorgio Cremaschi
Matteo Renzi ha dato il via alla campagna per il Si alla sua controriforma costituzionale. Non è solo per svalutare le elezioni amministrative, che si preannunciano abbastanza tristi per il suo partito, che ha fatto ora questa scelta. Il plebiscito è l’arma finale di tutti i sistemi autoritari, e spesso viene giocato quando il potere è sicuro di vincerlo. Renzi ricorre a questa arma perché è convinto che solo con una investitura plebiscitaria potrà confermare e consolidare il suo potere.
La domanda è: perché Renzi si sente così sicuro? Sulla carta il referendum sulla legge Boschi è perso per lui. Il PD nei sondaggi viaggia attorno al trenta per cento. Anche aggiungendo tutto il mondo centrista, verdiniano, alfaniano, è difficile pensare che lo schieramento politico per il Si superi il quaranta. Tutte le altre forze politiche, sinistra, destra, Cinque Stelle sono contro. Quindi sulla carta non ci sarebbe partita, ma perché invece Renzi punta tutto su di essa? Perché pensa di sgretolare gli schieramenti politici contando sulla spinta conservatrice, dispersa ma sempre esistente, nel paese. Perché Renzi proporrà al popolo italiano di concludere la lunga marcia più che trentennale di distruzione di principi costituzionali con un sistema organicamente autoritario. Il suo vero messaggio sarà questo: volete dare compimento alla controriforma sociale e politica iniziata negli anni 80 o volete, con il No, il salto nel buio? La sua sarà un campagna profondamente reazionaria, che farà appello a tutti gli istinti antidemocratici che covano nel DNA di una parte del popolo italiano. Basta con i partiti, i sindacati, le proteste ed i conflitti, basta con la democrazia, ci vuole ordine.
Questo il suo messaggio vero, quello su cui conta per vincere. Il resto, l’apologia del cambiamento senza chiarirne la direzione, il giovanilismo e il conflitto generazionale al posto dei contrasti sociali e di interesse, la contrapposizione tra nazione sana per il sì e sabotatori per il no, tutto il resto che Renzi presenta come il suo progressismo, è in realtà una facciata ancora più reazionaria dei contenuti reali del suo progetto.
Ne “Il Gattopardo”, il giovane Tancredi allo zio principe di Salina spiega che perché tutto resti come prima, bisogna che tutto cambi. Da D’Annunzio a Mussolini fino ai giorni nostri la più brutale conservazione del potere costituito, quando quest’ultimo rischiava di essere messo in discussione, si è sempre presentata come rivoluzione del nuovo. Matteo Renzi rientra perfettamente in questa biografia della nazione.
Non c’è nulla di nuovo nella sua controriforma costituzionale. Il centro di essa in realtà non è il cambiamento della Carta, ma la legge ordinaria elettorale. Con l’Italicum il partito di migliore minoranza acquisisce una maggioranza devastante, tutta composta di parlamentari nominati dal capo. Ma non basta avere potere assoluto sul parlamento se non si cambia l’assetto costituzionale. La legge elettorale serve a decidere chi governa, ma la riforma costituzionale gli dà il potere di comandare sul serio. Non c’è niente di nuovo in tutto questo. Da sempre tutte le forze conservatrici e reazionarie in Italia vogliono un capo che faccia il capo senza opposizioni o conflitti che lo disturbino. Lasciatelo lavorare dicevano i fan di Berlusconi nel 1994, ora Renzi realizza i loro desideri.
Non c’è niente di nuovo nella controriforma di Renzi ed è probabile che essa finirebbe nel nulla di altri precedenti tentativi, se a suo favore non giocassero i poteri forti dell’economia e soprattutto il sistema finanziario ed il potere dell’Unione Europea. Questa sarà la carta finale che Renzi giocherà. Se vogliamo che l’Europa ci rispetti, ed a questo scopo lui si diverte ad alzare la voce contro la UE, dobbiamo approvare le riforme. È stato così per la cancellazione dell’articolo 18, un successo renziano che appare anche più grande ora che in Francia il paese è in rivolta contro l’equivalente d’oltralpe del Jobs Act.
Le riforme liberiste e le privatizzazioni sono lo scopo di tutto, per realizzarle e renderle irreversibili serve la controriforma costituzionale. E il primo atto di essa è avvenuto quando ancora il governo attuale non esisteva, con un parlamento, camera e senato, che quasi all’unanimità ha votato la modifica dell’articolo 81. L’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, introdotto come applicazione del fiscal compact nei mesi della massima pressione dello spread, ha già stravolto il significato sociale della Costituzione del 1948.
Allora la stampa conservatrice britannica commentò che con quella decisione Keynes veniva messo fuorilegge. Poco tempo dopo la Banca Morgan chiedeva di mettere definitivamente in soffitta le costituzioni antifasciste europee, ostacolo istituzionale alle riforme liberiste. Ora la legge Boschi e l’Italicum realizzano l’opera, istituzionalizzando il sistema di potere che deve distruggere ciò che resta dello stato sociale. Se misuriamo trenta anni di discesa verso le diseguaglianze sociali, mentre passo dopo passo la nostra democrazia veniva sottomessa ai diktat della Troika, delle banche, della finanza, se pensiamo a tutto questo il Si ratifica la continuità, il No apre la via al cambiamento.
La controriforma costituzionale si sconfigge se si chiarisce il suo scopo autoritario e socialmente reazionario. Accettiamo la sfida di Renzi e proviamo a vincerla.
(4 maggio 2016)

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Il Gattoporto

Noi rossoverdi non siamo presenti in questo Consiglio comunale, ma grazie al Gruppo consigliare “Centrosinistra più avanti insieme” ed al suo capogruppo Marco Terenzi tutti possiamo seguire in maniera documentata e critica la gestione di questa Amministrazione. E’ di ieri un comunicato stampa sul Bilancio Consuntivo 2015 discusso in Consiglio comunale il 28 aprile.

Questa è una possibile sintesi del documento dell’opposizione: (1) il Bilancio 2015 ha avuto un avanzo di 2,5 milioni, da aggiungere ai precedenti 8,4 milioni circa (quindi non c’è nessun buco); (2) la Legge di Stabilità 2015 avrebbe permesso (solo) nel 2016 di “impegnare l’avanzo di amministrazione disponibile accumulato fino al 2014 in progetti definiti ed a disposizione entro il 31/12/2015, da realizzare – appunto – nel 2016” (circa 4 milioni per Portogruaro); (3) la nuova Amministrazione Senatore avrebbe anche “potuto cedere alla Regione, in modo accorto, spazi finanziari che avrebbero potuto essere restituiti nel 2016, accrescendo ulteriormente la capacità di investimento” – così non è, questo tesoretto nel 2016 verrà utilizzato in “minima parte”; (4) infatti, per utilizzare bene il tesoretto, avrebbe dovuto dare una certa continuità a scelte già fatte dalla precedente Amministrazione Bertoncello (tra cui il parcheggio interrato al Pio X); (5) si è preferito spendere soldi freschi sulla nuova (cioè vecchia) viabilità, piuttosto che confermare scelte precedenti già coperte finanziariamente.

Cosa sta accadendo nella mente amministrativa portogruarese? Pensare che in Giunta si stia applicando i principi del taoismo, così ardui da cogliere per noi occidentali, in particolare il Wu Wei, ovvero la legge dell’agire senza agire, mi parrebbe eccessivo, così torna più facile pensare ad una sorta di gattopardismo alla rovescia: “fare niente per cambiare tutto”. Buona fortuna e coraggio a tutti noi!

(Qui sotto ripropongo una scena madre del Gattopardo cinematografico – Luchino Visconti 1963.)

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A Porto siamo proprio nella merda

L’attuale Amministrazione comunale portogruarese, insediatasi a metà luglio 2015, è stata in nove mesi protagonista di diversi clamori, però non certo a causa delle sue grandi scelte politiche ed azioni amministrative o per forti discussioni sulle strategie municipali, ma per una malcelata ostilità contro alcuni profughi qui ospitati, per un’istintiva gaffe razzista, per la violenza di idee vecchie e banali applicate sul centro storico, per una decisione presa contro la comunità sul Giudice di Pace, per penose improvvisazioni tecniche.

Alcuni, forse molti, per un po’ hanno pensato che fosse un problema di preparazione e d’esperienza, sia politica che amministrativa. Ma tanti li avevano votati proprio per questo: meglio degli impreparati che i soliti furbastri della politica, nazionale o locale che sia. Solo così poteva arrivare quella ventata nuova che volevano anche alcuni transfughi Pd, decisivi nel doppio passaggio elettorale per far vincere quest’armata Brancaleone.

Certuni però si sono ricreduti, perché a ben vedere non tutti lì sono così freschi di politica. In maggioranza nel Consiglio comunale, o finora in appoggio di fatto alla nuova Giunta, c’è un po’ di tutto: due dei transfughi (ma uno è un vero zelig, un caso da seguire con curiosità clinica), un noto fondatore di falangi, un grosso residuo del ventennio berlusconiano ancora in doping di potere ma che cerca di rifarsi un minimo di verginità politica e anche una cariatide della Prima Repubblica (ovviamente sempre uguale a se stessa). C’è perfino un pentastellato che tuba e scambia con simili campioni della vecchia politica.

E in Giunta? Lì ci sono un paio di eccellenti professionisti della vita civile, che perlopiù tacciono sulle questioni più generali, ma che evidentemente sono a loro agio anche in un’atmosfera così ammorbante. Un terzo è un altro transfuga, quello finora più premiato come posizione, anche lui opportunamente assai silenzioso. Ma ai vertici della comunicazione, un problema grosso per gli inesperti, ci sono il Sindaco, Maria Teresa Senatore, e l’assessore alle Attività produttive-etc, Luigi Geronazzo (che pare abbia surclassato in ciò la Vice Sindaco, Ketty Fogliani, anche assessore alla Cultura-etc).  E sappiamo tutti cosa facevano o fanno professionalmente costoro, insegnante di scuola materna la prima, imprenditore il secondo. Diciamo che forse hanno avuto una preparazione culturale forgiata soprattutto da dure circostanze lavorative. Non tutti nascono con la camicia.

Questo era dunque il quadro, fino ad oggi. Ma un altro piccolo clamore c’è stato poco dopo la cerimonia del 25 aprile – festa nazionale della Liberazione – da cui si è esclusa la consuetudine ad intonare “Bella ciao”, eseguita però da un buon gruppo di cittadini presenti in piazza della Repubblica. Secondo una breve dichiarazione dell’assessore Geronazzo, il Grande Comunicatore,  la scelta è stata fatta perché (dalla Nuova Venezia di oggi):

“Ci vuole rispetto, crediamo, per quegli italiani che sono andati a combattere in guerra per servire la Patria. Hanno obbedito a una chiamata del Re, senza alcuna bandiera politica.”

Non si capisce cosa questa frase voglia dire dal punto di vista storico. Non c’è accenno alla Resistenza, alla ribellione volontaria di tanti, molti dei quali morti trucidati, proprio come nel nostro corso Martiri della Libertà, ai tedeschi occupanti ed ai repubblichini loro alleati. Non c’è alcun moto di pensiero verso il fascismo italiano, responsabile della sferza interna e dell’alleanza con il nazismo tedesco e quindi anche delle invasioni della Russia, dei Balcani, della Grecia e in Africa. Cos’è dunque questa frase, un’improvvisa afasia personale o un momento di revisionismo storico coerente con una certa linea politica?

Certamente non si tratta d’inesperienza. Il problema è proprio di linea politica e quindi anche morale e culturale. E io penso che questa Giunta abbia finora espresso una mediocre cultura di destra, che sia partita da un livello molto basso di preparazione amministrativa e che anziché migliorare lentamente, con l’umiltà e la costanza necessarie, venga continuamente trascinata dai propri istinti più regressivi e sia già ulteriormente scivolata più in basso, diciamo sotto il livello dove per respirare serve una cannuccia. E noi cittadini portogruaresi dobbiamo sopportare ancora per un po’ questa disgustosa scena.

 

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Samuel Beckett (1906-1989)

Centodieci anni fa nacque Samuel Beckett (13 aprile 1906 – 22 dicembre 1989), uno dei più grandi interpreti letterari del “secolo breve”, che attraversò tutto.

Scriverne brevemente, tentare di sintetizzarne lo spirito, sarebbe piuttosto arduo se non impossibile, così uso il congedo scelto da lui stesso per Collected Poems 1930-1978 del 1984. Si tratta di versi che vengono dagli Addenda di Watt, il romanzo pubblicato nel 1953.

Desidero comunque notare che tra questi otto versi cinque finiscono con il punto interrogativo, l’unica punteggiatura usata. E tra i tanti dubbi, tra i quali notiamo però la “piena coscienza” ed i “tanti dolori”, alla fine c’è perfino quello che tutto sommato non stia succedendo niente, nonostante le parole usate per raccontarlo. Parole messe in rima inglese, quindi squisitamente orale, fonica.

Credo che continuerò a leggere Beckett per sempre. Spero anche dopo.

who may tell the tale
of the old man?
weigh absence in a scale?
mete want with a span?
the sum assess
of the world’s woes?
nothingness
in words enclose?
chi mai la storia fino in fondo
del vecchio potrà raccontare?
pesare su un piatto l’assenza?
valutare in piena coscienza
tutto ciò che viene a mancare?
dei tanti dolori del mondo
stimare la somma e la mole?
rinchiudere il niente in parole?
(Samuel Beckett, Le Poesie, a cura di Gabriele Frasca, Einaudi, Torino 1999)

 

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Verso il referendum (2) Petrolio, la merda del diavolo

ll primo articolo pubblicato riproduceva una posizione favorevole alle trivelle e sostanzialmente giustificazionista delle pressioni che le povere major del petrolio devono fare anche sui sistemi democratici e spiegava così in qualche modo il caso che ha portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi.

Ora riporto qui un secondo articolo, un testo di Guido Viale (autore piuttosto noto tra i miei due lettori), secondo me particolarmente chiaro e sufficiente per spiegare perché andiamo veramente a votare: andiamo a votare per una svolta ecologica, economica, politica e sociale. Niente di meno.

(L’articolo era stato inviato col titolo “Petrolio, la merda del diavolo”, poi cambiato in redazione. Le evidenziazioni sono mie, ma non leggete solo quelle.)

Cambiamento climatico, una rivoluzione obbligata
di Guido Viale
Al vertice sul clima di Parigi i «capi» di 192 paesi hanno preso degli impegni enormi: mantenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto i 2 e possibilmente vicino a 1,5 gradi centigradi. Per questo bisogna evitare di disperdere nell’atmosfera più di mille miliardi di CO2 equivalente di qui al 2100 (ne produciamo 35 miliardi all’anno).
Per raggiungere l’obiettivo i contraenti hanno presentato dei piani nazionali (detti Indc) molto generici, perché non ne viene indicato il «soggetto attuatore» che, per il pensiero unico dominante, non può che essere «il mercato»; non gli stati né i loro governi, né tantomeno il «popolo sovrano» e le sue comunità, ma la finanza.
Il non detto di quei piani è questo: gli interessi dell’industria petrolifera sono talmente grandi che a metterli in forse in tempi rapidi, anche oggi che il prezzo del petrolio è ai minimi, si rischia il tracollo dell’economia mondiale.
Solo a lasciare sottoterra le riserve di idrocarburi che non dovrebbero essere più bruciati per non superare la quantità di emissioni climalteranti che ci separano dai due gradi in più di temperatura si mandano in fumo decine di migliaia di miliardi già quotati in borsa. Poi ci sono gli impianti (trivelle, pipeline, miniere, flotte, raffinerie, centrali termiche, ecc.): altre decine di migliaia di miliardi ancora da ammortizzare (e quando lo sono già, vere mucche da mungere per fare profitti, anche se vanno in pezzi).
Quei piani sono comunque insufficienti a raggiungere l’obiettivo; per cui è già stato stabilito che nel 2020 dovranno essere rivisti al rialzo. E lo si dovrà fare per forza, perché il clima sta già precipitando verso un disastro irreversibile per il pianeta e per la vita umana, cioè per tutti noi, i nostri figli, i nostri nipoti.
Niente sarà più come prima («This changes everything») come ha scritto Naomi Klein: sia che si cerchi di proseguire sulla strada del business as usual, facendo precipitare la crisi climatica; sia che si decida per una vera transizione energetica verso efficienza e fonti rinnovabili: che può essere realizzata solo cambiando radicalmente consumi, prodotti, processi produttivi e soprattutto sistemi di governo dell’economia: nella forma di una vera democrazia partecipata.
«Una rivoluzione»: la scelta obbligata che, seguendo il titolo che è stato dato alla traduzione italiana del libro della Klein, «ci salverà». Le tecnologie per realizzarla sono già disponibili, e potrebbero moltiplicarsi se si dedicasse loro l’attenzione e le risorse che meritano. I costi sono perfettamente affrontabili e i risparmi che ne possono derivare li ripagherebbero in tempi ragionevoli.
Quello che manca è l’organizzazione, che non è la green economy (investire dove i ritorni sono immediati e lasciar perdere tutto il resto), ma la democrazia economica: il controllo delle comunità sulle attività che le vedono impegnate. In termini sintetici: tutto ciò che prolunga in qualsiasi forma la dipendenza dai fossili non fa che ritarare la transizione e renderla più costosa domani, in termini economici, ambientali, umani.
Alcuni driver di una transizione del genere sono già all’opera: le assicurazioni sono a mal partito per i danni creati dagli eventi estremi provocati dai mutamenti climatici; è in corso un processo di disinvestimento dalle risorse fossili da parte degli organismi più avvertiti: dai Rockfeller alla Norvegia, il paese con la popolazione più ricca del mondo grazie al petrolio. I costi impiantistici delle rinnovabili scendono a picco mentre quelli dell’inquinamento da petrolio e carbone vanno alle stelle…
Per questo appare paradossale che, appena rientrato da Parigi, dove come al solito aveva spiegato che nel campo della conversione energetica l’Italia, cioè lui, è più avanti di tutti (tesi ripetuta pochi giorni fa), Renzi e il «cerchio magico» del suo governo si siano dati da fare per spremere fino all’ultima goccia il petrolio che sta sotto i mari e il suolo italiani. Cercando prima di eludere i referendum contro le trivelle a mare, per poi aprire uno scontro frontale con i suoi promotori. E riconfermando e peggiorando il progetto, messo a punto a suo tempo dall’ex ministro Passera, di trasformare il nostro paese in terminale e deposito in conto terzi (cioè per tutta l’Europa) del gas importato dalla Russia e dal Nordafrica; anche a costo di scassare il territorio con un gasdotto e degli stoccaggi che minacciano l’Italia nelle sue zone più sismiche, come l’Aquila e l’Emilia.
D’altronde si tratta di quello stesso Renzi che adora Marchionne (quello che ha assunto 1.000 nuovi operai dopo averne messi alla porta 20.000 in meno di dieci anni) invece di spiegargli che né l’Italia né il resto del mondo hanno bisogno di una jeep per andare a fare la spesa o portare i bambini a scuola; e che prima o poi quei mastodonti dovranno rimanere fermi. E con loro gli operai che li fabbricano.
Insomma, più si sbraccia a presentarsi ed esaltarsi come innovatore e più Renzi si abbarbica alla più superata e nociva delle opzioni economiche: tenere in vita, in tutte le forme, l’economia del petrolio e delle fonti fossili.
Questa è la vera posta in gioco del referendum del 17 aprile: non le misere royalties ricavate dal petrolio, che non valgono il costo che Renzi fa pagare agli italiani per non aver accorpato referendum ed elezioni amministrative; non i pochi, sporchi e insalubri posti di lavoro che verranno a mancare quando arriveranno a scadenza le concessioni che lui vorrebbe confermare a tempo indeterminato; bensì le decine di migliaia di nuovi occupati che un programma di riconversione energetica potrebbe creare – e che in parte avevano cominciato a esser creati prima che Renzi spostasse le sue fiches dalle energie rinnovabili al petrolio, facendone già perdere quasi 80mila – oltre a tutti quelli (turismo, pesca e agricoltura) che il petrolio distrugge; ma, soprattutto, il ritardo e il danno che l’attaccamento alle risorse fossili finirà per imporre a un paese escluso da una riconversione energetica ormai irrinunciabile.
Questo è il tema di fondo, quello che fa della campagna contro le trivelle un momento di informazione, di riflessione e di auto-educazione su una questione ineludibile su cui il governo – ma non solo lui – ha steso un velo mentre avrebbe dovuto metterlo al centro di tutto il suo operato.
Poi viene il resto, che non è poco: cioè il modo in cui petrolio e risorse energetiche vengono estratte e sfruttate, il seguito di inquinamento, di degrado ambientale, di danni alla salute, di vite distrutte, di corruzione e di deficit democratico che l’economia degli idrocarburi si porta dietro. Non solo in Italia.
Il petrolio, come è noto, è la merda del diavolo: che ha fatto piombare tutti i paesi dove viene estratto e lavorato in uno stato di degrado ambientale, sociale e istituzionale tanto maggiore quanto più è consistente la finta ricchezza di cui dovrebbero beneficiare: che è ricchezza per chi se ne appropria, non per chi vive su quei territori.
Guardate il golfo persico, l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Iran, la Nigeria, la Libia, il Texas e le regioni del Canada devastate dall’estrazione delle sabbie bituminose; ma anche la fatica del Venezuela per cercare di liberarsi dal cappio politico del dominio degli Stati uniti sulle sue riserve; e vedrete quasi soltanto distruzione di interi territori e dei paesaggi più belli del mondo, miseria e oppressione delle comunità che hanno la sfortuna di abitarli, prepotenza di chi si avvantaggia di quelle risorse a loro spese.
Così anche l’Italia, nonostante le sue riserve infime, è riuscita a importare – cercando beninteso di tenerle nascoste – buona parte delle disgrazie che accompagnano lo sfruttamento degli idrocarburi in tutto il pianeta: in quel campo «il mercato» è questo; e la «concorrenza» si fa così: corrompendo, inquinando e massacrando cittadini e lavoratori.
Perché quando in gioco ci sono «scambi di favori» un’impresa vale l’altra: Eni e Total pari sono; e quella ricchezza nazionale che il governo dice di voler mettere a frutto può tranquillamente defluire verso le raffinerie e le reti di un concorrente: l’importante è che gli amici degli amici – o i coniugi dei ministri – ne ricavino il loro tornaconto.
(il manifesto, 8 aprile 2016)
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Verso il referendum (1) Perché trivellare in Italia

A ridosso del referendum col quale noi vogliamo “fermare le trivelle”, bisogna avere un’idea chiara di cosa stiamo effettivamente parlando, qual è l’oggetto vero del contenzioso elettorale. Certo, c’è un quesito tecnico che riguarda la possibilità di negare alle compagnie petrolifere la possibilità di tenere aperti i pozzi alla scadenza della concessione già fissata. Le ragioni del SI (cioè no alle trivelle) o quelle del NO (o meglio dell’astensione, la vera arma referendaria di chi è favorevole alle trivelle), in qualsiasi discussione o presa di posizione vengono in realtà coperte da tutta un’altra serie di ragioni economiche, ecologiche, politiche e sociali. Io vorrei dare un paio di esempi, pubblicando due articoli di posizione opposta.

Il primo articolo è di Giorgio Arfaras, un uomo d’affari, ma anche un commentatore molto attivo della vita economica, presente tra l’altro su Linkiesta, il Foglio e Limes. Di quest’ultimo periodico è membro del Consiglio scientifico e ho ancora il ricordo di un suo articolo pubblicato su un numero a stampa del lontano novembre 2011, nel fascicolo “Alla guerra dell’euro”. L’articolo (“L’origine del debito pubblico italiano”) era in parte condivisibile come analisi storica, ma nel finale aveva un assunto particolare sul nascente governo Monti, di cui diceva che “per prima cosa dovrebbe varare la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, prima che le forze politiche lo blocchino. Se farà queste due cose, il resto seguirà. Se attende, le cose si complicheranno”. Com’è noto, Monti fece la riforma delle pensioni, poi si fermò o fu fermato. Il suo successore Letta non fu in grado di fare la riforma del mercato del lavoro a cui pensò il successivo governo Renzi. Io non mi sono mai dimenticato di come Arfaras predisse l’attività futura del Parlamento italiano.

Ecco l’articolo riprodotto dal sito de La Stampa, che non ha bisogno di commenti (le evidenziazioni sono mie).

Perché l’Italia fa gola agli stranieri
di Giorgio Arfaras
L’Italia è un piccolo, ma non trascurabile, produttore di materie prime energetiche. Le stime sul potenziale produttivo variano – si hanno, infatti, le riserve certe e quelle probabili – ma queste sono comunque sufficientemente elevate per attrarre le grandi compagnie nazionali ed estere. Si ha così la produzione, la distribuzione, e lo stoccaggio di materie prime, promosso dalle grandi imprese, proprio come avviene con gli altri paesi produttori. Lo Stato italiano incassa le royalties, l’industria lavora, si costruiscono infrastrutture, mentre cresce l’occupazione in aree poco sviluppate. Il grosso delle riserve è, infatti, stipato in Basilicata. Le stime sulla consistenza delle riserve attuali e potenziali (lo stock) messe a confronto con il consumo corrente (il flusso) indicano un’autonomia dell’Italia delle importazioni per circa un decennio, ossia le nostre riserve sono ben dieci volte i consumi annuali. Tutto bene quindi, se tutti sono avvantaggiati, mentre si riduce la dipendenza energetica.
Eppure, nonostante l’evidenza del “bene comune”, si hanno molti contenziosi. Contenziosi che stanno spingendo le major a frenare i loro progetti: Shell ha annunciato il ritiro dalla Basilicata ed è a rischio anche l’investimento di Total a Taranto, mentre, secondo alcune stime, negli ultimi sei mesi, il potenziale investimento estero nel settore è sceso da 16 a 6 miliardi di euro. I contenziosi che vedono protagonisti grandi investitori esteri non si hanno solo in campo petrolifero, ma anche in altri settori – la grande distribuzione, l’immobiliare, eccetera. Contenziosi legati al negoziato con gli attivisti ambientali, con i magistrati, con i sindacati, ma, soprattutto, con i poteri locali. Tutto ciò frena gli investimenti.
Torniamo all’oggi. Si ha “il ciclo industriale integrato” delle materie prime non rinnovabili, dall’estrazione dai pozzi ai tubi e i depositi. Sono processi che coinvolgono più entità territoriali. Per esempio, dal pozzo in Basilicata fino al porto di Taranto. Se ogni autorità territoriale fosse libera di negoziare le proprie richieste per consentire il passaggio, si avrebbe una rincorsa da parte di tutti per ottenere dei vantaggi a favore di ogni comunità locale. Se così fosse, il ciclo industriale integrato – per procedere – si spezzerebbe in una miriade di mini trattative. Il tempo per costruire si dilaterebbe, così come crescerebbero i costi. Ogni autorità locale promuove il bene della propria comunità, ma l’insieme delle azioni indipendenti di ciascuna comunità non è detto che promuoverebbe il “bene comune”. Il permesso per procedere col ciclo integrato delle materie prime va perciò deciso a livello statale e non locale: il provvedimento “sblocca Italia”. In questo modo si può procedere speditamente, ed è proprio quello che è contestato dalle autorità locali, e dalle varie associazioni ambientaliste, che non accettano che si eluda la loro “sovranità”.
Una compagnia petrolifera che è impegnata in pesanti investimenti pluriennali è perciò più che incentivata a “premere” sull’Autorità centrale affinché “sblocchi” i contenziosi con i poteri locali e con le associazioni ambientaliste. Il punto non è solo la pressione per se, ma la “forza” della pressione. Perché – da quel che si intravvede – si è avuta da parte di Total una pressione così alta, che – se diventa pubblica – è politicamente rischiosa? Un’ipotesi. La caduta del prezzo del petrolio spinge a rinunciare alla ricerca di pozzi nelle zone impervie – come quelle nei mari profondi e nell’Artico. Ricerca che costa moltissimo, e quindi si giustifica solo se il prezzo (atteso in un futuro non troppo remoto) del petrolio si attesta sui 100 dollari al barile. L’incertezza – il prezzo corrente del barile è meno della metà, e l’orizzonte temporale su cui scommettere è troppo lungo – è perciò estrema, e, di conseguenza, anche il rischio che si corre. Intanto il Medio Oriente è sempre più pervaso da tensioni, i rischi politici dell’operare in Russia sotto sanzioni restano alti (il presidente della Total è morto in un incidente aereo a Mosca dove era andato per negoziare con il Cremlino). La scoperta – grazie anche alle nuove tecnologie – di nuovi giacimenti di petrolio e gas nel mondo che possiamo definire “occidentale” (dall’Adriatico, a Cipro, allo shale statunitense) apre per le major europee e americane, da anni sotto pressione da parte dei colossi statali degli arabi e del Sudamerica, una nuova prospettiva. Concentrarsi sui non minuscoli pozzi “continentali“, che sono molto meno costosi – sia in termini di ricerca sia di spese di trasporto – ha quindi senso. Da qui la forte pressione.
Di fronte a questa opportunità riemerge il confronto tra le due visioni dell’Italia: potenza industriale aperta a tecnologie e investimenti, oppure il “Paese della Bellezza” che scommette su ristoranti, spiagge e monumenti, non rovinati da ciminiere, pozzi petroliferi e Internet a banda larga. Le polemiche “giudiziarie” e non nascondono con il fumo l’arrosto, mentre le major, se non trovano un ambiente favorevole, possono preferire dei luoghi con rischi maggiori (come il Golfo), ma con tempi decisionali più rapidi.
(La Stampa, 4 aprile 2016)

 

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Gianmaria Testa (1958-2016)

Il 30 marzo è morto Gianmaria Testa, ferroviere, cantautore, poeta. Ma le sue canzoni, la sua figura poco televisiva, la sua voce e la sua chitarra ci faranno ancora compagnia. Grazie Gianmaria!

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L’acqua è in brutte mani

Chi si affaccia alla pagina principale di questo sito vede subito che tra le parole chiave una di quelle segnate più in grosso è referendum 2011 che permette di rivisitare gli interventi ed i documenti in occasione della battaglia referendarie del giugno 2011. L’ultimo è un commento di Ivo Simonella che cominciava così:

Adesso l’acqua che scorre dai nostri rubinetti è sicuramente più pulita. Non mi riferisco tanto all’aspetto della qualità che sappiamo già essere superiore a molte acque minerali tanto pubblicizzate: è più pulita perché la sua gestione è stata sottratta agli interessi dei privati. I rischi che avremmo corso in caso di sconfitta dei referendum sono noti a tutti, sembra proprio che solo il nostro governo non li conoscesse (logicamente li conosceva benissimo): dovunque si è privatizzato i costi sono aumentati a dismisura e gli investimenti diminuiti, esattamente l’effetto contrario rispetto agli obiettivi che s’intendeva raggiungere.

Dopo neanche cinque anni ci risiamo. In sede parlamentare è partito dal governo Renzi, quindi dal Pd, il nuovo attacco al voto referendario, all’acqua come bene comune, alla democrazia. E’ infatti una manovra in atto da tempo e prevista del decreto Sblocca Italia, ma che va contro la chiara volontà popolare espressa nel referendum. E tutto sommato si tratta proprio di un favore – quello di poter aumentare i prezzi dell’acqua – a poche e grosse imprese già esistenti, non certo di particolari innovazioni e riforme di cui premier e ministri si riempiono quotidianamente la bocca.

Riporto per esteso un commento odierno pubblicato su il manifesto (il grassetto è mio).

Democrazia scippata
di Marco Bersani
Quello che i parlamentari del Pd da una parte, e il Governo Renzi-Madia dall’altra, stanno portando avanti in questi giorni sulla questione dell’acqua, è di una gravità estrema.
Partiamo dai fatti. Nel 2007 il movimento per l’acqua aveva presentato, corredata da 406.000 firme, una legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua e la sua gestione partecipativa. Quella legge, mai portata in discussione nelle istituzioni fino alla decadenza, è stata ripresentata in questa legislatura da un intergruppo di parlamentari (M5S, Sel e alcuni Pd), in diretto accordo con il Forum italiano dei movimenti per l’acqua. La legge è finalmente approdata alle Camere, ma, all’ultima curva prima del traguardo, con la sorpresa di emendamenti Pd – votati anche dai parlamentari proponenti della legge (!)- che, abrogando l’articolo che prevedeva modi e tempi per il ritorno alla gestione pubblica di ogni situazione territoriale oggi in mano ai privati, ne stravolge il cuore e il senso.
Con questo atto, il Pd pone una cesura irreversibile non solo con il movimento per l’acqua, ma con l’idea stessa di democrazia diretta, come iniziativa legislativa posta in essere direttamente da centinaia di migliaia di cittadini.
Nel contempo, oltre 26 milioni di donne e di uomini di questo Paese si sono pronunciati, nel referendum del giugno 2011, per l’uscita dell’acqua dal mercato e dei profitti dall’acqua, attraverso un’esperienza di straordinaria partecipazione dal basso e un percorso di alfabetizzazione sociale senza precedenti.
Anche quel pronunciamento è oggi sotto attacco diretto: è stato diffuso, sempre in questi giorni, il Testo Unico sui servizi pubblici locali, decreto attuativo della Legge Madia n. 124/2015, che si prefigge – letteralmente – gli obiettivi di «ridurre la gestione pubblica dei servizi ai soli casi di stretta necessità» e di «garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati».
In quel testo, è contenuto l’obbligo di gestione dei servizi pubblici locali a rete attraverso società per azioni (art. 7, comma 1); nonché l’obbligo, laddove la società per azioni sia a totale capitale pubblico, di rendere conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato (comma 3), di presentare un piano economico-finanziario relativo a tutta la durata dell’affidamento, sottoscritto da un istituto di credito (comma 4), di acquisire il parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (comma 5).
E, affinché sia chiaro a tutti come l’anomalia referendaria vada definitivamente consegnata agli archivi, ecco ricomparire, dopo anni con cui si era tentato di nasconderla dentro la dicitura «oneri finanziari», l’”adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (art. 25, comma 1) nella composizione della tariffa, nell’esatta dicitura che 26 milioni di cittadini avevano democraticamente abrogato.
Il disprezzo della volontà popolare e della democrazia non poteva essere meglio esternato.
Dopo aver annichilito il paese con la trappola-shock del debito pubblico ed averlo rinchiuso nella gabbia del pareggio di bilancio, del patto di stabilità e dei vincoli monetaristi, le grandi lobby finanziarie, grazie ai provvedimenti del governo Renzi, si apprestano ora ad espropriarlo dell’acqua, dei beni comuni e di tutto ciò che a tutti appartiene.
Alle donne e agli uomini che, in tutti questi anni, hanno detto chiaramente come l’acqua e i beni comuni siano garanzia di diritti universali, da sottrarre al mercato e da restituire alla gestione partecipativa delle comunità territoriali, il compito di fermarli.
Perché, oggi più che mai, si scrive acqua, si legge democrazia.

(il manifesto, 16 marzo 2016)

 

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Regalare un figlio

Sul tema della maternità surrogata noi italiani siamo un po’ in ritardo, nella prassi ma anche nella discussione, tant’è che lo chiamiamo “utero in affitto”, espressione che suona piuttosto di disprezzo. Qui da noi si legge proprio poco di quanto si fa nel mondo. Così riproduco un articolo del manifesto che con un’intervista racconta un caso specifico, con motivazioni, implicazioni legali, tecniche e complicazioni del caso. (Metto in evidenza una risposta.)

La scelta di Kathy, «un regalo speciale»
di Luca Tancredi Barone
Intervista. Le ragioni che hanno spinto una donna americana a decidere di partorire una bimba per una coppia che non può avere figli
C’è un fantasma che ieri si aggirava per il Circo Massimo. È lo spauracchio che brandiscono le famiglie «canoniche», la minaccia che mina i pilastri della società italica maschia, ordinata ed eterosessuale. È il male assoluto che temono uomini e donne di destra e di sinistra, eterosessuali e anche molti e molte omosessuali. Ha la faccia di Kathy, trentanovenne statunitense, acconciatrice ed estetista, due figlie di 9 e 6 anni, un marito italiano. E un sorriso bellissimo. Lei ha scelto di essere una gestante per altri, una madre surrogata. Le tre parole che secondo lei definiscono le persone che decidono di fare la sua scelta sono «altruismo, orgoglio, regalo».
Perché ha deciso di prestarsi a portare in grembo il figlio di qualcun altro?
C’è una cosa che unisce me e mio marito: la voglia di aiutare gli altri, di restituire alla società qualcosa in cambio di tutte le opportunità che abbiamo ricevuto dalla vita. Ognuno ha scelto di farlo a modo suo. Essere gestante per altri è una cosa speciale che possono fare solo le donne. Sapevo che non desideravamo altri figli per noi. L’esperienza delle mie gravidanze mi era piaciuta. Durante la mia vita ho conosciuto moltissime coppie frustrate per le loro difficoltà ad avere figli. E ho un’amica del liceo che lo ha fatto, leggere il suo blog mi ha ispirato.
Che bisogna fare per diventare gestanti per altri?
Io mi sono rivolta a un’agenzia. Negli Stati Uniti ce ne sono decine. Io ne ho scelta una che lavorava localmente con madri e coppie del Texas e gestita da una donna. Bisogna fare domanda, superare una serie di esami psicologici, fisici ed economici. Ovviamente vogliono che tu sia fisicamente sana, ma anche che sia una persona equilibrata, capace di saper gestire le difficoltà – a volte ci vuole del tempo per rimanere incinta -, di saperti mettere in relazione con gli altri – perché dovrai mantenere un rapporto con i futuri genitori durante tutto il processo -, che abbia già avuto figli, e che non abbia alcuna difficoltà finanziaria o bisogno di denaro.
Come ha incontrato i futuri genitori?
La prima coppia che ho incontrato era una coppia eterosessuale. All’inizio, ti ci fanno parlare per telefono, poi ti incontri da qualche parte per chiacchierare. Ma con quella coppia non c’è stata chimica. Il marito era simpatico, ma la moglie era troppo ossessiva. Avevo l’impressione che avrebbe voluto controllare la mia vita, quello che mangiavo, quando riposavo. Così ho chiesto all’agenzia di farmi incontrare una coppia gay, perché mi sembrava che così nessuno avrebbe voluto amministrare il mio corpo. Per me è importante stabilire una relazione di fiducia: fai quel che è giusto, ci fidiamo. Dopo una settimana ho incontrato questa coppia di papà: tra l’altro, uno dei due è italiano, all’agenzia sembrava l’accoppiamento ideale con noi. Una donatrice anonima ha fornito gli ovuli, ed è nata una bella bambina 11 mesi fa.
Lo rifarebbe? Com’è stata l’esperienza?
Dal punto di vista emotivo e mentale, bellissima. Fisicamente invece ci sono state delle complicazioni gravi alla fine della gravidanza. Tanto che è finita con un’isterectomia, per cui non lo potrei rifare, no.
Un trauma, quindi.
Ci siamo spaventati quando abbiamo saputo che la placenta era cresciuta fuori dall’utero e che questo avrebbe potuto mettere in pericolo la mia vita. Mi hanno costretto al riposo assoluto. È durata tre settimane, fino al parto che è stato anticipato per questo. C’è stata una convalescenza più lunga che per un cesareo normale, ma si sono tutti presi cura di me, anche i papà della bimba. Io davo loro il latte – anche se questa è una scelta libera di ciascuna gestante – e loro mi portavano i pasti in ospedale. Ma, spavento a parte, l’esperienza è stata comunque molto bella.
Come lo ha spiegato a suo marito e alle sue figlie?
Con mio marito è stato facile: condivide il desiderio di aiutare chi ne ha bisogno. Con loro anche: ho dato loro una spiegazione molto concreta. Farò crescere un bimbo che non è mio per una famiglia che non lo può fare. Alle poche domande che hanno fatto, abbiamo risposto con tutta la precisione necessaria. Abbiamo anche spiegato la scienza che c’è dietro, che un dottore ha messo assieme le cellule e le ha messe dentro di me. Ora la adorano, e la trattano come una cuginetta.
Quindi mantenete i contatti con loro?
Certo. Sono una coppia bellissima, siamo diventati molto amici. C’è un’ammirazione reciproca. Loro, molto affettuosi, mi definiscono addirittura la loro hero. Li capisco, chiunque faccia questo regalo a una coppia sterile diventa il loro eroe.
E gli amici, come hanno reagito?
In generale, bene. Solo una mia amica, il cui marito è stato adottato, mi ha chiesto: perché non adottano invece di ricorrere a questa tecnica? Ma a parte lei, gli unici problemi sono venuti dal lato italiano della famiglia. Hanno fatto un sacco di domande. Sono sicura che non erano del tutto sinceri con me – penso che non abbiano capito davvero tutto il processo, anche se non mi hanno mai criticata apertamente. Ma i silenzi a volte possono essere molto espliciti.
Ci sono molte donne che credono che sia una violenza separare un figlio dalla madre biologica, e che prestarsi a portare il figlio di altri sia una forma di schiavitù femminile.
Mi sembra ridicolo. Non stai separando nessuno dai suoi genitori, non lo penso io e non lo penserà neppure lei quando crescerà. Non perché sia uscita dal mio grembo necessariamente ha a che vedere con me. La sua famiglia lei ce l’ha. Quanto alla schiavitù. Ovviamente, c’è una linea sottile. Sì, sono stata compensata anche io. Ma le dirò una cosa: la fatica non vale proprio i soldi che ti danno! All’inizio devi sottometterti a iniezioni dolorose per dieci settimane. Prendere farmaci e ormoni. Poi la fatica della gravidanza. E magari, come nel mio caso, finisci col rischiare la vita. Nessuna quantità di denaro ti ripaga per tutto questo. Ci saranno persone che lo fanno per soldi, non lo so. Ma la maggior parte delle persone lo fa per altri motivi. Quanto ai soldi, io la vedo così. Se esci la sera e devi prendere una baby sitter, o devi mandare tuo figlio all’asilo, paghi qualcuno per prendersi cura di tuo figlio o tua figlia. Per me è lo stesso per la surrogazione: paghi una persona perché si prenda cura di tuo figlio per nove mesi e per assicurarti che prenda tutte le precauzioni possibili per non fargli del male.
C’è una regolamentazione giuridica per tutto ciò?
Oh sì! Prima ancora di cominciare devi firmare 200 pagine di contratto legale, in cui c’era scritto che io ero solo responsabile di prendermi cura di me stessa. Nel contratto si esplicitava tutto. Per dire, loro avevano l’obbligo di identificare 3 persone di backup disposte a prendere in adozione il bambino nel caso fossero morti in un incidente prima del parto. È tutto molto controllato per proteggere la portatrice, i genitori e anche il bambino.
Sa che in Italia qualcuno ha proposto di condannare con due anni di carcere e un milione di multa chiunque faccia uso di questa tecnica per ottenere un figlio?
Sono basita. Pensa che, nel nostro caso, il papà “principale”, quello che è apparso subito sul certificato di nascita del bimbo, è proprio l’italiano. Ma lo trovo anche interessante. Nella mia agenzia, ho conosciuto una donna che venne dall’Italia e che finse con la sua famiglia di essere rimasta incinta negli Stati Uniti. Tornò a casa con il bimbo, senza raccontare come l’aveva avuto davvero. Mi era sembrato curioso. Ora la capisco molto meglio.
(31 gennaio 2016)
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Un Eco per sempre

Mentre a Milano si stanno svolgendo i laici funerali di Umberto Eco (5 gennaio 1932 – 19 febbraio 2016), riproduco un testo ripubblicato dal sito dell’Espresso in occasione della sua scomparsa. Il testo originale era del 1997. (I link sono miei.)

Come prepararsi serenamente alla morte
Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo

di Umberto Eco 
Non sono sicuro di dire una cosa originale, ma uno dei massimi problemi dell’essere umano è come affrontare la morte. Pare che il problema sia difficile per i non credenti (come affrontare il Nulla che ci attende dopo?) ma le statistiche dicono che la questione imbarazza anche moltissimi credenti, i quali fermamente ritengono che ci sia una vita dopo la morte e tuttavia pensano che la vita della morte sia in se stessa talmente piacevole da ritenere sgradevole abbandonarla; per cui anelano, sì, a raggiungere il coro degli angeli, ma il più tardi possibile.
Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: “Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?” Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni.
Allo stupore di Critone ho chiarito. “Vedi,” gli ho detto, “come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni sono intesi solo a dare notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da un provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.
Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?”
Critone mi ha allora domandato: “Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?” Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.
Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) siano coglioni, è effetto di un’arte sottile e accorta, non è disposizione del primo Cebete con l’anellino all’orecchio (o al naso). Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire.
Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno per giorno i mass-media, le affermazioni degli artisti sicuri di sé, gli apoftegmi dei politici a ruota libera, i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all’incontro con la morte.
Sino alla fine dovrai resistere a questa insostenibile rivelazione, ti ostinerai a pensare che qualcuno dica cose sensate, che quel libro sia migliore di altri, che quel capopopolo voglia davvero il bene comune.
E’ naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perché varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perché vale la pena (anzi, è splendido) morire.
Critone mi ha allora detto: “Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione”. “Vedi”, gli ho detto, “sei già sulla buona strada.”
L’Espresso, 12 giugno 1997
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