Verso il referendum (1) Perché trivellare in Italia

A ridosso del referendum col quale noi vogliamo “fermare le trivelle”, bisogna avere un’idea chiara di cosa stiamo effettivamente parlando, qual è l’oggetto vero del contenzioso elettorale. Certo, c’è un quesito tecnico che riguarda la possibilità di negare alle compagnie petrolifere la possibilità di tenere aperti i pozzi alla scadenza della concessione già fissata. Le ragioni del SI (cioè no alle trivelle) o quelle del NO (o meglio dell’astensione, la vera arma referendaria di chi è favorevole alle trivelle), in qualsiasi discussione o presa di posizione vengono in realtà coperte da tutta un’altra serie di ragioni economiche, ecologiche, politiche e sociali. Io vorrei dare un paio di esempi, pubblicando due articoli di posizione opposta.

Il primo articolo è di Giorgio Arfaras, un uomo d’affari, ma anche un commentatore molto attivo della vita economica, presente tra l’altro su Linkiesta, il Foglio e Limes. Di quest’ultimo periodico è membro del Consiglio scientifico e ho ancora il ricordo di un suo articolo pubblicato su un numero a stampa del lontano novembre 2011, nel fascicolo “Alla guerra dell’euro”. L’articolo (“L’origine del debito pubblico italiano”) era in parte condivisibile come analisi storica, ma nel finale aveva un assunto particolare sul nascente governo Monti, di cui diceva che “per prima cosa dovrebbe varare la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, prima che le forze politiche lo blocchino. Se farà queste due cose, il resto seguirà. Se attende, le cose si complicheranno”. Com’è noto, Monti fece la riforma delle pensioni, poi si fermò o fu fermato. Il suo successore Letta non fu in grado di fare la riforma del mercato del lavoro a cui pensò il successivo governo Renzi. Io non mi sono mai dimenticato di come Arfaras predisse l’attività futura del Parlamento italiano.

Ecco l’articolo riprodotto dal sito de La Stampa, che non ha bisogno di commenti (le evidenziazioni sono mie).

Perché l’Italia fa gola agli stranieri
di Giorgio Arfaras
L’Italia è un piccolo, ma non trascurabile, produttore di materie prime energetiche. Le stime sul potenziale produttivo variano – si hanno, infatti, le riserve certe e quelle probabili – ma queste sono comunque sufficientemente elevate per attrarre le grandi compagnie nazionali ed estere. Si ha così la produzione, la distribuzione, e lo stoccaggio di materie prime, promosso dalle grandi imprese, proprio come avviene con gli altri paesi produttori. Lo Stato italiano incassa le royalties, l’industria lavora, si costruiscono infrastrutture, mentre cresce l’occupazione in aree poco sviluppate. Il grosso delle riserve è, infatti, stipato in Basilicata. Le stime sulla consistenza delle riserve attuali e potenziali (lo stock) messe a confronto con il consumo corrente (il flusso) indicano un’autonomia dell’Italia delle importazioni per circa un decennio, ossia le nostre riserve sono ben dieci volte i consumi annuali. Tutto bene quindi, se tutti sono avvantaggiati, mentre si riduce la dipendenza energetica.
Eppure, nonostante l’evidenza del “bene comune”, si hanno molti contenziosi. Contenziosi che stanno spingendo le major a frenare i loro progetti: Shell ha annunciato il ritiro dalla Basilicata ed è a rischio anche l’investimento di Total a Taranto, mentre, secondo alcune stime, negli ultimi sei mesi, il potenziale investimento estero nel settore è sceso da 16 a 6 miliardi di euro. I contenziosi che vedono protagonisti grandi investitori esteri non si hanno solo in campo petrolifero, ma anche in altri settori – la grande distribuzione, l’immobiliare, eccetera. Contenziosi legati al negoziato con gli attivisti ambientali, con i magistrati, con i sindacati, ma, soprattutto, con i poteri locali. Tutto ciò frena gli investimenti.
Torniamo all’oggi. Si ha “il ciclo industriale integrato” delle materie prime non rinnovabili, dall’estrazione dai pozzi ai tubi e i depositi. Sono processi che coinvolgono più entità territoriali. Per esempio, dal pozzo in Basilicata fino al porto di Taranto. Se ogni autorità territoriale fosse libera di negoziare le proprie richieste per consentire il passaggio, si avrebbe una rincorsa da parte di tutti per ottenere dei vantaggi a favore di ogni comunità locale. Se così fosse, il ciclo industriale integrato – per procedere – si spezzerebbe in una miriade di mini trattative. Il tempo per costruire si dilaterebbe, così come crescerebbero i costi. Ogni autorità locale promuove il bene della propria comunità, ma l’insieme delle azioni indipendenti di ciascuna comunità non è detto che promuoverebbe il “bene comune”. Il permesso per procedere col ciclo integrato delle materie prime va perciò deciso a livello statale e non locale: il provvedimento “sblocca Italia”. In questo modo si può procedere speditamente, ed è proprio quello che è contestato dalle autorità locali, e dalle varie associazioni ambientaliste, che non accettano che si eluda la loro “sovranità”.
Una compagnia petrolifera che è impegnata in pesanti investimenti pluriennali è perciò più che incentivata a “premere” sull’Autorità centrale affinché “sblocchi” i contenziosi con i poteri locali e con le associazioni ambientaliste. Il punto non è solo la pressione per se, ma la “forza” della pressione. Perché – da quel che si intravvede – si è avuta da parte di Total una pressione così alta, che – se diventa pubblica – è politicamente rischiosa? Un’ipotesi. La caduta del prezzo del petrolio spinge a rinunciare alla ricerca di pozzi nelle zone impervie – come quelle nei mari profondi e nell’Artico. Ricerca che costa moltissimo, e quindi si giustifica solo se il prezzo (atteso in un futuro non troppo remoto) del petrolio si attesta sui 100 dollari al barile. L’incertezza – il prezzo corrente del barile è meno della metà, e l’orizzonte temporale su cui scommettere è troppo lungo – è perciò estrema, e, di conseguenza, anche il rischio che si corre. Intanto il Medio Oriente è sempre più pervaso da tensioni, i rischi politici dell’operare in Russia sotto sanzioni restano alti (il presidente della Total è morto in un incidente aereo a Mosca dove era andato per negoziare con il Cremlino). La scoperta – grazie anche alle nuove tecnologie – di nuovi giacimenti di petrolio e gas nel mondo che possiamo definire “occidentale” (dall’Adriatico, a Cipro, allo shale statunitense) apre per le major europee e americane, da anni sotto pressione da parte dei colossi statali degli arabi e del Sudamerica, una nuova prospettiva. Concentrarsi sui non minuscoli pozzi “continentali“, che sono molto meno costosi – sia in termini di ricerca sia di spese di trasporto – ha quindi senso. Da qui la forte pressione.
Di fronte a questa opportunità riemerge il confronto tra le due visioni dell’Italia: potenza industriale aperta a tecnologie e investimenti, oppure il “Paese della Bellezza” che scommette su ristoranti, spiagge e monumenti, non rovinati da ciminiere, pozzi petroliferi e Internet a banda larga. Le polemiche “giudiziarie” e non nascondono con il fumo l’arrosto, mentre le major, se non trovano un ambiente favorevole, possono preferire dei luoghi con rischi maggiori (come il Golfo), ma con tempi decisionali più rapidi.
(La Stampa, 4 aprile 2016)

 

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