Eddyburg

Questa è la notizia pubblicata nelle pagine culturali odierne de la Repubblica.

È EDDYBURG.it il vincitore della terza edizione del Premio Silvia Dell’Orso, che ogni anno attribuisce un riconoscimento a chi si sia distinto per la divulgazione della tutela del patrimonio culturale e di una corretta pianificazione di città, territorio e paesaggio. Il premio è stato consegnato all’urbanista Edoardo Salzano, fondatore e direttore del sito. Una segnalazione è andata al blog archeologia in rovina.it. Il premio è intitolato a Silvia Dell’Orso, la giornalista e scrittrice, collaboratrice anche di Repubblica, scomparsa tre anni fa.

Modestamente, io vorrei confermare che il sito è molto bello e adesso è anche rinnovato. Chiunque sia interessato ai problemi dell’urbanistica, del territorio e del paesaggio, sempre in chiave culturale e politica, non solo tecnica, non può non visitarlo giornalmente.

Il sito di Eddyburg, fondato e gestito da Edoardo Salzano (Eddy) è sempre tra i links di questo blog.

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“Ma l’economia è democratica?”

Questo è il titolo del bell’articolo di Luigi Ferrajoli pubblicato sull’ultimo numero de Lo straniero, la rivista di arte, cultura, scienza, società, fondata e diretta da Goffredo Fofi.

L’articolo non è lungo e si divide in tre parti:
(1) La crisi, i mercati e il rapporto tra economia e politica
(2) La crisi della democrazia, dello stato di diritto e dello Stato
(3) Come si esce dalla crisi?

La terza parte non pone solo la domanda, ma contiene le risposte. Nessuna grande novità, ma merita la lettura per la grande sintesi e lucidità.

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Crisi e profezia Maya

E’ sempre più triste ed impressionante la lettura delle cronache quotidiane. Anche chi come me tendenzialmente evita di leggere i dettagli di incidenti e disgrazie non può più evitare o ignorare i casi sempre più frequenti di suicidi legati alle difficoltà economiche. Come il caso riportato oggi dalla Nuova Venezia della morte di un giovane barista di Treviso: 37 anni bruciati dall’angoscia dei debiti. Ma ce n’è quasi tutti i giorni.

C’è da impazzire se accanto alla cronaca nera si leggono poi articoli di analisi e commento sullo stato dell’economia. In molti casi sembra che si parli di un altro mondo. Ci sarebbero due mondi paralleli, come in un film di fantascienza. Questo anche quando non c’è tutto il cinismo di chi ci sta a spiegare che finora abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità o lavoriamo meno che in Germania.

E’ il caso di un altro articolo odierno sullo stesso quotidiano locale [a p.15, verrà linkato appena sarà online]: “Fine della crisi non prima del 2014” – Fondazione Nord Est: «Per avere un nuovo sviluppo serve una visione in 3D». Le 3D sono (1) la “coesione sociale e richiama a un ripensamento del welfare”, (2) il “sistema produttivo, che deve diventare immateriale”, e (3) la terza dimensione è “quella delle istituzioni e dei territori sistemici”.

Ma il buon giornalista (si firma m.mar.) riporta anche questa sintesi:

“Il collante di un Nordest in grado di guardare in tre dimensioni dovrebbe essere quello di una politica capace di fare il suo mestiere in un clima che è fortemente deteriorato quanto a fiducia. Il confronto 2008-2012, a questo riguardo, segna una caduta di 13 punti percentuali per i politici nazionali ed europei, 12 punti perdono anche i politici regionali; le banche registrano addirittura un venti percento in meno.”

Dunque, dobbiamo cambiar tutto, il legame sociale, come preferisco chiamarlo io, il sistema produttivo e le istituzioni, in senso lato, ma chi dovrebbe farlo, la politica, è in sfacelo. E’ chiaro che per pensare all’uscita dalla crisi in tempi brevi alla Fondazione Nord Est pensano a qualcosa di apocalittico, non lo dicono ma lo pensano. Forse aspettano la cosiddetta “fine del mondo” del calendario maya, cioè la data 21-12-2012. Ormai ci siamo, mancano solo 15 giorni.

Ma stiamo calmi. Purtroppo ci sarà solo un allineamento di tre pianeti, Marte, Giove e Saturno. L’umanità è ancora così fragile che trema ancora in presenza di una triade, anche se stavolta indica solo una retta. Per uscire dalla crisi serve qualcos’altro.

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Grazie Pigio

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=qB-JVbQ0DFs[/youtube]

Ho visto Pierluigi Bersani al Tg3 a Porto, ma anche sul video di Stefano Zanet, mentre Laura Puppato era a Torino (vedi video qui sopra dal Tg3 Piemonte).

Lei ha detto cose interessanti sulla difesa dei diritti civili e dell’ambiente e anche sulla TAV. Non ricordo tanta chiarezza su questi temi, ma posso ammettere che non la seguo così assiduamente. Comunque auguro a Laura Puppato di vincere, o di perdere bene. Così sarà molto più forte qui nel Veneto, dove abbiamo bisogno di una bella alleanza su queste sue posizioni.

Invece Bersani, almeno quello che ha parlato al mercato, non ha detto granché sui contenuti. Ha detto: “siamo un esercito in movimento”. E ha detto che qualcuno ci ha portato al disastro, “perché non si riusciva a toglierlo di lì”. Ha aggiunto due parole: “moralità e lavoro”. Grazie Pigio (così lo chiama suo fratello), avevamo bisogno di certe conferme.

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Un anno a perdere

Pubblico l’articolo di Pitagora da Sbilanciamoci.info (il grassetto è mio).

Dopo un anno di governo Monti l’economia italiana sta peggio di prima. La situazione della finanza pubblica è peggiorata, la recessione è più grave, la distribuzione del reddito più disuguale. E nel 2013 tutto diventerà più difficile per i vincoli del Fiscal compact. Così, le alternative per la politica economica sono due…
È trascorso un anno dall’insediamento del governo di Mario Monti. Dopo la fine ingloriosa dell’egemonia berlusconiana, culminata con l’umiliazione subita dall’Italia al vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione Europea di Cannes, il Capo dello stato incaricò il Professor Monti di dar vita a un nuovo governo con l’obiettivo di riacquistare la credibilità internazionale che, anche sui mercati finanziari, era stata perduta dal nostro paese; gran parte degli italiani appoggiò la scelta. I principali problemi da risolvere erano il risanamento delle finanze pubbliche e il riavvio della crescita economica, in un quadro segnato da un debito elevato e condizioni di rifinanziamento molto onerose; si trattava di due obiettivi difficili da raggiungere perché potenzialmente confliggenti.
Sebbene l’investitura di Monti non venisse dalla scelta elettorale dei cittadini, il suo programma presentava elementi di straordinarietà, incidendo su molteplici aspetti della vita sociale e dei rapporti di produzione. Il sostegno parlamentare, inizialmente pressoché unanime, ha dato legittimità a un esecutivo “tecnico” che ha effettuato scelte politiche forti e di parte; l’assenza di un mandato elettorale ha rappresentato un vulnus costitutivo che è stato talvolta interpretato in termini di irresponsabilità.
Qual è il bilancio di un anno di governo? L’azione di Mario Monti è stata favorita dalla Banca centrale europea, prima con operazioni non convenzionali di rifinanziamento a lungo termine – circa mille miliardi di euro forniti alle banche europee (oltre 200 miliardi a quelle italiane) al tasso dello 0,75% –, poi con la disponibilità, condizionata, ad acquistare titoli di stato a breve in misura illimitata; le condizioni sui mercati sono parzialmente migliorate, ma lo spread rispetto ai tassi d’interesse tedeschi resta oggi intorno ai 350 punti e il paese deve sostenere una spesa per interessi significativamente superiore ai circa 80 miliardi di euro dell’anno passato.
Del tutto negativi sono stati i risultati per l’economia reale, peggiori rispetto alle attese, ripetutamente riviste al ribasso dal governo. I numerosi interventi “strutturali”, tra i quali quelli brutali della riforma Fornero sul mercato del lavoro, i tagli alle pensioni e altre misure che hanno colpito le categorie più deboli, non hanno evitato all’economia italiana una spirale recessiva. Il Pil del 2012 è diminuito di circa il 2,3%, la domanda interna è calata in misura superiore, mentre la condizione delle famiglie è in costante peggioramento. Sono in aumento le persone che faticano ad arrivare alla fine del mese e quelle che sono costrette a intaccare i risparmi; è cresciuto il numero di chi ritiene opportuno accantonare parte del reddito, ma sono sempre meno coloro che vi riescono. È proseguita la diminuzione della ricchezza, anche se rimane elevata nel confronto internazionale; è ulteriormente aumentata la concentrazione sia del reddito, sia della ricchezza.
La disoccupazione è cresciuta a ritmi elevati, così come il ricorso alla cassa integrazione; anche il numero delle persone occupate è diminuito, così come il monte ore complessivamente lavorato nel paese. Per i giovani è diventato più difficile trovare un’occupazione, anche di una sola ora a settimana e con contratti a termine – il dato statisticamente sufficiente per entrare nella categoria degli “occupati”. Per di più, in media, la qualità dei nuovi lavori è più scadente rispetto al passato, anche di quello recente.
Il calo della domanda di consumi ha aggravato la riduzione della produzione e degli investimenti da parte delle imprese. La piccola ripresa della produzione industriale registratasi in estate non è stata confermata dai primi dati dell’autunno. Anche le esportazioni, l’unico comparto che ha sostenuto l’attività economica, sono in rallentamento, anche per la decelerazione della Germania e degli altri paesi del nord Europa. La bilancia delle partite correnti con l’estero, pur in miglioramento grazie al saldo positivo delle merci, rimane negativa. Tra le imprese rimangono diffuse le strategie di delocalizzazione dell’attività produttiva in paesi esteri.
Negli ultimi anni, con bassi livelli di domanda, la dinamica dei prezzi è stata contenuta. La moderata inflazione registratasi nei primi mesi dell’anno è stata causata dall’aumento delle imposte indirette e dei prezzi dei beni importati, in particolare di quelli dell’energia. Nel bimestre settembre-ottobre la media dei prezzi al consumo è rimasta invariata; nell’ultima parte dell’anno, si dovrebbe registrare un calo, anche per la lieve diminuzione del prezzo in euro del petrolio. Anche il valore degli immobili, soprattutto di quelli non residenziali, è in forte diminuzione. Persistendo la negativa dinamica dei consumi, potrebbe manifestarsi il pericolo di una riduzione generalizzata dei prezzi (deflazione).
Secondo le previsioni del governo, la ripresa produttiva dovrebbe avvenire nel secondo semestre del prossimo anno, quando l’economia tornerebbe a crescere. Si tratta di una prospettiva rosea che presuppone la ripresa della domanda interna e l’intensificazione di quella estera. Le aspettative a medio e lungo termine delle famiglie non sono favorevoli, anche perché influenzate dagli interventi strutturali sui rapporti di lavoro, che hanno reso più semplici i licenziamenti, e dalla riduzione dei salari corrisposti in via differita, in conseguenza della riforma delle pensioni. Con le attuali linee di politica economica è improbabile che la ripresa possa materializzarsi.
Cattive notizie vengono inoltre dalla finanza pubblica; anche qui il governo ha più volte rivisto al ribasso i propri obiettivi. Il rapporto debito/Pil, il parametro che più influenza la vulnerabilità del debito dello Stato, ha superato il 126%, quasi sei punti percentuali in più rispetto all’anno precedente; alla crescita ha contribuito il fabbisogno finanziario dello stato, nei primi nove mesi dell’anno quasi identico a quello dei due anni precedenti, e la diminuzione del prodotto, anche di quello espresso a valori correnti. Malgrado le numerose e pesanti manovre fiscali, tra le quali l’introduzione dell’Imu, l’innalzamento dell’aliquota ordinaria Iva, l’inasprimento delle accise sui carburanti, le maggiori imposte di bollo, oltre al fiscal drag e alle ancora insufficienti misure di contrasto all’evasione, le entrate fiscali sono cresciute in misura limitata; il gettito Iva, a causa del crollo dei consumi, è sceso. Le spese, limitate sul piano interno, hanno risentito degli esborsi – circa 18 miliardi nei primi nove mesi dell’anno – che anche l’Italia ha effettuato per finanziare le misure europee di intervento per gli altri paesi europei in difficoltà.
Il deficit nel bilancio 2012 è così rimasto vicino al 3% del Pil, esclusi questi esborsi per i fondi anti-crisi europei; il governo si è impegnato ad anticipare il pareggio di bilancio dal 2014 al 2013, con un avanzo primario (il saldo prima del pagamento degli interessi sul debito) che dovrebbe raggiungere il 4% del Pil. I vincoli di bilancio si sono fatti più stringenti con l’aggravarsi della crisi e diventeranno ancora più pesanti con l’entrata in vigore, il prossimo anno, del Trattato europeo in materia di politica fiscale, il cosiddetto “Fiscal compact”, sottoscritto dai governi europei – con l’eccezione di Gran Bretagna e Repubblica ceca – ma non ancora votato da tutti i parlamenti. Le misure previste sono l’obbligo del bilancio in pareggio e l’azzeramento, in 20 anni, della quota di debito pubblico che eccede il 60% del Pil; per l’Italia ciò impone che il saldo di bilancio rimanga per due decenni ampiamente positivo (a meno di elevati saggi di crescita nominale del prodotto). Il quadro temporale per l’effettiva entrata in vigore di tali misure sarà proposto dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici sul piano della sostenibilità del debito; viene tuttavia richiesta una rapida convergenza verso gli obiettivi del Trattato.
Che cosa significa questo impegno per l’Italia? Nei prossimi anni, per rispettare il Fiscal compact l’Italia dovrà tagliare la spesa o aumentare le imposte per quattro o cinque punti percentuali di Pil, oltre 60 miliardi di euro. Tale cifra potrebbe risultare insufficiente se teniamo conto dell’effetto demoltiplicativo di reddito di tali misure, segnalato anche dal Fondo monetario internazionale: tagli di spesa e aumenti di imposte hanno l’effetto di ridurre la domanda e far cadere la produzione, prolungando la recessione. Interventi correttivi di questo tipo dovranno essere presi da tutti gli altri paesi europei a eccezione della Finlandia; la Germania ha un debito pubblico superiore all’80% del Pil; la Francia ha un disavanzo superiore al 4% e il suo debito ha appena subito il “declassamento” da parte di Moody’s. Si tratta di una situazione per certi versi simile a quella paventata per gli Stati Uniti di un “fiscal cliff” (baratro fiscale) di medio periodo: il taglio generalizzato della spesa pubblica rischia di aggravare la spirale recessiva dell’eurozona, in particolare nei paesi periferici.
I problemi della politica di bilancio dell’Italia non sono nuovi. Almeno dai primi anni 2000 i governi hanno fatto manovre “pro-cicliche”, con misure espansive e deficit in aumento quando le condizioni macroeconomiche erano, almeno parzialmente, favorevoli e misure restrittive quando l’economia entrava in recessione, il contrario di una ragionevole politica di bilancio. Nell’ultimo anno, il governo “tecnico” ha introdotto una stretta fiscale molto forte nel mezzo di un rallentamento particolarmente grave dell’economia, col risultato di aggravare sia le condizioni dell’economia reale che quelle di finanza pubblica, peggiorando anche la distribuzione del reddito.
Per il 2013 le prospettive sono di un ulteriore inasprimento dei problemi, anche per il rallentamento dell’economia tedesca, che potrebbero richiedere azioni straordinarie. Le alternative sembrano al momento due. Potrebbe essere negoziata in sede europea una moratoria sull’applicazione del “Fiscal compact”, allentando vincoli impossibili da rispettare durante le fasi recessive. Oppure il governo Monti potrebbe chiedere l’intervento del “Fondo salva-stati” – il Meccanismo europeo di stabilità – che offrirebbe nuove risorse finanziarie a costi più contenuti di quelli pagati sui mercati, ma al prezzo di sottoscrivere un Memorandum, come fatto da Grecia, Portogallo e Irlanda, che renderebbe permanenti le politiche di austerità e lo smantellamento del welfare. Una scelta che delegherebbe per molti anni la politica economica del paese al controllo da parte della “troika”, composta da Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario e renderebbe – di fatto – irrilevante il voto alle prossime elezioni politiche del 2013. Per Mario Monti, dopo un anno di governo, sarebbe un lascito disastroso non solo per l’economia e la democrazia italiana, ma anche per la costruzione della casa comune europea.
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Habitat e crescita

Riporto l’articolo di Piero Bevilacqua pubblicato oggi. (Il grassetto è mio.)

L’Italia della TAV e delle alluvioni
Intervenire sulle alluvioni che ogni anno provocano disastri ambientali e morti in qualche angolo della Penisola fa sentire come i sacerdoti che celebrano uno stanco e inutile rito, cultori di una religione ormai spenta. L’Italia impone ai suoi osservatori l'”eterno ritorno dell’eguale”. Eppure corre sempre l’obbligo di ripetere, di tenere vive le armi della critica, di ricordare. La lotta è fatta anche di ripetizioni e di repliche. E in questo caso sono più che mai necessarie.
Com’è noto, quello che è accaduto in questi giorni nel Grossetano e nell’Umbria meridionale è infatti il nuovo capitolo di uno spettacolo a puntate che si ripete ormai puntuale in ogni autunno e inverno. E occorre anche aggiungere che questa volta l’esito sarebbe potuto essere ben più tragico, se la pioggia avesse continuato a cadere per un altro giorno. Pochi sanno, infatti, che la diga di Corbara che sbarra il Tevere – poco distante dallo scalo di Orvieto, dove è tracimato il fiume Paglia – era minacciosamente colma, mentre i caseggiati di Ciconia e dintorni erano già allagati. Se il maltempo avesse continuato il suo corso, si sarebbe reso necessario aprire la diga con conseguenze imprevedibili , ma sicuramente devastanti, per tutti i centri abitati lungo la Valle del Tevere fino a Roma.
Il ritorno del bel tempo ci ha risparmiati, lo spuntare del sole ha evitato una catastrofe. Ma fino a quando dovremo affidarci al caso, alla buona sorte, alla cessazione benigna di un temporale per evitare alluvioni, frane, morti, devastazione di case e imprese, distruzione di strade e ponti? Non è evidente ormai a tutti che l’intero territorio nazionale è in pericolo? Che bastano pochi giorni di pioggia intensa, concentrati in una qualunque area, per determinare danni ingenti alle popolazioni e agli habitat, imponendo poi costosissime ricostruzioni?
Appare evidente che oggi paghiamo a caro prezzo una urbanizzazione selvaggia, la quale ha coperto disordinatamente di costruzioni e infrastrutture un territorio che è fra i più vulnerabili dell’intero bacino del Mediterraneo. L’acqua che scende dalle Alpi o dall’Appennino è sempre meno assorbita dai campi agricoli o incolti delle colline e delle pianure, ormai non più abitate dai contadini, ed è al contrario resa più vorticosa nel suo corso dall’asfalto e dal cemento che incontra. Un paese, tra i pochi in Europa, privo di una legge urbanistica , che ha assistito con poche resistenze a una svolta inaudita. Alla consueta attitudine illegale di classi dirigenti e popolazioni a occupare il territorio con costruzioni abusive (che hanno sfigurato tante nostre città) è venuta in sostegno la versione italiana del neoliberismo: il verbo che ha fatto dei nostri habitat delicati materia di “libero mercato”. Oggi, dopo tre decenni di “furia liberale”, il territorio nazionale mostra le stimmate della sua trasformazione mercantile, riplasmato, com’è dalle spinte caotiche delle convenienze private: terre d’altura e aree interne in stato di abbandono, valli e pianure – la polpa ricca – intasate di popolazione, edifici, strutture produttive, vie di comunicazione. Qui l’acqua piovana non ha più spazio, come era accaduto in tutti i secoli passati, e perciò appare come il grande nemico. Come e quanto può durare tale conflitto tra le forze imprevedibili della natura e i nostri abitati?
Ebbene, questa drammatica novità storica impone oggi un nuovo atteggiamento della pubblica opinione nei confronti delle classi dirigenti italiane e del ceto politico nazionale.
Sappiamo da studi decennali che all’Italia è toccato in sorte un paradossale destino. Il paese fisicamente più fragile d’Europa (insieme all’Olanda) è stato governato da classi dirigenti privi di ogni cultura territoriale, sguarniti anche delle più elementari forme di consapevolezza, di memoria storica dei caratteri dei vari habitat locali e dei loro delicati equilibri. Tale carattere originale della nostra cultura, il suo sradicamento metafisico dalle condizioni materiali della vita, oggi rappresenta una minaccia per la collettività nazionale.
A questa incultura originaria, infatti, si aggiunge oggi la religione della crescita che alimenta nuovi e disordinati appetiti speculativi nei confronti del nostro territorio. Ancora oggi il suolo nazionale non appare come un habitat da proteggere, per tutelare i beni, la ricchezza storica del paese dagli eventi atmosferici, ma come la materia prima per “continuare a crescere”, come recita la superstizione contemporanea. E’ altamente esemplare che un paese, il quale ha i problemi drammatici che osserviamo puntualmente ad ogni inverno, si ostini a progettare il Tav in Val di Susa. I nostri governanti sono pronti a sperperare svariati miliardi per un’ opera inutile e non trovano tempo, energia, risorse per mettere in campo un progetto assai meno costoso e generatore di nuove economie finalizzato a proteggere il nostro territorio in pericolo.
Ebbene, credo che sia tempo di rendere evidente il carattere drammatico che ormai occorre dare alla nostra opposizione. Abbiamo mostrato in altre occasioni che il nostro territorio può essere messo in salvo solo attraverso una vasta opera di ripopolamento e valorizzazione delle aree interne. Ma oggi occorre agire anche con misure di urgenza. E’ necessario chiarire che tutte le nuove costruzioni, tutte le manipolazioni dell’habitat che si progettano e si realizzano in Italia sono contro l’interesse collettivo, minacciano il bene comune della sicurezza nazionale. Ogni metro quadrato di nuovo asfalto o cemento sottrae spazio alle acque, accresce la vulnerabilità dei nostri abitati e delle nostre vite. Non possiamo più tollerarlo.
Io credo che ormai bisogna incominciare a considerare sotto il profilo penale gli interventi che consumano suolo. Questo bene non è infinito, esso è la spugna che assorbe l’acqua, è dunque un bene di tutti che ci protegge , chi lo cementifica rende più pericolosi i nostri abitati, rende più insicura la nostra incolumità, le nostre case, i nostri beni, i nostri animali. E’ perciò necessaria una iniziativa legislativa che dia nuovi strumenti all ‘interesse collettivo oggi così gravemente minacciato. Occorre rendere possibile, alle associazioni impegnate nella difesa del territorio e del paesaggio, di costituirsi parte civile nei vari luoghi dove si progetta il consumo di verde, da configurare, com’è ormai drammaticamente necessario, quale fattispecie criminale. Privati, amministratori locali, imprenditori non possono più utilizzare come bene privato ciò che con tutta evidenza appare un bene comune intangibile e irrinunciabile.
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All’inizio dell’ALBA

Segnalo che questo fine settimana, sabato 17 e domenica 18, a Roma il soggetto politico nuovo, nato con un manifesto a fine marzo e che poco dopo si è dato il nome di ALBA (cioè Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente), terrà l’assemblea nazionale per discutere e decidere su tre punti: sullo statuto, sul Comitato Operativo nazionale e sul prossimo (eventuale) percorso elettorale.

Bruciando le tappe, ma d’altronde “non c’è più tempo”, questo soggetto politico arriva dunque a porsi anche il problema della partecipazione alle prossime elezioni, come già anticipato dall’adesione di alcuni fondatori alla campagna di “Cambiare si può“.

E’ impossibile sintetizzare in poche righe i contenuti di questa nuova impresa intellettuale e politica. Invito pertanto leggere dal sito, dove ci sarà anche la possibilità di vedere l’assemblea in streaming.

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Apocalisse a Venezia

Acqua alta e grandi navi, una città spettacolare (12 novembre 2012).

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JG, ce lo chiede l’Europa

Riproduco l’articolo di Luciano Gallino pubblicato il 3 novembre su la Repubblica. (I blocchi sono originali, il grassetto è mio.)

La strada da seguire per creare più lavoro

Mentre le cifre della disoccupazione sono sempre più drammatiche, il governo non pare avere alcuna idea per creare d’urgenza un congruo numero di posti di lavoro. I rimedi proposti alla spicciolata, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l’avvio di cantieri e grandi opere, non sfiorano nemmeno il problema.
Per di più il governo sembra sottovalutare la gravità della situazione. La disoccupazione di massa rappresenta tutt’insieme un’enorme perdita economica, uno scandalo intollerabile dal punto di vista umano, e un minaccioso rischio politico. Sotto il profilo economico, quasi tre milioni di disoccupati comportano una riduzione del Pil potenziale dell’ordine di 70-80 miliardi l’anno. Anche se ricevono un modesto reddito dal sussidio di disoccupazione o dai piani di mobilità, i disoccupati sono lavoratori costretti loro malgrado alla passività. Non producono ricchezza sia perché non lavorano, sia perché i mezzi di produzione, cioè gli impianti e le macchine che potrebbero usare, giacciono inutilizzati. Un’altra perdita economica deriva dal fatto che lunghi periodi di disoccupazione comportano che le capacità professionali si logorano e sono difficili da recuperare.
Dal punto di vista umano la disoccupazione di massa, insieme con la povertà che diffonde, è uno scandalo perché i loro effetti, come ha scritto Amartya Sen, scardinano e sovvertono la vita personale e sociale. Elementi fondamentali di questa, dall’indipendenza personale alla possibilità di accedere per sé e i figli a una vita migliore, dalla realizzazione di sé alla sicurezza socio-economica della famiglia, sono strettamente legati alla disponibilità di un lavoro stabile, dignitosamente retribuito. Quando esso viene a mancare, anche tali elementi crollano, e la persona, la famiglia, la comunità sono ferite nel profondo delle loro strutture portanti.
Quanto al rischio politico, qualcuno dovrebbe ricordarsi che uno dei fattori alla base dell’ascesa del fascismo e ancor più del nazismo è stata la disoccupazione di massa. E la capacità di ridurla mostrata da tali regimi dopo la crisi del ’29 è una delle ragioni del sostegno popolare di cui hanno goduto fino alla guerra che li ha abbattuti. Di certo oggi né l’uno né l’altro dei due regimi avrebbero la stessa faccia. Ma i sintomi di autoritarismo che affiorano in Europa, e i movimenti di estrema destra dagli alti tassi elettorali in almeno dieci Paesi, non sono da sottovalutare. Sperando che qualche movimento non cominci a promettere “ridurrò la disoccupazione a zero”. La promessa che fece e poi mantenne Hitler, fra il 1933 e il ’38.
Poiché le austere ricette dei tecnici finora hanno aggravato il tasso di disoccupazione anziché ridurlo, sarebbe ora di pensare a qualcosa di più efficace, e magari sperimentarlo. Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” ( job guarantee, JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. Coloro che elaborano simili schemi sono economisti e giuristi americani, australiani, canadesi, argentini, indiani; i quali, diversamente dai nostri governanti di oggi e di ieri, sembrano tutti aver meditato sull’articolo 4 della nostra Costituzione, quello per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”: non del lavoro, si noti, di cui tratta invece l’articolo 35. Il primo mai attuato, il secondo in via di estinzione nella legislazione e nelle relazioni industriali. Uno schema di JG prevede che in via di principio esso sia accessibile a chiunque, essendo disoccupato, vuole lavorare ed è in grado di farlo. Di fatto sarebbe inevitabile, visti i numeri in gioco, dare la preferenza a qualche strato di persone in peggiori condizioni di altre, quali, per dire, i disoccupati di lunga durata.
L’attuazione di uno schema di JG richiede un’agenzia centrale che stabilisce le regole di assunzione e i livelli di retribuzione, e gran numero di imprese (o centri di servizio o cooperative) a livello locale che assumono, al caso addestrano e impiegano direttamente i lavoratori, oppure li assegnano a imprese locali in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva. Dando la preferenza a settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, dai beni culturali ai servizi alla persona, dal recupero di edifici e centri storici alla ristrutturazione di scuole e ospedali. I centri locali trattano con le imprese le condizioni a cui esse possono impiegare i lavoratori del programma, dalla partecipazione ai costi del lavoro fino all’eventuale passaggio del dipendente dal pubblico al privato.
Trovare le risorse per finanziare simili schemi è una questione complicata, nondimeno vari studi attestano che non è impossibile risolverla. Prima però di trattare tale tema c’è una premessa inderogabile: deve manifestarsi la volontà politica di affrontare con nuovi mezzi la catastrofe disoccupazione. Chiedere a un governo neoliberale di esprimere una simile volontà è forse troppo, ma le crisi sono sia uno stimolo, sia una buona giustificazione per cambiare idee e politiche.
C’è una novità a livello europeo che dovrebbe indurre a discutere di simili schemi, e magari a sperimentarne qualcuno in singole regioni. Ai primi di settembre 2012 si è svolta a Bruxelles una conferenza internazionale sulle politiche del lavoro, organizzata dalla Commissione europea. Una sessione era dedicata a “La garanzia di un posto di lavoro – Concetto e realizzazione”. Hanno perfino invitato a parlare uno degli studiosi più noti e polemici in tema di JG, l’australiano Bill Mitchell. Posto che nei programmi di JG rivivono le teorie di Keynes in tema di politiche dell’occupazione, nonché la memoria del successo che gli interventi statali ebbero durante il New Deal rooseveltiano, aprire alla discussione di tali programmi uno dei templi della teologia neo-liberale, qual è la Commissione europea, è un segno che qualcosa sta cominciando a cambiare sul fronte ideologico delle politiche del lavoro.
Il documento base della sessione in parola formula varie domande: “Quali sono i maggiori ostacoli in Europa alla realizzazione di schemi di garanzia d’un posto di lavoro… volti ad affrontare la crisi della disoccupazione? Possono tali ostacoli venire superati? In quali aree potrebbero o dovrebbero essere sviluppati degli impieghi pubblici per disoccupati? Quanto tempo ci vorrebbe prima che a un disoccupato sia dato un lavoro nel settore pubblico?”. Sono domande a cui anche il nostro governo dovrebbe cercare di dare risposta, meglio se non soltanto in forma cartacea. Dopotutto, ce lo chiede l’Europa.
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La fine delle illusioni

Il Sole 24 Ore di oggi, in una nota della pagina Commenti e inchieste, tocca la situazione del mercato europeo dell’auto:

Bruxelles agisca perché l’auto resti in Europa
Ford chiude la fabbrica belga di Genk, 4.300 posti di lavoro vanno perduti. Posti di lavoro che si aggiungono a una lista già molto lunga per il comparto auto in Europa. Le grandi fabbriche da cui escono le automobili sono infatti quelle che ottengono i titoli più grandi e scatenano le proteste, ma sono solo la punta dell’iceberg: contemporaneamente chiudono fabbriche di motori, di componenti, e all’opposto della catena produttiva anche le concessionarie di auto. Quando negli ultimi vent’anni tutti i costruttori aprirono stabilimenti in Europa dell’Est, speravano che la crescita della domanda permettesse di tenere occupate anche le vecchie fabbriche all’Ovest. Il calcolo si è rivelato sbagliato.
La crisi è strutturale: i volumi di vendita non torneranno tanto presto (o forse mai) ai livelli precedenti al 2007. Chiudere le fabbriche in eccesso è una soluzione dolorosa dal punto di vista sociale, e nel breve periodo anche costosa, ma permette di rimettere in sesto i conti. Fare utili è indispensabile perché solo chi è in utile può permettersi di investire in nuovi modelli e nuove tecnologie, e solo chi investe può competere nel lungo periodo; l’unica alternativa è gestire il declino. Il problema di adesso, però, e quello di gestire la crisi. Per ora i costruttori europei si muovono in ordine sparso, e la soluzione europea chiesta da Sergio Marchionne non è alle porte. Ma il rischio di distorsioni alla concorrenza cresce, come dimostra l’intervento del Governo francese nel caso Peugeot. Contro Parigi ha già protestato il Land tedesco della Bassa Sassonia, che è azionista della Volkswagen. Senza un intervento della Ue, si rischia una guerra di tutti contro tutti.

In questo breve testo si possono leggere, alcune arcinote verità (“la crisi è strutturale”, “l’unica alternativa è gestire il declino”) dentro la preoccupazione e richiesta di fondo: “Senza un intervento della Ue, si rischia una guerra di tutti contro tutti.”. O non ho capito proprio niente dell’accenno all’intervento della Ue, oppure, come già con la politica agricola – passata prima attraverso il finanziamento del surplus, poi attraverso le quote, dunque considerando quello dell’auto un settore strategico, come quello agricolo-alimentare – qui si sta pensando ad una politica di piano.

Nello stesso giorno i giornali danno grande spazio alle dichiarazioni dell’uscita di scena dell’ex premier, il grande protagonista di diciotto anni della politica italiana, uno che su questo blog non è mai stato volutamente nominato, se non nelle citazioni, Silvio Berlusconi. (Io penso che la dichiarazione di uscita serva solo a tentare di rimanere politicamente in vita, quindi in scena, ma questo è un altro tema.)

Così per me è fatale tornare ad un articolo dell’attuale premier Mario Monti sul Corriere della Sera del 2 gennaio 2011 , dove scriveva contro gli illusionismi (leggete di chi) e che grazie a “due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne” e “alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili”. Ovviamente, anche in questo breve articolo, il richiamo essenziale era al “vincolo della competitività”.

E così alla fine mi rimane qualche piccola ma tenace certezza: che l’auto sia finita, che serva la politica di piano, lì come in molte altre parti, che gli illusionisti di oggi (Berlusconi), come i controillusionisti (Monti), non valgano granché rispetto ai visionari che scrivevano centocinquant’anni fa che l’esito di una certa dinamica economica sarebbe stato una politica di piano (Marx).

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