“Dimissioni, subito”

Nella tragica situazione politica italiana, oggi trovo conforto dal fondo del direttore de la Repubblica Ezio Mauro che riporto integralmente (l’evidenziazione è mia).

Dimissioni, subito
di Ezio Mauro

Manca soltanto un tripode con un catino pieno d’acqua – come per Ponzio Pilato – in cui lavarsi pubblicamente le mani sul piazzale del Viminale o della Farnesina: sarebbe l’ultimo atto, purtroppo coerente, della vergognosa figura in cui i ministri Alfano e Bonino hanno sprofondato l’Italia con il caso Ablyazov. La moglie e la figlia del dissidente kazako vengono espulse dall’Italia con una maxioperazione di polizia e rimpatriate a forza su un aereo privato per essere riconsegnate al pieno controllo e al sicuro ricatto di Nazarbaev. Un satrapo che dall’età sovietica, reprimendo il dissenso, guida quel Paese e le ricchezze oligarchiche del gas, che gli garantiscono amicizie e complicità interessate da parte dei più spregiudicati leader occidentali, con il putiniano Berlusconi naturalmente in prima fila.

Basterebbero questa sequenza e questo scenario per imbarazzare qualsiasi governo democratico e arrivare subito alla denuncia di una chiara responsabilità per quanto è avvenuto, con le inevitabili conseguenze. Ma c’è di più. Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, ha pubblicamente dichiarato che non sapeva nulla di una vicenda che ha coinvolto 40 uomini in assetto anti-sommossa, il dipartimento di Pubblica Sicurezza, la questura di Roma, il vertice – vacante – della polizia. Un ministro che non è a conoscenza di un’operazione del genere e non controlla le polizie è insieme responsabile di tutto e buono a nulla: deve dunque dimettersi.

C’è ancora di più. Come ha accertato Repubblica, l’operazione è partita da un contatto tra l’ambasciatore kazako a Roma e il capo di Gabinetto del Viminale che ha innescato l’operatività della polizia. Se Alfano era il regista del contatto, o se ne è stato informato, deve dimettersi perché tutto riporta a lui. Se davvero non sapeva, deve dimettersi perché evidentemente la sede è vacante, le burocrazie di sicurezza spadroneggiano ignorando i punti di crisi internazionale, il Paese non è garantito.

Quanto a Bonino, la sua storia è contro il suo presente. Se oggi fosse una semplice dirigente radicale, sempre mobilitata più di chiunque per i diritti umani e le minoranze oppresse, sarebbe già da giorni davanti all’ambasciata kazaka in un sit-in di protesta. Invece difende il “non sapevo” di un governo pilatesco. Parta almeno per il Kazakhstan, chiedendo che Alma e Alua siano restituite al Paese dove avevano scelto di tutelare la loro libertà, confidando nelle democrazie occidentali. E per superare la vergogna di quanto accaduto, porti la notizia – tardiva ma inevitabile – delle dimissioni di Alfano.

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Vestire i ghiacciai

Un’altra triste notizia di qualche giorno fa è che in Svizzera hanno ricoperto di teli il ghiacciaio del Rodano. Non servono altri commenti.

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Passato e futuro

Su la Repubblica di oggi (p. 40) c’è la notizia che la vecchia olma, come la chiamavano gli abitanti di Campagnola (Reggio Emilia), alla bell’età di 300 anni è morta. “Non si piange per un albero che se ne va, ma il dolore c’è.” – scrive Jenner Meletti nel bell’articolo. (Si vedano qui altre foto non scaricabili.)

A me invece viene proprio da piangere, soprattutto confrontando la notizia con quella della pagina accanto (p. 41) (non ancora online):

    Alla Cina della grande urbanizzazione, pronta ad inaugurare la prima metropoli da 80 milioni di abitanti, mancava un record: quello del palazzo più grande del pianeta. L’ha conquistato ieri. A Chengdu, capoluogo del Sichuan, è stato aperto il “New Century Global Center” (…).

Si tratta di un edificio-città di 500 m (lunghezza) per 400 m (larghezza) per 100 m (altezza) che potrà contenere ben 300 mila persone in una struttura “completa”, con università, poliambulatorio, cinema, palestre, hotel a 5 stelle, parco acquatico con spiaggia artificiale da 500 mq, pista di pattinaggio, etc. – ci sarà naturalmente anche un piccolo cimitero.

Già, perché nel New Century Global Center uno ci potrà stare dalla nascita alla morte. Ma non credo potrà mai stare all’ombra di un olmo centenario. E questa a me pare una condizione molto triste.

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La depressione non si cura con l’omeopatia

Leggere e commentare le iniziative, si fa per dire, di questo Governo fa male, deprime. Proprio l’opposto dell’obiettivo dichiarato, quello di far riprendere un po’ l’economia, di uscire dalla depressione. Sappiamo tutti quali sono i problemi (mancanza di credito e di liquidità delle famiglie e delle imprese, caduta dei consumi, disoccupazione) ma anche gli ulteriori rischi che corriamo. Tra questi il declino fino ad un punto irreversibile dell’industria nazionale dopo l’abbandono alla deriva della risorsa artistica e culturale (in questi giorni stanno chiudendo altre tre storici teatri musicali).

Sappiamo tutti che un malattia grave, cronica ed acuta allo stesso tempo, che vede pochissime parti del corpo sociale in relativo stato di salute, ma qualcuna anche in benessere, non può esser curata con gocce omeopatiche. Perché di questo si tratta: il governo Letta, dopo oltre due mesi (24 aprile) dal suo insediamento, ha deciso ieri di usare l’omeopatia. Infatti, indipendentemente da cosa si pensi di questa pratica medica alternativa, si pensa di introdurre in maniera molto diluita “quella sostanza che, in una persona sana, induce sintomi simili a quelli osservati nella persona malata” (Wikipedia).

Solo questa è la spiegazione del decreto di ieri che introduce “Altre tasse per il rinvio dell’Iva” (titolo principale de la Repubblica di oggi). Evidentemente si pensa che se gli onesti ancora sani e che pagano le tasse reggono anche alla nuova accelerazione del salasso, questi ne usciranno salvi, almeno questi.

Invece sappiamo tutti bene qual è il quadro clinico e quali sono le cause delle gravi patologie: si trovano nell’ambiente in cui sguazziamo (i mercati finanziari) e nelle terapie imposte dai medici liberisti, i chirurghi europei e nazionali. Sappiamo infatti che siamo già in fallimento, anche se lo chiamano “default”, e che per questo è ormai necessario fare un concordato preventivo o ristrutturare il debito, come scrive Guido Viale.

Curare la depressione con l’omeopatia non è solo una presa per il culo, è criminale perché la depressione è una bruttissima e grave malattia. Credo che Enrico Letta e quei pochi altri del governo attuale che possono capire la situazione non abbiano più tempo, né mesi né settimane né giorni. Il tempo è scaduto. La malattia sta dilagando e si deve affrontare per quello che è. E quei medici che finora hanno agito da criminali (ce n’è più di uno) si tirino da parte, prima dell’ultima disperata reazione del paziente.

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Moriremo democristiani

Quasi trent’anni fa, il 28 giugno 1983, Luigi Pintor commentava le elezioni nazionali e titolava su il manifesto con stile inconfondibile ma in maniera assai (e stranamente) ottimista: “Non moriremo democristiani”. Era successo che dopo sei governi (due governi Cossiga, uno Forlani, due Spadolini e uno Fanfani) la VIII legislatura finiva in anticipo, ma le elezioni non premiavano il “partito di maggioranza relativa”, com’era solita chiamarsi la Dc.

La Dc (segretario De Mita) con il 32,9%, perdeva il 5,4%, distribuito quasi tutto tra il Psi 11,4% (+1,6%), Pri 5,1% (+2,0%), Psdi 4,1% (+0,25%) e Pli 2,9% (0,95%), cioè i partiti che erano stati maniera variabile quasi sempre alleati di governo (il famoso “pentapartito). In quell’occasione destarono piuttosto sorpresa la tenuta del Pci con il 29,9% (-0,5%) e la crescita del Msi al 6,8% (+1,55%). Da quel voto, che rispetto a quanto vediamo in questi nostri tempi ebbe spostamenti ridicoli, nacquero i due governi Craxi, anche se la IX legislatura finì ancora una volta in anticipo e con l’ennesimo, il sesto, governo Fanfani.

Oggi, quasi vent’anni dopo anche la fine della Dc, governa un certo Enrico Letta, che vent’anni fa era presidente dei Giovani democristiani europei, e secondo Ilvo Diamanti, uno che se n’intende, il suo governo ha il consenso molto “largo”, quasi il 60% degli elettori. E il Presidente del Consiglio ancor di più.

Diamanti la chiama “nostalgia democristiana“. Ecco il finale dell’articolo pubblicato ieri anche su la Repubblica:

    Tuttavia, io penso che vi sia dell’altro, dietro a un consenso così elevato per un governo e un premier a capo di una maggioranza che non piace. La definirei: “nostalgia democristiana”. Che attraversa la storia della Repubblica, fin dalle origini.

    La stagione della Democrazia Cristiana, durata quasi cinquant’anni, ha impresso un marchio indelebile nella memoria degli italiani. Anche dei più giovani. “Quelli che” sono nati e cresciuti “dopo”. Quando Dc e Pci non esistevano più. Perché la storia della Prima Repubblica è stata scritta, insieme, dalla Dc e dal Pci. Democristiani e comunisti: alternativi e complementari. Governo e opposizione. Senza alternanza possibile. Alleati, nelle grandi “emergenze” – come negli anni Settanta, durante la stagione del terrorismo. Ma, comunque, (com) partecipi di un sistema “consociativo”, dove tutte le grandi scelte erano condivise. Come le nomine degli enti e delle istituzioni. A ogni livello e in ogni ambito.

    Il governo guidato da Letta piace a gran parte degli italiani perché rinnova questa memoria. Non solo perché Enrico Letta ha una biografia democristiana – e “popolare”. E propone, comunque, uno stile politico e di comunicazione che evoca quella tradizione. Ma perché questa strana maggioranza costituisce un rimedio al “disagio bipolare”. Assai diffuso nella Seconda Repubblica – fondata su Berlusconi e, appunto, sul bipolarismo. A cui gli italiani non si sono mai rassegnati fino in fondo. Perché non amano vincere. Ma neppure perdere. Governare da soli.

    Oppure fare opposizione. Vera. Così le larghe intese non piacciono. Ma il governo di larghe intese sì. Perché permette a tutti – destra, sinistra e centro, berlusconiani e antiberlusconiani – di governare insieme, ma senza sentirsi coinvolti. Provvisoriamente. Fino alle prossime elezioni.

    Quando in molti sperano che nessuno vinca. Come in questa occasione. Per poter governare ancora (quasi) tutti insieme. Ma senza ammetterlo. Perché l’Italia, in fondo, è uno Stato di Necessità. Perenne.

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Il messaggio

Oggi a Portogruaro sono ancora esposti i ringraziamenti della famiglia per la partecipazione al lutto. La settimana scorsa è morto Graziano Neri, una persona, un’artista, molto nota anche nella comunità di Portogruaro.

Io non lo conoscevo e neppure seguivo la sua arte che i competenti considerano notevole, come il vuoto lasciato. Ma anche senza conoscerlo prima, solo leggendo qualcosa sui giornali locali di questi giorni e riflettendoci sopra, sento che ha mandato a tutti un messaggio.

Io comunque ho colto questo. Ho capito ancora una volta che vivere è difficile per tutti, anche quelli più attrezzati e bravi. E ho capito che a volte non bastano neanche tutti i modi di comunicare usati finora dagli uomini, compreso il silenzio.

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Una scelta di civiltà

Riporto integralmente l’articolo di Tonino Perna pubblicato oggi su il manifesto (p.15). Grassetto ed evidenziazioni sono miei.
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Lavorare meno, lavorare tutti
di Tonino Perna

La disoccupazione giovanile che colpisce l’Italia e altri paesi europei in una forma estremamente acuta è vissuta come una calamità naturale, un’emergenza, come se si trattasse di un incidente di percorso, di un evento imprevedibile nella storia del capitalismo nei paesi industrializzati. Il fatto che la disoccupazione in generale, e quella giovanile in particolare, siano un dato strutturale nei paesi a capitalismo maturo non è nemmeno preso in considerazione nell’odierno dibattito politico.

Keynes pensava che, nel breve periodo, si potesse contrastare la disoccupazione con un incremento della spesa pubblica in deficit, ma nel lungo periodo dovevamo inevitabilmente fare i conti con la disoccupazione tecnologica (Prospettive economiche per i nostri nipoti, 1930).

In sostanza, Keynes aveva molto chiaro il fatto che l’inarrestabile progresso tecnologico avrebbe comportato una disoccupazione crescente, all’interno delle società a capitalismo maturo, ed avrebbe richiesto provvedimenti strutturali per farvi fronte. L’unica terapia efficacia in grado di contrastare la crescente disoccupazione era , secondo il grande economista di Cambridge, la netta riduzione dell’orario di lavoro (ibidem).

Anche il movimento operaio europeo si è battuto in passato per la riduzione dell’orario di lavoro. Nel 1848 le Trade Unions ottennero in Inghilterra le «10 ore di lavoro» come tetto massimo, in un tempo in cui gli operai lavoravano anche 14-15 ore al giorno. Tra le due guerre mondiali, in quasi tutti i paesi europei il movimento dei lavoratori ottenne le famose «8 ore di lavoro» , come limite massimo della durata del lavoro giornaliero. Bisogna aspettare la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso perché la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro riprendesse quota. Con scarsi risultati.

Solo in Francia, durante il governo Jospin nel 1998 fu varata una legge per la riduzione da 40 a 35 ore del lavoro settimanale. Suscitò grandi polemiche e una guerra mediatica della Confindustria francese, con il risultato di un rientro di fatto, o tramite gli straordinari, alle 40 ore settimanali. In Germania c’è stato un accordo per le 36 ore settimanali, o la «settimana breve», in qualche grande industria automobilistica, che è rimasto come un fatto separato dal resto dell’apparato produttivo. In breve, dopo quasi un secolo, l’orario di lavoro è rimasto pressoché invariato nei paesi industrializzati, malgrado gli enormi aumenti di produttività che, come aveva previsto Keynes, hanno ridotto drasticamente l’energia umana impiegata per unità di prodotto.

Gli straordinari aumenti di produttività per addetto sono andati in gran parte ai profitti ed alle rendite, dato che la quota dei salari sul Pil è scesa drasticamente in tutti i paesi occidentali negli ultimi venti anni. Per mantenere elevata la domanda, e quindi la crescita economica, si è ricorsi ad un iperbolico processo di indebitamento – di famiglie, imprese e Stati – che ci ha portato al collasso che stiamo vivendo dal 2008.

È ormai evidente che nessun paese possa, da solo, trovare una terapia efficace per contrastare la disoccupazione strutturale. Ma, nell’area della Unione Europea, se ci fosse la volontà politica, si potrebbe concertare una riduzione significativa dell’orario di lavoro, almeno nei settori meno esposti alla concorrenza internazionale (ad esempio, l’edilizia, il pubblico impiego,ecc.). Ma, si potrebbe anche pensare ad una defiscalizzazione proporzionale alla riduzione dell’orario di lavoro nelle imprese che decidessero di percorrere questa strada. Per esempio, con un diminuzione di quattro ore di lavoro settimanale, a parità di salario, si potrebbe creare solo in Italia oltre un milione di posti di lavoro, tra pubblico e privato.

Ed invece, neanche se ne parla. Anzi, le imprese insistono per la defiscalizzazione degli straordinari, i precari ed i lavoratori sottopagati sono costretti a fare anche un secondo o terzo lavoro in nero, il governo Monti ha tentato di allungare le ore di lavoro nella scuola, l’età per andare in pensione è stata spinta verso l’alto, con la conseguenza di una disoccupazione che cresce a dismisura e di 2,2 milioni di giovani che non studiano né lavorano.

Gli economisti neokeynesiani – da Stiglitz a Krugman – insistono per una ripresa della spesa pubblica per contrastare la recessione e le politiche di austerity, ignorando il fatto che Keynes vedeva il deficit spending come una misura congiunturale, di breve periodo, per contrastare la disoccupazione e fare ripartire la domanda aggregata,in una fase storica in cui il debito pubblico era ancora una frazione del Pil.

La riduzione dell’orario di lavoro è non solo una necessità per contrastare la disoccupazione crescente, ma anche una scelta di civiltà: a che cosa è servito lo strepitoso progresso tecnologico, la telematica, la robotica, la meccanizzazione di tante operazioni una volta svolte dalla mente e dalle braccia degli esseri umani?

Che senso ha una società che dopo aver moltiplicato per cinque volte la sua ricchezza materiale, dopo la seconda guerra mondiale, non riesce a distribuire decentemente il lavoro e la ricchezza prodotta, costringendo alcuni a morire di lavoro ed altri a suicidarsi per la mancanza di lavoro?

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Memoria dura e memoria flash

Una notizia bella ed importante l’ho letta oggi sul sito de la Repubblica:

    Il più antico rotolo esistente del Pentateuco ebraico è stato scoperto alla Biblioteca universitaria di Bologna. Il documento era conservato negli archivi, ritenuto di scarso valore perché si credeva fosse risalente al secolo XVII. Quasi per caso, nello scorso febbraio, è finito nelle mani del professor Mauro Perani, docente di Ebraico del dipartimento di Beni culturali dell’Alma Mater, incaricato di redigere il nuovo catalogo dei manoscritti ebraici della biblioteca. Di qui la scoperta: il rotolo della Torah è stato in realtà vergato in un periodo compreso tra il 1155 e il 1225 e risulta essere, dunque, il più antico rotolo ebraico completo dei primi cinque libri della Bibbia, dalla Genesi al Deuteronomio.

La data – pur se approssimata – è certa, verificata filologicamente, perché il testo ha una grafia orientale precedente alle regole stabilite dal filosofo talmudista Maimonide (1138-1204), e col Carbonio-14. Esistono naturalmente rotoli ben più antichi, ma questa è l’unica Bibbia completa così antica, tutto il Pentateuco (“cinque libri” in greco, dai cristiani detto anche Antico Testamento) o Torah (ebraico: תורה). E’ un documento di 36 metri di morbida pelle ovina, ha 800-850 anni e pare in ottimo stato.

Si sa che la scrittura manuale sui rotoli è stata soppiantata dalla stampa a caratteri mobili o tipografia, introdotta nel 1455 da Johann Gutenberg con la tiratura di 180 copie della Bibbia (il best seller di sempre). Questa è stata la rivoluzione tecnica che ha anticipato la modernità, dalle scoperte geografiche alla rinascita culturale europea, il Rinascimento. Ma oggi siamo nel post-moderno e gli archivi scritti sembra possano fare a meno sia dei rotoli che dei libri, oggi si usa la memoria flash, tant’è che:

    Ora il documento sarà digitalizzato e conservato nella stanza blindata, in attesa di essere messo in mostra.

Speremo ben.

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La soluzione

A Portogruaro in questo momento ci sono tanti problemi, come nel resto del Paese. Ne abbiamo tutti, a partire dai cittadini residenti. Di solito i problemi più difficili, quelli che sembrano irrisolvibili, come le difficoltà logiche, si superano con uno scatto in avanti, con un allargamento degli orizzonti, con una scoperta, magari grazie ad un’ipotesi che fino a poco prima pareva utopica, se non addirittura un sogno.

A Portogruaro in questo momento c’è chi pensa che si possano risolvere certi problemi, in particolare le difficoltà attuali dei commercianti del centro storico, non andando avanti, ma tornando indietro. Infatti, qualcuno pensa e dice che si deve tornare alla vecchia viabilità che vedeva passare le automobili sotto la torre di San Giovanni.

Guardatela bene e ditemi se è possibile pensare che questa sia la soluzione.

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Senza il Pd oltre il Pd

Riporto l’intero articolo di Marco Revelli pubblicato oggi da il manifesto. Il grassetto è mio.
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Con la Fiom oltre la Fiom
Lontano da Bisanzio

di Marco Revelli

«Tra tanti ciechi e monocoli siamo condannati a vedere; tra tanti illusi dobbiamo essere consci di tutta un’esperienza storica e attuale». Era il novembre del 1922. Lo scriveva Piero Gobetti – e oggi potrebbero ripeterlo le decine di migliaia di uomini e di donne mobilitati dalla Fiom nella consapevolezza dell’emergenza democratica che stiamo vivendo -, nel primo numero della «Rivoluzione liberale» uscito dopo la Marcia su Roma, quando quasi tutti, a destra come a sinistra, consideravano quella catastrofe poco più che un’increspatura sulla superficie piatta della storia. Questo per dire come spesso le grandi cesure storiche – i «mutamenti di stato» negli assetti istituzionali, i terremoti nelle culture politiche, i punti terminali dei cicli – siano ignorate dagli stessi protagonisti. Come stia, forse, in un angolo del Dna della specie l’abitudine a ricondurre lo straordinario entro l’involucro rassicurante dell’ordinario. Oggi ho l’impressione che sia un po’ così. Anche in casa nostra.

Anche noi, come gli astronauti di ritorno dalle missioni spaziali nei brutti film di fantascienza (quando esisteva ancora la fantascienza) possiamo dire di aver vissuto «l’inimmaginabile». Abbiamo visto una buona metà del corpo elettorale mettersi fuori dal sistema politico ufficiale. Praticare con perentorietà una migrazione biblica. Abbiamo visto in diretta, a camere riunite e a reti unificate, il parlamento arrendersi alla propria impotenza e «scegliere di non scegliere» al primo atto fondativo della propria esistenza, l’elezione del presidente. Per esibirsi subito dopo in un grottesco rito sado-maso, tutti in piedi ad applaudire l’uomo che li prendeva a scudisciate, lasciando il campo a quello che è ormai un presidenzialismo di fatto, lontano anni luce dal modello di democrazia parlamentare previsto dai padri costituenti per il semplice fatto che il parlamento, per la seconda volta in un anno e mezzo, è stato surrogato dal corno monocratico dell’Esecutivo. E che il Governo è nato in realtà fuori – e sopra – di esso, controllato dal «pilota automatico» europeo che non lascia margini di manovra né discrezionalità.

Abbiamo visto infine un grande partito – l’unico e ultimo, in Italia, a chiamarsi ancora partito, quello che ha ottenuto alla Camera l’abnorme premio di maggioranza previsto dalla legge-porcata – disfarsi sotto i nostri occhi, travolto dalla disgregazione del suo gruppo dirigente e dalla totale mancanza di una cultura politica, quale che sia. E a fronte di esso tornare ad ergersi l’immagine sulfurea del Cavaliere riesumato da morte presunta e assurto istantaneamente a dominus e arbiter degli «equilibri politici» (sic).

L’abbiamo visto, tutto questo. E nonostante ciò siamo ancora qui a domandarci come metterci una pezza secondo le regole dell’ordinaria amministrazione. Come potrà il Pd ritrovarsi, magari al Congresso. Quali carte ha la sinistra interna. Con Barca? Magari in ticket con Vendola? O, all’opposto, con Renzi, uno al Partito l’altro al Governo? O, che ne so, con la Cgil di ieri in asse con quella di oggi, Epifani e Camusso? Come se lì, in quel paesaggio di rovine, ci fossero ancora materiali per costruire zattere. E risorse politiche e umane per risollevarsi. E soprattutto come se lo strappo consumato con la nascita del governo Letta-Berlusconi non avesse scavato un abisso tra quella classe politica, tutta intera, e le residue energie democratiche del Paese (quelle che si ostinano a considerare una «sintesi di tutte le proprie antitesi» il berlusconismo e il suo eroe eponimo).

Meglio sarebbe riconoscere realisticamente che quella del Pd è una crisi irreversibile. Che la fine di quel partito sarà probabilmente lunga, senza Big bang ma anche senza punti di ripristino o di ritorno. Troppo ampia la parte del suo immaginario e della stessa coscienza morale «colonizzata» dal modo di essere e di pensare dell’avversario, come è emerso alla superficie nei giorni neri dell’elezione del presidente e nella facilità, per alcuni voluttà, con cui è avvenuta la coincidentia oppositorum nella ibrida compagine governativa. Troppo evidente l’assenza di un pur minimo denominatore comune in termini di cultura politica. Troppo logorata la sua classe dirigente, sempre più impegnata a difendere l’indifendibile.

Valter Tocci, in un folgorante intervento al Piccolo Eliseo in occasione dell’incontro con Rodotà, ha evocato il concetto di Collasso citando l’omonimo libro di Jared Diamond e la tragedia dell’Isola di Pasqua, dove un popolo isolato dal resto del mondo e guidato da un’élite ferocemente divisa al suo interno si estinse: perché, appunto, la pressione centripeta dell’autoreferenzialità e dell’isolamento aveva reso insanabili i contrasti al vertice e inevitabile la fine. E’ esattamente ciò a cui si è assistito in questi giorni, nello scontro di tutti contro tutti (e lontano da tutto) all’interno di un gruppo dirigente separato dal proprio popolo e insieme intriso di veleni e rancori personali, che ha reso impossibile qualunque soluzione in avanti rendendo endemico lo stallo.

È difficile immaginare che una tale classe politica possa non dico ritrovare una propria coesione, ma anche solo organizzare i propri dissidi lungo linee politiche comprensibili, secondo un qualche cleavage razionalmente individuabile (la vecchia demarcazione tra Ds e Margherita o, che so, tra renziani e bersaniani, cristiano-sociali e social-democratici, moderati e radicali…), in una situazione nella quale persino la «scissione» apparirebbe come un’opzione fausta (quantomeno un barlume di senso, che richiederebbe comunque una sia pur minima capacità di pensarsi in un altrove rispetto al mondo pietrificato del «pilota automatico»). E’ più probabile che quel gruppo continuerà a restare forzosamente nell’unico involucro che gli permette di mantenersi nelle prossimità del potere, continuando a dilaniarsi a vicenda, un’esecuzione dietro l’altra, agguato dopo agguato, mandando al martirio il segretario di turno e lasciando dietro di sé una lunga scia di esodati silenziosi e impotenti…

So benissimo che un quadro siffatto atterrisce. Conosco perfettamente, perché lo provo ogni giorno, il senso di vertigine tipico dell’horror vacui, tanto più se consideriamo l’effetto congiunto della crisi istituzionale e di quella economica e sociale che vi si intreccia con bagliori weimariani. Ma proprio per questo resto convinto che se un’alternativa si vuole creare, in fretta, nella profondità della crisi italiana, questa non potrà essere ripensata che lontano da Bisanzio.

Se un cantiere si vorrà aprire, non potrà nascere che «fuori dalle mura» di quel mondo crollato, con altri linguaggi, altre facce, altri stili politici, diversi da quelli ormai frusti delle troppe sinistre fallite, chiamando a raccolta quanti – e sono tanti – hanno deciso di guardare avanti: in uno «spazio politico» in cui, prima di contare e di contarsi, ci si impegni a pensare e a pensarsi, senza più illudersi della possibilità di procedere per assemblaggio degli eterogenei frammenti prodotti dal crollo (a cominciare da quelli che hanno fatto naufragare nel minoritarismo l’esperienza di «Cambiare si può»). Né di attaccarsi al carro di qualche improbabile capo-corrente.

Tirar fuori questo paese dal buco nero in cui sta velocemente affondando richiederà un’energia politica straordinaria, che coincide con un’altrettanto straordinaria mobilitazione morale e culturale: con la necessità di ripensare alle radici un modello economico e sociale alternativo tanto al neo-liberismo fallito quanto al keynesismo social-democratico estinto col Novecento e, contemporaneamente, di rianimare un’idea di democrazia capace di sopravvivere alla crisi dei suoi tradizionali soggetti politici e alle troppe tentazioni presidenzialiste che emergono dal brodo tossico della personalizzazione della politica.

Tanto vale incominciare subito, chiamando a raccolta le migliori risorse intellettuali, morali e sociali, a cominciare da quelle che Landini ha portato in piazza sabato scorso a Roma. Senza più deleghe. Né dilazioni.
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