Negli Usa arriva finalmente la decrescita felice (e programmata)

Riproduco integralmente l’articolo pubblicato su la Repubblica sull’impatto della riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. (Faccio solo delle evidenziazioni.)

La misura dello sviluppo
Il calo delle tariffe assicurative deprime il Prodotto interno lordo americano: meno 2,9%
E’ uno degli effetti della riforma di Obama ma né la stampa né i mercati drammatizzano
Il paradosso del Pil in Usa sta frenando ma il benessere cresce con la sanità meno cara
di Federico Rampini
NEW YORK. «Perché il Pil puzza e perché nessuno ci fa attenzione »: con questo titolo colorito il Wall Street Journal riassume le reazioni delle Borse alla notizia di una presunta “frenataccia” dell’economia americana. Meno 2,9%, il Pil nel primo trimestre di quest’anno. Un dato pessimo, mette l’America “in rosso” dopo cinque anni di ripresa, la sbatte dietro ai malati cronici dell’eurozona. É il peggiore dato dal primo trimestre del 2009, quando gli Stati Uniti erano ancora nel mezzo della recessione. Ma questa revisione del Pil ha lasciato indifferenti i mercati e gli esperti. L’unica vittima? La credibilità stessa del Prodotto interno lordo come indicatore sullo stato di salute dell’economia. Un tempo a contestare il Pil erano soprattutto economisti di sinistra, come i premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz, ambedue autori di statistiche “alternative”. Oppure, ancora più radicali, c’erano le critiche dei teorici della decrescita come Serge Latouche, per i quali l’aumento del Pil è sinonimo di sviluppo insostenibile, distruzione di risorse naturali. La novità: adesso agli attacchi contro il Pil si uniscono l’establishment, i mercati, gli organi del neoliberismo.

«L’incidente del primo trimestre 2014», come si può intitolare la vicenda dello scivolone in negativo, è davvero esemplare. Tra i fattori che hanno frenato la crescita Usa, il più potente è la riforma sanitaria di Barack Obama. A gennaio di quest’anno entrava in vigore il nuovo sistema assicurativo. La sua prima conseguenza è stata un calo delle tariffe sulle polizze sanitarie.E qui si tocca l’incongruenza dell’indicatore Pil: se gli americani hanno finalmente speso un po’ meno per le assicurazioni mediche questa è un’ottima notizia, ma riduce il Pil che è un aggregato di tutte le spese. Il Pil non dice se stia migliorando la qualità delle cure mediche e quindi la salute, misura solo la spesa nominale. Una sanità inefficiente e costosa “fa bene” alla crescita, se invece si riducono sprechi e rendite parassitarie delle compagnie assicurative, l’economia apparentemente ne soffre.
L’attacco al Pil trova concorde il Financial Times. «Come il Pil è diventato un’ossessione globale», è il tema di un’inchiesta del quotidiano inglese. Che parte da alcune sconcertanti revisioni nella contabilità nazionale che hanno fatto notizia. La Cina, secondo uno studio recente della Banca mondiale, è molto più ricca di quanto credevamo: sta per sorpassare gli Stati Uniti, da un mese all’altro. Anche l’Inghilterra ha un’economia più prospera di quanto si pensava. Perché? Il “riesame” del Pil cinese, è stato deciso per correggere errori del passato. Sopravvalutando il costo reale di alcuni generi di prima necessità come gli spaghetti, si era simmetricamente “impoverito” (nelle statistiche) il potere d’acquisto dei consumatori. Errore corretto, e oplà, di colpo la Cina nel suo nuovo Pil misurato “a parità di potere d’acquisto” diventa quasi eguale all’America. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, il suo “arricchimento” improvviso (+5%) nasce dall’inclusione nel Pil di attività illecite e sommerse come la prostituzione e il traffico di droga. Nel caso cinese come in quello inglese è evidente che siamo di fronte a operazioni contabili del tutto discrezionali, arbitrarie. Non è cambiato nulla per il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore di quei paesi. É cambiato solo un numero, deciso dagli economisti. Per la Gran Bretagna, poi, è evidente l’aspetto paradossale di questo massaggio delle statistiche: siamo proprio sicuri che l’inclusione della droga nel Pil sia un indicatore fedele del benessere nazionale?
L’economista Diane Coyle, che è stata consigliera del ministero del Tesoro britannico, ha pubblicato un libro sulla storia del Pil: “Gdp: A Brief But Affectionate History”. Documentato, erudito, ironico, ma anche sferzante. La Coyle ci ricorda che «non esiste una cosa reale che gli economisti misurano e chiamano Pil». Quell’indicatore statistico è un’astrazione, un aggregato di spese dove entra di tutto: dai manicure alla produzione di trattori ai corsi di yoga. Primo consiglio della Coyle: liberiamoci dall’idea che la rilevazione del Pil sia come la misurazione del perimetro terrestre, un’operazione complessa ma scientificamente rigorosa.
Del resto il Pil è un’invenzione recente, e strumentale. Il primo a lavorarci fu l’economista americano di origine bielorussa Simon Kuznets, negli anni Trenta. La missione gli era stata affidata dal presidente Franklin Delano Roosevelt. Nel bel mezzo della Grande Depressione, Roosevelt aveva bisogno di una misura dello stato di salute dell’economia, che non fosse di tipo settoriale o aneddotico come quelle usate fino ad allora. Ma lo stesso Kuznets dopo avere “inventato” il Pil cominciò a esprimere serie riserve sulla sua validità. Nella maggior parte dei paesi sviluppati bisogna attendere gli anni Cinquanta perché il Pil entri nelle consuetudini.
Un indicatore ben più completo e utile è quello elaborato per le Nazioni Unite da Amartya Sen ed altri, lo Human Development Index (indice dello sviluppo umano): misura per esempio la qualità della salute e dell’istruzione. Perché non riesce a spodestare il Pil nel dibattito pubblico? La spiegazione che dà Sen è disarmante, o inquietante: «Il Pil misura un tipo di crescita quantitativa che ha coinciso con l’arricchimento di minoranze privilegiate. L’indice dello sviluppo umano sposterebbe l’attenzione verso attività e settori che vanno a beneficio degli altri».
(la Repubblica, 6 luglio 2014)
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“E’ più furbo di Berlusconi”

Giro un’intervista a Curzio Maltese sull’intervento del premier Matteo Renzi al Parlamento europeo. Vediamo di quanto sbaglia…

A Strasburgo solo uno show
“Preparatevi, a marzo 2015 si vota”
di Chiara Daina
Niente è avvenuto per caso alla cerimonia di apertura del semestre italiano dell’Unione europea a Strasburgo. La bordata di Manfred Weber, capogruppo del Ppe (i conservatori), contro Matteo Renzi fa parte di un sottile gioco delle parti da cui il premier cerca di trarre vantaggio. A dirlo è Curzio Maltese, fresco di elezione al Parlamento europeo nella lista Tsipras.
Come si è comportato Renzi, secondo lei?
Ha fatto due cose molto scorrette: ha consegnato i contenuti del semestre in un documento e si è messo a parlare di altro per evitare domande scomode sull’Italia e spostare il discorso su vaghi principi, come lo slogan della “generazione Telemaco” copiato da Recalcati (che non ha citato). Poi ha saltato la conferenza con la stampa estera, sempre per evitare un confronto.
Renzi ha preferito andare da Vespa. Come l’hanno presa gli altri eurodeputati?
I tedeschi e gli spagnoli della sinistra hanno detto che fa quello che gli pare come Berlusconi. E durante il suo intervento, di circa due ore, tantissimo, in molti si sono annoiati. Non si parlava di nulla di concreto. L’unica cosa seria l’ha detta Weber, cioè di scordarci di cambiare i patti.
Il premier ha risposto che non prende lezioni dall’Ue. Chi vincerà?
È uno scontro fintissimo, una messa in scena. Renzi non vuole rivedere nessun trattato. Sta tentando in tutti i modi di ritardare le manovre di rigore. Gli servono sei mesi di respiro per andare alle elezioni il prossimo febbraio, stravincere e solo dopo fare i tagli di austerity. Mi sembra strano che nessuno se ne sia accorto.
Quindi la flessibilità di cui parla il premier è uno slogan?
La flessibilità non esiste. Renzi chiede solo sei mesi di tregua. Infatti non ha chiesto di rinunciare al fiscal compact.
Non potrebbe andare al voto già a novembre?
No, la nuova legge elettorale per novembre non sarà pronta. Sulle liste bloccate ha l’accordo di Berlusconi, che vuole confermarsi capo di FI e su questo non si discute. Grillo è in crisi e Sel è spaccata. Lui prenderà i voti da destra a sinistra.
E Bruxelles?
La Commissione europea non verrà insediata fino a novembre, quindi Renzi avrà il tempo per posticipare la manovra e fare contentini, come gli 80 euro ai pensionati. La sua strategia è buttare la palla avanti. L’ha fatto anche da sindaco di Firenze: in mille giorni aveva promesso la tranvia ma dopo cinque anni non c’è nulla. Dopo i problemi diventano degli altri.
Però in Italia Renzi ha tutti dalla sua parte per ora?
Non vedo punti di debolezza. Il suo problema è che fa quello che vuole. Si sta scegliendo perfino la minoranza interna: al posto di Cuperlo e Civati vuole Fava e Migliore. È più furbo di Berlusconi, nel senso che è subdolo: passano cose per cui Berlusconi veniva dilaniato. Se Renzi fa una legge incostituzionale è comunque bravo, per l’altro invece si scendeva in piazza. Quello che in Berlusconi faceva scandalo, in Renzi fa simpatia.
Due pesi e due misure…
Sì. Ed è grave perché significa che non esistono piu regole. Se lo fa il nostro lo sdegno non vale, se lo fa il nemico sì? Non significa che loro due sono uguali, ma quando fanno la stessa cosa i giudizi sono diversi.
Alla fine della fiera, il premier la farà franca davanti all’Ue?
Non è sicuro che ottenga la tregua pre-elettorale. Di una cosa sono sicuro però: se va alle elezioni, fa il pieno perchè intorno ha un deserto. Ha vampirizzato tutti. E a Strasburgo ha lanciato la sua campagna elettorale.
(Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2014)
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La foto della situazione in Israele

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Questi sono giovani palestinesi che lanciano pietre e si fanno scudo con un pallet rotto, dall’altra parte ci sono i militari israeliani perfettamente equipaggiati. Per il momento l’equilibrio è questo.

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Credo di aver fatto un viaggio in Israele

Con l’assassinio di tre giovani israeliani a Hebron e le prime immediate reazioni già in atto mentre scrivo, torna di mediatica attualità la questione israeliana/palestinese. Una questione fondamentale del nostro tempo. Unica, ma con molte facce. Internazionale, non regionale. Storica, cioè della storia dell’intero Occidente, non solo attuale. Paradigmatica, della politica e del pensiero strategico. Risolvere questa questione vorrebbe dire passare ad un altro stadio della civiltà umana. In questo blog non è mai stata affrontata, ma presuppongo che i miei quattro lettori ne sappiano almeno quanto me, quindi non la faccio tanto lunga e scrivo in libertà.

Nel cuore dello scorso mese di giugno ho fatto un viaggio di dieci giorni in Israele/Palestina. Un viaggio autonomo, fatto in quattro, preparato da me stesso e qualche dritta d’agenzia, perché interessato da sempre a quel paese. Un viaggio in un posto ricco, di paesaggio e storia, di bellezze e di brutture, di contraddizioni. Essendo senza altra guida umana, oltre agli aspetti paesaggistici ed archeologici, abbiamo avuto modo di cogliere solo con leggerezza, in superfice, alcuni aspetti antropologici e politico-sociali. Però mi è capitato di colloquiare a lungo con un giovane francescano italiano della Custodia di Terra Santa, da cui ho avuto soprattutto conferma delle divisioni profonde, assolute, non solo tra le popolazioni, ma anche tra i numerosi gruppi intellettuali.

D’altronde, anche volendo, sarebbe impossibile non vedere la separazione tra Israele e Cisgiordania, con i check-point stradali, le pattuglie militari nei posti cruciali, i metal detector per visitare aree e musei, il muro divisorio per centinaia di chilometri, il comportamento degli ortodossi ebrei. Mi è capitato perfino di sgridare alcuni bambini palestinesi (non avevano neanche dieci anni), che lanciavano grossi sassi contro automobili parcheggiate sulla Via Dolorosa (la Via Crucis), ben dentro le mura di Gerusalemme. Ho avuto l’impressione netta che l’intifada non sia mai finita o sia già ricominciata.

Mi ero preparato il viaggio per andare in piena autonomia automobilistica e così abbiamo fatto. Prima a Tel Aviv, quindi a Jaffa, Cesarea, Akko (Acri). Poi a Tiberiade, quindi a Cafarnao, tra i resti di Betsaida, il corso alto del Giordano affluente del lago, solo avvistata Gamala (da riprendere) e solo sfiorata Gerico (perché in Cisgiordania, dove ci vuole più calma). Evitato accuratamente Nazaret e visitato invece Betlemme. Quindi lungo il Mar Morto, anche dentro le sue acque inospitali, su e giù a Masada, dentro il suo mito vivente. Per finire gli ultimi giorni dentro le mura di Gerusalemme, nei luoghi sacri ai tre monoteismi, e fuori le mura, nei musei ebraici e tra i quartieri (veramente impressionante Mea Shearim, quello degli ultraortodossi ebraici).

Il viaggio è andato bene. Personalmente ho apprezzato molto anche la cucina palestinese. Ma accendendo la tv in hotel c’erano sempre le facce dei tre giovani studenti, figli di coloni, di cui si aspettava ora per ora il ritorno. Ieri invece ne hanno fatto il funerale.

Ero preparato ad un viaggio particolare, non rischioso, questo non lo pensavo, ma difficile perché in un ambiente con tutte le contraddizioni possibili. Alla fine è stato un viaggio fortemente mentale, un viaggio che non mi pare mai finito, un viaggio che forse ho solo sognato.

Quello che mi è più certo, vero, è che nei prossimi giorni e mesi e anni, Israele/Palestina (non vedo come separarli/distinguerli) saranno al centro di tante cronache internazionali. Speriamo – perché la speranza è di tutti, anche e soprattutto di quelli come me che pensano a programmi positivi e di cambiamento – che in quella zona arrivi qualche nuova illuminazione.

Non servono nuovi profeti, mistici o visionari, servono o bastano uomini di buona volontà, come Yitzhak Rabin (1922-1995) e Yasser Arafat (1929-2004). Sono morti un po’ “forzatamente”? Tutti dobbiamo morire. Quello che non possiamo fare è vivere senza speranza di giustizia e di libertà, non solo per se stessi, ma per tutti.

PS. Segnalo un’ottima guida storica e all’attualità politica nel libro di Ari Shavit, La mia terra promessa (sottotitolo molto parlante: Israele: la storia e le contraddizioni di un paese in guerra per la sopravvivenza), Sperling & Kupfer, Milano 2014 (ed. or. 2013). L’autore è un giornalista di Haaretz.
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Il Mose tra il Piave ed il Lemene

Riproduco integralmente un articolo pubblicato oggi sugli affari ormai consolidati nella sanità regionale veneta. E’ chiaro che il pensiero va anche al nostro benedetto ospedale unico… Il meccanismo (si fa per dire) del Mose pare lo stesso o perlomeno molto simile a quello della sanità pubblica (si fa per dire). Un’altra buona ragione per non fare ora nel Nordest altri, nuovi, unici, comunque ulteriori ospedali.

Il “sistema Venezia” nel campo sanitario
Un business miliardario con nomi noti
Il ramo ospedaliero del Mose
di Sebastiano Canetta e Ernesto Milanesi
Due Mose ogni anno. La Regione gesti­sce 8,5 miliardi di euro del ser­vi­zio sani­ta­rio nazio­nale nel bilan­cio di ordi­na­ria ammi­ni­stra­zione. Ospe­dali, per­so­nale, ser­vizi, con­ven­zioni: un «giro d’affari» che ha fatto gola, eccome, alla sus­si­dia­rietà bipar­ti­san.
Grandi opere come i nuovi «poli» di cura, ghiotte ester­na­liz­za­zioni (dai pasti alle puli­zie, dalla gestione calore alle manu­ten­zioni), logi­stica ben­data, call-center e par­cheggi alle coop su misura, inte­gra­zione con Uni­ver­sità pub­bli­che e labo­ra­tori pri­vati. Con l’inchiesta della Pro­cura di Vene­zia affiora anche il filone della sanità non solo con il con­tratto di «con­su­lenza» pagato dal Con­sor­zio veneto coop a Gian­carlo Ruscitti, ex segre­ta­rio gene­rale della sanità in Regione e poi ammi­ni­stra­tore di Ihfl Srl.
È il com­parto di palazzo Ferro Fini fuori con­trollo. Prima con il «sistema Galan» e quindi con la dit­ta­tura di Dome­nico Man­toan. Fino al 2010 la sanità veneta era curata da poli­tica & affari con i fede­lis­simi dg delle sette pro­vince, ma almeno era ancora vigi­lata dal Crite: la com­mis­sione regio­nale per l’investimento in tec­no­lo­gia ed edi­li­zia riat­ti­vata dalla deli­bera numero 1.455 del 6 giu­gno 2008. Poi Man­toan col­le­ziona inca­ri­chi a raf­fica: com­mis­sa­rio Usl 12, liqui­da­tore dell’Agenzia regio­nale, com­mis­sa­rio dell’Istituto onco­lo­gico veneto, mem­bro del CdA dell’Agenas (l’agenzia nazio­nale dei ser­vizi sani­tari regio­nali). E soprat­tutto si «libera» da ogni gab­bia: la deli­bera 18 del 9 gen­naio 2013 scio­glie l’Arss e insieme azzera le valu­ta­zioni tec­ni­che e con­ta­bili sulla gestione di ospe­dali vec­chi e nuovi.
Il 19 marzo 2013 il con­si­gliere comu­nale di Vene­zia Gian­luigi Pla­cella (M5S) scrive a tutte le auto­rità com­pe­tenti. Segnala il deva­stante impatto del pro­ject finan­cing del nuovo ospe­dale all’Angelo in via don Gius­sani sui conti dell’Usl 12. E si è già rivolto alla Corte dei Conti per il danno era­riale. È il busi­ness del labo­ra­to­rio ana­lisi e della dia­gno­stica per imma­gini, con l’ingegner Pier­gior­gio Baita della Man­to­vani pron­tis­simo a rinun­ciare «per 250–300 milioni cash», forte del con­tratto che sca­rica comun­que gli oneri com­ples­sivi sulle casse pubbliche.
Sem­pre nel 2013 alla Corte dei Conti arriva anche il det­ta­glia­tis­simo espo­sto con tanto di tabelle rias­sun­tive che «radio­grafa» il nuovo ospe­dale di San­torso (Vicenza). Altro pro­ject da 157 milioni affi­dato a Sum­mano sanità scarl di Arcu­gnano nell’area di 184.744 metri qua­dri di Campo Romano. Un nuovo «polo» al posto delle strut­ture di Thiene e Schio. Un vero affare per Man­to­vani, Pal­la­dio Finan­zia­ria, Gemmo, CMB di Carpi, Coop­ser­vice, Sere­nis­sima Risto­ra­zione, Con­sor­zio Coo­pe­ra­tive e stu­dio Altieri che prov­ve­dono al «pac­chetto com­pleto»: dal pro­getto ai can­tieri fino alla gestione di ser­vizi e par­cheggi. Con­tratto blin­dato per 24 anni. L’investimento pri­vato da 79 milioni è desti­nato a gene­rare un busi­ness di oltre un miliardo. L’Usl 4, invece, si ritrova a pagare nel 2020 una rata di 19.459.556 euro: con un sem­plice mutuo ban­ca­rio al tasso del 6% sareb­bero sol­tanto 6.251.440…
La sus­si­dia­rietà sani­ta­ria in Veneto fun­ziona a pieno regime. La coop ciel­lina Giotto ha ottie­nuto da Adriano Cestrone, dg dell’Azienda ospe­da­liera di Padova, il call-center delle pre­no­ta­zioni. Per l’archivio delle car­telle cli­ni­che da digi­ta­liz­zare sono pronti i capan­noni degli ex Magaz­zini gene­rali, men­tre la logi­stica ospe­da­liera è nelle mani della Log’s di Parma che cer­ti­fica di nuovo il legame fra Com­pa­gnia delle Opere e Lega­coop. E intanto sull’ospedale al mare del Lido di Vene­zia si con­suma l’investimento di Est Capital.
Oggi si capi­sce molto meglio la trama ordita nel «modello veneto» del Due­mila. Lo spec­chio del Mose si riflette nella sanità ane­ste­tiz­zata con la stessa ricetta.
È di appena quat­tro mesi fa la vera gara per le assi­cu­ra­zioni di respon­sa­bi­lità civile nelle Usl venete: ha vinto la com­pa­gnia ame­ri­cana Wil­lis insieme alla vero­nese Arena Bro­ker Srl con l’1% di prov­vi­gione. In pre­ce­denza (e per 15 anni) la super-polizza da 80 milioni all’anno era un’esclusiva di Assi­doge di Mirano che spon­so­riz­zava volen­tieri le «gite» degli amici di Galan al Pre­mio Brioni in Croazia.
Poi c’è il «car­tello» che mono­po­liz­zava i ser­vizi all’interno degli ospe­dali del Veneto, come denun­ciato dall’ingegner Pie­tro Auletta (ammi­ni­stra­tore dele­gato di Duss­mann Ita­lia) nella let­tera spe­dita al gover­na­tore leghi­sta Luca Zaia appena eletto nel 2010: «In nessun’altra regione ita­liana si sono con­so­li­date posi­zioni tanto rile­vanti in capo a ope­ra­tori eco­no­mici dei set­tori, siano essi società sin­gole, come accade nella risto­ra­zione ospe­da­liera, o affe­renti al modello socie­ta­rio coo­pe­ra­ti­vi­stico nella sani­fi­ca­zione sani­ta­ria».
Punta l’indice su Sere­nis­sima Risto­ra­zione che vanta il 61% dei pasti ospe­da­lieri (31,7 milioni di fat­tu­rato) e sulle coop delle puli­zie: Manu­ten­coop, Coop ser­vice, Cns, Copma e Minerva che arri­vano al 71% degli appalti della sani­fi­ca­zione per 48,5 milioni all’anno.
Il sistema bipar­ti­san di poli­tica & cemento ospe­da­liero è spia­nato dagli atti di pub­blico domi­nio. Fin dal pro­getto dell’Angelo di Mestre, la sus­si­dia­rietà rin­via ai «can­ni­bali» del Mose: il pro­ject da 254 milioni è affi­dato ad Astaldi, Gemmo e Man­to­vani. E nel 2009 c’è il bando del nuovo ospe­dale della Bassa pado­vana (142,8 milioni di cui 84 pub­blici) con ana­logo pro­ce­di­mento. Pro­getto dello stu­dio Altieri con la società Net Engi­nee­ring: il primo è sino­nimo dell’eurodeputata for­zi­sta Lia Sar­tori; l’altra con­tri­bui­sce alle cam­pa­gne elet­to­rali del pre­si­dente del con­si­glio regio­nale Clo­do­valdo Ruf­fato e del pre­si­dente della Com­mis­sione Sanità Leo­nardo Padrin con 20 mila euro cia­scuno. I can­tieri in via di ulti­ma­zione sono gestiti, invece, dalle imprese Gemmo (orbita Galan), Car­ron (in con­tatto con l’assessore Chisso) e Sacaim (sal­vata dal gruppo friu­lano Riz­zani De Eccher che si accolla 166 milioni di debiti).
Com­ple­tato nel 2008, il nuovo ospe­dale di Castel­franco (Tre­viso) è tar­gato Gruppo Guer­rato di Rovigo. Pec­cato che nel secondo e decimo piano si spa­lan­chino 1.600 metri qua­dri deso­la­ta­mente vuoti. In com­penso, al piano 12 l’accoglienza è garan­tita dall’hotel Gior­gione della fami­glia Fior.
È andata per­fino peg­gio al mega-ospedale miliar­da­rio di Padova su cui erano tutti d’accordo: il gover­na­tore Galan e il sin­daco Pd Fla­vio Zano­nato, i mana­ger sani­tari Ruscitti e Cestrone, il ret­tore Vin­cenzo Mila­nesi e il suo suc­ces­sore Giu­seppe Zaccaria. Imma­gi­nato come «appen­dice» del Mose da Maz­za­cu­rati, aveva mobi­li­tato fidu­ciari e con­su­lenti in un puzzle rico­struito nei ver­bali della Pro­cura della Repub­blica di Vene­zia. Già dra­sti­ca­mente ridi­men­sio­nata dalla giunta Zaia, l’operazione immo­bi­liare e finan­zia­ria di fatto viene ora archi­viata con l’elezione del sin­daco leghi­sta Mas­simo Bitonci.
il Manifesto, 25 giugno 2014
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Marc Bloch (1886-1944)

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Marc Bloch, di cui oggi ricorre il 70° anniversario della morte è stato un grande maestro, soprattutto come storico, ma anche come leader morale e patriota francese. E’ morto infatti torturato e fucilato dai tedeschi che erano riusciti a metter le mani su un intellettuale ebreo e partigiano.

La sua lezione intellettuale non è facile da sintetizzare e quindi faccio uso spudoratamente del miglior articolo che ho letto di recente, pubblicato il 1° giugno sul Domenicale de Il Sole 24 Ore.

La Storia nelle scienze sociali
di Donald Sassoon
Quando ero al liceo un illuminato insegnante di storia promise un dieci a chiunque avesse letto per intero La société féodale di Marc Bloch (e in grado di dimostrarlo). A sedici anni l’idea di ottenere un tale voto semplicemente leggendo un libro era irresistibile. Il libro era lungo e difficile, ma anche molto diverso dalla storia tradizionale, con la sua serie straordinariamente noiosa di date e storie di grandi uomini che avevano cambiato il mondo e vinto guerre. Guadagnai qualcosa di più di un buon voto: compresi quanto potesse essere eccitante la storia, anche la storia delle strutture, dei cambiamenti lenti, delle credenze, di come si forma e si mantiene la sudditanza, e come le cose cambiano da luogo a luogo. Per di più il tutto era scritto in una prosa elegante e a volte ironica, con un uso parsimonioso ma sottile di metafore. Si parlava perfino degli emiri del Qayrawan e dei califfi Fatimidi, con nomi che sembravano appartenere al mondo incantato delle Mille e una notte.
Bloch, nato nel 1886 a Lione, frequentò la prestigiosa École Normale Supérieure, poi fu ufficiale nella Grande guerra e infine ottenne un incarico universitario a Strasburgo, ora di nuovo territorio francese. Lì, proprio nell’ufficio accanto al suo, Bloch incontrò un altro storico dalle idee originali: Lucien Febvre. Insieme fondarono, nel 1929, la rivista «Annales d’histoire économiques et sociales». E così cambiarono la storia. Poi Bloch si trasferì alla Sorbona e gli Annales diventarono una école senza pari in altri Paesi. I loro seguaci, Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff ed Ernest Labrousse diventarono anch’essi grandi maestri della storiografia francese.
L’innovazione degli Annales fu di sfidare la forma dominante del racconto storico, vale a dire una narrazione incentrata in gran parte sul periodo breve, su eventi come guerre, rivoluzioni e diplomazia. Bloch e Febvre volevano una storia che esaminasse la longue durée (ma dobbiamo il termine a Braudel). Non si tratta semplicemente di una storia che comprenda un periodo molto lungo, ma che si soffermi su mutamenti lenti come il paesaggio o l’alimentazione, le abitudini, i riti. Questo veniva contrapposto alla storia degli eventi o histoire évènementielle, e cioè la storia dei movimenti improvvisi, come le rivoluzioni e guerre.
L’approccio di Bloch e Febvre aveva avuto precursori illustri. L’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations di Voltaire era una storia generale del cristianesimo finalizzato a mettere in luce gli orrori del fanatismo religioso. Il Declino e caduta dell’Impero Romano di Edward Gibbon si soffermava a lungo su aspetti sociali e culturali. Nel XIX secolo Jules Michelet e Jacob Burckhardt produssero storie del Rinascimento con un approccio “totalizzante”. Il concetto di Volksseele (l’anima del popolo) dello storico tedesco Karl Lamprecht (1856-1915) influenzò la storia delle mentalità dei pionieri degli Annales.
Bloch e Febvre, partendo da un’ottica molto più rigorosa di quella dei loro predecessori, abbracciarono con entusiasmo l’idea di mettere la storia al centro delle scienze sociali, quali l’economia, la sociologia (particolarmente quella di Émile Durkheim), l’antropologia e la geografia.
Nel 1940 Bloch, essendo ebreo, perse il suo incarico universitario, la sua casa fu requisita, la sua biblioteca privata confiscata. Trasferito a Clermont-Ferrand, ma privo di accesso ad archivi e biblioteche, Bloch scrisse un testo meraviglioso sul mestiere dello storico: Apologie pour l’histoire. Nel 1942 diventò partigiano. Nel 1944 fu arrestato dalla Gestapo, torturato e poi fucilato.
Il suo capolavoro, Les rois thaumaturges (I re taumaturghi), è uno dei grandi libri di storia del XX secolo. È l’opera fondatrice della storia delle mentalità, la base della storia antropologica. In questo testo Bloch esamina la convinzione che il re avesse il potere di curare la scrofola semplicemente toccando il paziente. Partendo da questa semplice credenza Bloch spiegava il ruolo del “miracolo” nella concezione del potere politico assoluto come potere sacro, concezione che non si limitava al Medio Evo, poiché il rito è sopravvissuto nel Seicento e nel Settecento. In poco più di quattro anni (1660-64) Carlo II d’Inghilterra “toccò” più di 23mila persone e Luigi XIV ebbe più malati di qualsiasi dei suoi predecessori. L’aspettativa del “miracolo” era più importante del “miracolo” stesso in quanto vi erano persone che tornavano per essere toccate un’altra volta, la loro fede per nulla offuscata dall’evidente fallimento.
Centrale in questo studio era il concetto di memoria collettiva. In una società dove la maggior parte delle persone non sanno scrivere e dove poco è scritto, la memoria collettiva è ancora più importante che in epoche successive, non perché la gente “ricordi” di più, ma perché un evento incidentale, se ripetuto più volte sembra essere esistito da lungo tempo. In questo tipo di società un cambiamento può essere rapidamente legittimato sulla base di precedenti e “tradizione”, pur essendo spesso recente ed eccezionale. Così, sotto l’aspetto di un mondo immutabile, il Medio Evo cambiava costantemente anche se in modi diversi dai mutamenti descritti dalla storia évènementielle. Bloch ci offre una molteplicità di esempi come il caso dei monaci di Saint Denis, nel X secolo, ai quali era stato chiesto di donare una determinata quantità di vino in una giornata dove questo mancava nella cantina reale. Una “tradizione” fu rapidamente imposta: ogni anno i monaci dovevano consegnare la stessa quantità di vino nello stesso giorno. Un editto fu poi necessario per abolire questa usanza. Ciò portò alla crescita di accordi contrattuali, per cui se un barone o un vescovo, bisognoso di denaro, avesse voluto fare affidamento sulla “generosità” di uno dei suoi vassalli, questo richiedeva un documento scritto che specificasse che il dono non stabiliva un precedente.
Naturalmente queste trattative si potevano fare solo quando la disparità sociale non era eccessiva; nella maggior parte dei casi anche la violenza giocava la sua parte.
La lezione di Bloch consisteva in questo: non è sufficiente raccogliere il materiale e metterlo in ordine. Occorre interrogarlo, costringerlo a rivelare quello che non si vede, scovare quello che c’è sotto. Insomma lo scetticismo è una delle grandi armi dello storico. E questa lezione valeva più di un buon voto.
(Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2014)
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Il sorriso di Berlinguer

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Prima decade di maggio 1981, Enrico Berlinguer tiene a Vicenza un comizio sul referendum indetto dal “Movimento per la vita” per abrogare alcuni articoli della legge 194 del 1978 sull’interruzione di gravidanza (aborto). Io allora, quando potevo, andavo ai suoi comizi. E questo era molto comodo, perché vicino ed in un ambiente accogliente come piazza dei Signori. Era anche un’occasione per trovarci coi nostri amici e compari vicentini. Ancor oggi ogni occasione è buona.

Alla fine del comizio serale ci siamo orientati in centro, cercando il posto più vicino per cenare. L’abbiamo trovato quasi subito, un ristorante ancora aperto sotto le dieci di sera, anche se non c’era nessun avventore. Prima di sederci a tavola, tutti in toilette. Io andai per ultimo. E quando mi stavo sciacquando le mani, aprì la porta un tizio che mi guardò bene, anche negli occhi e richiuse.

Poco dopo, entrò Berlinguer… Rimasi attonito, ma appena un po’… Mi ripresi subito per dirgli: «Compagno Berlinguer… posso salutarti? Ho le mani pulite.» Lui sorrise come sempre: «Certo» – ed allungò la sua mano. All’uscita i miei compagni si affrettarono di informarmi che c’era Berlinguer… «Già salutato» – risposi.

Questo fu il mio unico incontro ravvicinato con Enrico Berlinguer, un sorriso ed una stretta di mano in una toilette di Vicenza. Nell’occasione dei trent’anni della sua scomparsa (Padova, 11 giugno 1984) non mancheranno gli scritti di tanti autori, ognuno con il suo Berlinguer. Io mi tengo anche il mio piccolo ricordo.

(Nella foto, Berlinguer tra le ragazze comuniste nel 1950)
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Ospedali Nuovi Srl

“Ospedali e appalti stradali – la Procura verso altri blitz”, così titola oggi la Nuova Venezia un articolo di Carlo Mion (p. 9). Il sottotitolo è appena più esteso: “Due nuovi filoni all’orizzonte: opere viarie e ospedali in project-financing – L’ipotesi che il ‘sistema Mazzacurati’ non sia stato applicato solo al Mose”.

Nell’articolo, che linkerò appena sarà disponibile, tra l’altro, si può leggere:

Se il “sistema Mazzacurati”, funzionava per il “Pozzo di San Patrizio”, qual è stato per decenni il Mose in Veneto, difficile immaginare che non abbia funzionato anche per altre opere realizzate nella nostra regione. Del resto le società che lavoravano a si spartivano la “torta”, erano sempre le stesse.

Difficile proprio non pensarlo. E’ il caso di bloccare questa produzione di torte.

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4 giugno 2014

giorgio-orsoni-sindaco-di-venezia

Abbiamo un’altra data da ricordare, il 4 giugno 2014. Mentre ogni commento pare ormai vano. E non ci resta che gestire al meglio il proprio pensiero dominante, ognuno come gli va.

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Franz Kafka (e il suo cane), 90 anni dopo

Quante volte non abbiamo visto questa foto di Franz Kafka (3 luglio 1883 – 3 giugno 1924)? Ma quanti hanno notato o sapevano che nella foto c’è anche un suo cane? Pochi, anche perché il cane è accarezzato ma sfocato e la foto viene perlopiù tagliata.

Eppure la letteratura è piena densa di storie e di rapporti tra gli autori ed i loro cani. Ecco, oggi che ricorrono i novant’anni dalla morte di Franz Kafka, io lo ricordo così, con il suo cane. Ma non senza ricordare anche almeno il suo racconto in cui lui scrive come fosse un cane, “Indagini di un cane“, uno degli ultimi (1922) e quindi fra i più “kafkiani”.

“Probabilmente morirò in silenzio, circondato dal silenzio, quasi pacificato, e a questa attesa vado incontro preparato. Noi cani abbiamo ricevuto quasi per cattiveria un cuore mirabilmente forte e dei polmoni che non si logorano anzitempo, resistiamo a tutte le domande, anche alle nostre, bastioni del silenzio quali siamo.”
(“Indagini di un cane”, tratto da Franz Kafka, Romanzi, trad. di Ervino Pocar, Meridiani Mondadori, Milano 1993)
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