Il Pd nella Terra di Mezzo

Questo è un altro buon articolo su Mafia Capitale. Lo riporto appena tagliato in testa (le evidenziazioni sono mie).

Terra di Mezzo
di Augusto Illuminati
(…) Quello che sorprende non è l’ignobile trama con cui ha arraffato il potere economico una combriccola di ex-detenuti, fascisti di varia osservanza e piddini corrotti, sotto gli occhi di un Marino alquanto distratto e di un’opposizione più attenta alle infrazioni della Panda rossa del sindaco che non a maneggi criminali sfacciatamente esibiti. Cose che capitano. E che la destra romana in tutte le sfumature stesse assai ammanicata con truffatori, tangentisti e delinquenti non è una novità. Perfino la doppia funzione di speculare su zingari e migranti e allo stesso tempo di aizzare le periferie contro di loro è un classico. Quando alla testa del corteo popolar-razzista abbiamo visto Alemanno e Tredicine, il re dei caldarrostari e ombrellari bengalesi, si era capito subito il gioco.
Lo scandalo vero è un altro e riguarda solo il Pd o PdR che dir si voglia, il partito della Nazione, di quelli che volevano che Landini chiedesse scusa per aver dubitato che Renzi avesse il consenso degli onesti e allo stesso tempo mandavano un bacio grande a Buzzi. Che Renzi abbia immediatamente sciolto la direzione romana del Pd (peraltro a lui indigesta), cercando di recuperare l’odiato marziano Marino per evitare lo scioglimento del Comune per mafia e una nuova elezione che farebbe impallidire l’astensionismo emiliano, non occulta il fatto che uno dei gruppi dirigenti fondamentali si presenti non solo corrotto ma complice di forze criminali e di destra eversiva. Per di più a grande notorietà mediatica. I ragazzini con i pupazzi del Nero e del Libanese ci giocano: vogliamo vedere Poletti con la coppola in vendita a S. Gregorio Armeno il prossimo Natale?
Com’è possibile che, nel pieno dell’offensiva di CasaPound, Borghezio e Lega contro zingari e rifugiati, solo i centri sociali e le associazioni di sostegno ai migranti abbiano denunciato la morsa mortale di pogrom e finte cooperative di sfruttamento, la spirale perversa fra costi di mantenimento elevati e feroce taglieggiamento degli operatori, per un verso, degli ospiti dall’altro? Chi si ficcava in tasca quei soldi? Non servivano forse i pogrom a spostare a rotazione campi rom e centri di accoglienza da una parte all’altra per ottenere fondi che poi qualcuno si pappava spudoratamente? Le vicende dei Cara siciliani e pugliesi e di Castelnuovo di Porto erano state denunciate molto prima che scoppiassero le insurrezioni “ben guidate” di Corcolle, Tor Sapienza, Torpignattara, Infernetto ecc.
Il gruppo dirigente romano del Pd conosceva bene in realtà il gioco della spartizione dei fondi e anche della distribuzione in eccesso dei profughi nel Lazio. Lo conosceva perché vi partecipava, perché loro stavano dentro la macchina, ne ricavano stecche di partito e private e chiudevano un occhio sulla mobilitazione dei penultimi (gli abitanti delle periferie abbandonate) contro gli ultimi. Aveva un bell’andare Marino da Alfano chiedendo di spostare altrove i rifugiati, mentre i suoi assessori si spartivano l’eccesso di Rom, minori non accompagnati e asilanti contro un discreto bottino tangentizio. Tutti zitti, un bel regalo al nascente Fronte lepenista nel nostro Paese.
Ma i consiglieri, deputati, funzionari del Pd che andavano in visita pastorale nelle cooperative (Poletti in prima fila) non potevano denunciare la demagogia di Alemanno, quando l’hanno visto alla testa dei pogrom? No che non potevano, proprio perché ci mangiavano insieme (in senso proprio e figurato) e ci si facevano i selfies. Così che familiarmente possono essere evocati nell’intercettazione di una telefonata di Buzzi a Odovaine: «A noi ce manda Goffredo (Bettini) con una precisa indicazione»…
Il ruolo di Poletti, come ex-presidente di Legacoop, è ancora più emblematico. Ha un bel commissariare quella regionale laziale (il giorno dopo la fuga dei maiali dal porcile), ma resta il fatto che organicamente la sua Lega è la principale utilizzatrice finale del saccheggio dei fondi europei per trasformare la tragedia dei richiedenti asilo per guerra in colossale affare. Isis e affini li costringono alla fuga, gli scafisti li taglieggiano e alla fine ci mangiano sopra le coop e il terzo settore inquinato. Da al-Baghdadi a Poletti il cerchio si chiude. La legge mafiosa del sub-appalto, del resto, contrassegna la filiera migrante come il Jobs Act, è la stessa logica della precarietà e delle “tutele crescenti”.
Il crimine è la matrice del prelievo biopolitico, non un suo effetto collaterale. La bolla speculativa dell’accoglienza tossica – come è stata definita in un documento di ResistenzeMeticce – si fonda sulla spartizione del mercato al 50% fra il gruppo Eriches 29 di Buzzi e l’Arciconfraternita di Zuccoli, emanazione Cei. Con la benedizione del Comune, sotto le amministrazioni Alemanno e Marino, e del ministero degli Interni. E con il complemento della protesta mediatica e teppistica contro il “degrado”, alla cui testa si collocano proprio quanti ne sono responsabili e fruitori.
A Roma non è purtroppo affare di poche mele marce o, secondo la metafora del sindaco-trapiantista, di tumori isolati: marciume e metastasi dilagano nel ceto politico e contaminano l’insofferenza da crisi. Ma c’è un’altra Roma non mafiosa e solidale, quella che sabato 13 dicembre si ritroverà alle 15 a piazza Vittorio per il diritto alla città. Un’altra volta, come il 3, per difendere l’onore romano contro la cosca del Jobs Act, dei centri d’accoglienza e degli sgomberi.
alfabeta2, 8 dicembre 2014
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L’equazione italiana

L’equazione italiana, cioè il rapporto tra le variabili indipendenti ed il risultato sociale e politico, si può esprimere con la funzione p= f (a,m), dove p= politica, a= affari e m= mafia.

Questa funzione è purtroppo arcinota e quotidianamente confermata, come sta progressivamente emergendo anche dall’inchiesta su Mafia Capitale. In realtà sono eventi che hanno radici profonde e in questioni storiche che non hanno mai avuto soluzioni di continuità. Anzi, hanno avuto i perfezionamenti criminali tipici di un blocco di potere antico ma sempre capace di rinnovarsi.

L’unica vera novità, dopo le vicende dell’Expo e del Mose, è la progressione in cui emergono i casi locali, sembra proprio che il sistema non regga più, non riesca più a nascondersi.

Tuttavia, se tutto è arcinoto, le analisi giornalistiche sono perlopiù banali e “locali”, relegate a Roma.  Così, riporto il miglior articolo letto finora, le sottolineature sono mie.

Quando Berlinguer annunciava la palude
di Alberto Burgio
«I par­titi di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gesti­scono tal­volta inte­ressi loschi, senza per­se­guire il bene comune. La loro stessa strut­tura orga­niz­za­tiva si è ormai con­for­mata su que­sto modello. Non sono più orga­niz­za­tori del popolo, for­ma­zioni che ne pro­muo­vono la matu­ra­zione civile: sono piut­to­sto fede­ra­zioni di cama­rille, cia­scuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco per­ché dico che la que­stione morale è il cen­tro del pro­blema ita­liano. Se si con­ti­nua in que­sto modo, in Ita­lia la demo­cra­zia rischia di restrin­gersi e di sof­fo­care in una palude». A quanti sono tor­nate in mente in que­ste ore le parole di Enrico Ber­lin­guer nella famosa inter­vi­sta alla Repub­blica del feb­braio 1981? Sono tra­scorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge. (…)
In que­sti trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine con­tro il malaf­fare. Lo si è asse­con­dato, lo si è favo­rito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di cra­xiana memo­ria. Della Milano da bere e del patto scel­le­rato tra Stato e capi­tale pri­vato che aprì le vora­gini del debito pub­blico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la poli­tica usata (con la com­pli­cità di gran parte della «sini­stra») per sal­vare le aziende di fami­glia; la lega­liz­za­zione dei reati finan­ziari; l’esplosione delle ine­gua­glianze. E ven­nero le «riforme isti­tu­zio­nali» che, pro­prio per ini­zia­tiva della sini­stra post-comunista, die­dero avvio allo stra­vol­gi­mento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo dise­gnata in Costituzione.
Il pre­si­den­zia­li­smo negli enti locali ha reso le isti­tu­zioni più fra­gili e per­mea­bili ai clan anche per effetto di un appa­rente para­dosso. L’accentramento mono­cra­tico del comando è andato di pari passo con la disar­ti­co­la­zione dei par­titi poli­tici, cul­mi­nata nella farsa delle pri­ma­rie aperte. Que­sto pro­cesso ha da un lato azze­rato la dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e la fun­zione di orien­ta­mento cul­tu­rale svolta in pre­ce­denza dai par­titi di massa; dall’altro ha pro­mosso una sele­zione per­versa del ceto politico-amministrativo, pre­miando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i par­titi – soprat­tutto i mag­giori – si sono ritro­vati sem­pre più spesso alla mercé delle con­sor­te­rie e delle cupole, secondo un mec­ca­ni­smo ana­logo a quello che in altri tempi per­mise a Cosa nostra di coman­dare nella Palermo di Lima, Cian­ci­mino e Gioia.

Ma un ruolo-chiave, in que­sto disa­stro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedi­cente liqui­da­zione delle ideo­lo­gie: l’avvento di una poli­tica che si pre­tende post-ideologica, che ha signi­fi­cato in realtà il con­gedo di gran parte della sini­stra ita­liana dalle lotte del lavoro e da una pro­spet­tiva cri­tica nei con­fronti degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Non è neces­sa­rio, certo, essere comu­ni­sti per com­pren­dere che mora­lità e buona poli­tica sono stret­ta­mente con­nesse tra loro nel segno del pri­mato della giu­sti­zia e del bene comune. Né in linea di prin­ci­pio ade­rire senza riserve alle ragioni del capi­ta­li­smo impe­di­sce di rico­no­scere l’importanza della que­stione morale e di essere «one­sti», per ripren­dere un lemma sul quale si è ancora di recente dibat­tuto. Ma se della mora­lità e dell’onestà non si ha una con­ce­zione povera e astratta, allora si com­prende facil­mente che entrambe coin­vol­gono diret­ta­mente il modo in cui si giu­di­cano l’ingiustizia sociale e il per­si­stere dei pri­vi­legi.
Non è un caso che, riflet­tendo sulla que­stione morale, Ber­lin­guer in quella stessa inter­vi­sta parli pro­prio di que­sto. Della neces­sità di difen­dere «i poveri, gli emar­gi­nati, gli svan­tag­giati» e di met­terli dav­vero in con­di­zione di riscat­tarsi. Non è un caso che riven­di­chi le lotte del movi­mento ope­raio e dei comu­ni­sti, non sol­tanto con­tro il fasci­smo e con gli ope­rai, ma anche al fianco dei disoc­cu­pati e dei sot­to­pro­le­tari, delle donne e dei gio­vani. Né è casuale che insi­sta sulle gravi distor­sioni, gli immensi costi sociali, le dispa­rità e gli enormi spre­chi gene­rati dal «tipo di svi­luppo eco­no­mico e sociale capi­ta­li­stico». Per con­clu­derne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi eco­no­mica, ma di feno­meni di bar­ba­rie» – deve essere supe­rato, pena il veri­fi­carsi di una cata­strofe sociale «di pro­por­zioni impensabili».
Oggi come allora la que­stione morale inve­ste fron­tal­mente la poli­tica anche per que­sta via: è una fac­cia della sua com­ples­siva dege­ne­ra­zione. Non si tratta sol­tanto di ille­ga­lità, ma anche di irre­spon­sa­bi­lità di fronte alla deva­sta­zione sociale pro­vo­cata da trenta e passa anni di domi­nio del mer­cato, del capi­tale pri­vato, dell’interesse par­ti­co­lare. Que­stione morale e irre­spon­sa­bi­lità sociale della poli­tica non sono, qui e ora, feno­meni indi­pen­denti tra loro, bensì mani­fe­sta­zioni della stessa patologia.
il manifesto, 4 dicembre 2014
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Pasolini, un patrimonio da curare

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Ho avuto occasione di visitare bene il Centro Studi Pier Paolo Pasolini che ha sede nella Casa Colussi a Casarsa della Delizia. E’ gestito dall’Associazione omonima, voluta dalla Provincia di Pordenone e dal Comune di Casarsa, a cui si è aggiunta la Regione Friuli Venezia Giulia.

Fisicamente si tratta proprio della casa della famiglia materna, mantenuta nell’edificio principale e dotata di altri spazi per il ricevimento dei visitatori e l’esposizione dell’archivio. Questo è costituito da carte autografe e da dattiloscritti di Pasolini, risalenti al periodo friulano della sua attività letteraria, da carteggi epistolari, da prime edizioni a stampa di opere pasoliniane o promosse da Pasolini, come i numeri degli “Stroligut”. Ma ci sono anche manifesti politici dell’epoca della sua attività politica (1949), documentazione fotografica e quadri di mano pasoliniana. Nonché carte autografe manoscritte e dattiloscritte di Nico Naldini, cugino di Pasolini, poeta e suo biografo.

L’attività del Centro Studi si può seguire bene grazie al sito che appare ben organizzato e puntualmente aggiornato. (E lo troverete sempre tra i link di questo blog.)

Io consiglio caldamente la visita del Centro Studi a coloro che sono interessati alla figura di Pasolini. Su prenotazione possono essere organizzate visite guidate alla Casa Colussi e nei luoghi d’interesse pasoliniano dislocati nelle immediate vicinanze del territorio casarsese. Durante il periodo estivo anche con biciclette fornite dal Centro. La mia visita, in compagnia di altre cinque persone, ha avuto la bellissima guida di Marco Salvadori, segretario del Centro, nonché coordinatore bibliotecario di Casarsa.

Pur nella sua singolare esperienza umana ed intellettuale, Pasolini sta emergendo come un punto di riferimento sempre più forte per il pensiero critico. La sua opera è uno strumento ancora assai efficace per capire il nostro spazio-tempo. A lui, alla sua grande attaulità, si attaglia perfettamente questo suo stesso verso:

la morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi.
(Poesia in forma di rosa, 1964)
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“Quando se ne accorgerà?”

L’escalation verbale di Matteo Renzi non fa ancora intravvedere la vetta che verrà toccata. Per capirne i meccanismi dovremo probabilmente attingere agli strumenti della psicologia medica, non solo alle tecniche di comunicazione nella società dei consumi e dovremo fare un’analisi comparata con alcuni precedenti storici, alcuni piuttosto inquietanti. Oggi, per esempio, un giornale piuttosto pacato come Repubblica si è sentito in dovere di pubblicare un editoriale, non firmato, che qui sotto riportiamo.

Parole sbagliate
Un conflitto sull’articolo 18 è comprensibile, ed era anche prevedibile. Il linguaggio con cui il presidente del Consiglio tratta la Cgil è invece molto meno comprensibile. È vero che Susanna Camusso lo considera un personaggio dell’Ottocento, subalterno ai padroni, abusivo a sinistra. Ma il premier – mentre annuncia a parole rispetto per chi dissente – dileggia il sindacato, banalizza le ragioni della protesta, svaluta insieme con lo sciopero una storia legata alla conquista e alla difesa di diritti che tutelando i più deboli contribuiscono alla cifra complessiva della democrazia di cui tutti usufruiamo.
La domanda è sempre la stessa: che idea ha il segretario del Pd della sinistra che guida? Un partito che voglia parlare all’intera nazione deve ospitare culture diverse al suo interno e tocca al leader – mentre decide – garantire loro spazio e legittimità. Sapendo che prima o poi si voterà, e i suoi avversari non saranno Camusso e Landini, ma Berlusconi e Verdini. Quando se ne accorgerà?
la Repubblica, 21 novembre 2014
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Cos’è il Jobs Act (ben oltre l’art. 18)

In questi giorni si parla molto di Jobs Act, la nuova legislazione sul lavoro che il governo Renzi vuol assolutamente imporre a partire dal 2015 e che pochi contrastano fortemente, tra questi soprattutto la Cgil. Ma gran parte del dibattito è incentrato sul problema dell’art. 18, ovvero sul residuo simbolico della difesa contro l’arbitrio assoluto del padrone sul dipendente sulla mercificazione anche del licenziamento. Ma il Jobs Act non è solo questo. Come ci capita spesso dobbiamo leggere Luciano Gallino per saperne di più. (Le evidenziazioni sono mie.)

Quei lavoratori poveri
di Luciano Gallino
Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa di una legge — di cui il governo parlerà, sembra, a gennaio — che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. D’altra parte la strada verso tale esito nefasto era già stata tracciata dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e del novembre 2012 (non firmato dalla Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del tutto marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari. Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si tratta di oltre 100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Questo spostamento di reddito dal ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna. Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.
Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di “lavoratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi.
(la Repubblica, 18 ottobre 2014)
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L’importanza di un bel film

il-giovane-favoloso

Da qualche settimana è nelle sale cinematografiche il film di Mario Martone “Il giovane favoloso“, il primo sulla figura di Giacomo Leopardi (1798-1837). E sta facendo incassi notevoli.

La pellicola fu proiettata all’ultima mostra del cinema di Venezia, ricevendo l’applauso del pubblico, ma non premi o segnalazioni. E’ frutto di un lavoro di ricerca lungo sia del regista napoletano che dell’attore interprete principale, Elio Germano, molto convincente nel ruolo, non semplice, del protagonista principale.

La sceneggiatura è essenziale, come biografia e come rappresentazione del pensiero e della poesia leopardiani. Anticipando il giudizio, direi che entrambe sono assai selettive, ma forse non è possibile fare di più in 137 minuti. La proiezione comunque trasmette allo spettatore una forte emozione (dopo l’ultima scena, gli spettatori perlopiù restano immobili sulla sedia ed escono silenziosi come non mai) e probabilmente il desiderio di tornare a leggere il grande protagonista come fosse uno di noi, un nostro compagno. Qualcuno pensa che questa sia un’impostazione troppo didattica? Forse dimentichiamo in che tempi viviamo. Far tornare l’interesse su Leopardi è un po’ poco per un film? A me pare invece che questa sia la cosa più difficile ed importante che ci lascia questo bel film.

La storia si svolge in tre luoghi, anche se in realtà il poeta ha avuto quattro grandi momenti spazio-temporali nella sua pur breve e tribolata vita. E’ quasi normale semplificare dicendo che visse a Recanati fino al 1830, poi tre anni a Firenze (1830-33) e gli ultimi quattro (1833-37) a Napoli. Ma in realtà tra il 1822 ed il 1830, partendo e rientrando da Recanati, girò un po’ l’Italia, prima Roma, poi Milano, Bologna, Pisa.

In particolare, a Bologna, dove visse quasi due anni tra il 1825 ed il 1827, fece l’unica vera esperienza lavorativa curando per l’editore Stella la “Crestomazia” (cioè antologia) della prosa prima e della poesia italiana poi. Fu questo un periodo unico e forse difficilmente rappresentabile nell’economia del film, ma per alcuni aspetti fondamentale in questa storia di vita. Ne parla chiaramente anche Pietro Citati nel suo Leopardi (2010): “A Bologna avvenne la rivoluzione della vita di Leopardi. (…) A partire dal 1825 diventò un lavoratore della penna” (p. 276). (Il regista sembra giustamente attingere molte notizie da questa biografia letteraria, la più recente e la più completa.)

Come gli ambienti sono ridotti all’osso, così alcuni protagonisti. C’è il giusto spazio alla famiglia, il mitico padre Monaldo, la terribile madre Adelaide, gli affezionatissimi fratello Carlo e sorella Paolina. L’infanzia e l’adolescenza sono, giustamente, ben rappresentati. Ma quando il mondo di Recanati si apre, alcuni protagonisti vengono un po’ schiacciati, probabilmente dallo stesso linguaggio cinematografico e quasi spariscono i loro profili storici.

Così vengono un po’ ridotte le figure di Pietro Giordani (1774-1848), che fu il primo interlocutore epistolare e che visitò Recanati nel 1818, e Antonio Ranieri (1806-1884), che fu l’amico degli ultimi anni e che lo portò a Napoli, in cerca del miglior clima. Nel film sono tratteggiati come figure di supporto di una biografia, ma in realtà furono, pur nei loro limiti, due notevoli personaggi del loro tempo. Il primo, solo per dare un flash, nell’Italia della Restaurazione “lottò assiduamente per la laicità ed il progresso” (Timpanaro 1969, p. 119) e il meglio del suo insegnamento “fu assimilato a rivissuto originalmente, per vie diverse, da due uomini in dissidio col loro ambiente: Leopardi e Cattaneo” (p. 121-122). Il secondo, che nel film compare come un dongiovanni servito dal Leopardi-leporello, fu un buon intellettuale e un gran patriota sempre in prima fila, anche nei parlamenti, napoletano prima e del Regno d’Italia poi.

Infine un’annotazione sulla scelta fatta tra i versi ed i pensieri leopardiani. Tra quest’ultimi sembrerebbe mancare il pensiero più propriamente politico, quello dei primi canti, del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824) e dei Paralipomeni della batracomiomachia (secondo il Ranieri dettati a lui anche sul letto finale). E questa potrebbe essere una scelta coerente con il basso profilo civile e politico dato a Giordani e Ranieri. In realtà è proprio con la scelta decisiva dei canti recitati nel film che s’intende dare il messaggio più profondo e più attuale. C’è infatti L’Infinito (1919), mentre non ci sono gli idilli che si studiano a scuola (A Silvia, Il passero solitario, etc) e neppure “la poesia leopardiana più alta”, come vuole la critica letteraria anche più recente, secondo cui questa “va cercata nella linea che porta dall’Infinito al Canto notturno di un pastore e qui sostanzialmente si esaurisce” (Asor Rosa 2009, p. 579). Ci sono invece La ginestra ed Il tramonto della luna, gli ultimi canti scritti sotto il Vesuvio. E a questi è lasciato il compito di trasmettere il messaggio fondamentale di Leopardi.

A me, la scelta, pur coraggiosa, è piaciuta, perché nell’Infinito è data “l’ardua aspirazione della sua poetica: quella di fondere il tono ingenuo con il tono filosofico” (Guglielmi 2000, p. 64), come negli ultimi canti “Leopardi si misura con i suoi contemporanei sui temi dell’uomo, e della sua collocazione nell’universo” (ivi, p. 139). E mentre i versi di questi si odono in sala, sullo schermo è sempre presente la luna, che è “per il poeta, di volta in volta, confidente e sfinge, compagna ed enigma” (Prete 1996, p. 191) e che “resta il culmine del mondo di Leopardi” (Citati 2010, p. 114). Ma, come diceva Italo Calvino, “la contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava” (1988, p. 26), perché l’aveva studiata e aveva pure scritto di astronomia. E così era anche la sua poesia, un grande momento di conoscenza della realtà. Per questo lo sentiamo ancora così vicino.

Bibliografia citata:
Asor Rosa A., Storia europea della letteratura italiana. II. Dalla decadenza al Risorgimento, Einaudi, Torino 2009.
Calvino I., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.
Citati P., Leopardi, Mondadori, Milano 2010.
Guglielmi G., L’infinito terreno. Saggio su Leopardi, Manni, Lecce 2000.
Prete A., Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1996.
Timpanaro S., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, seconda ed. accresciuta, Nistri-Lischi, Pisa (1a ed. 1969) 1988.
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La differenza visibile tra destra e sinistra

Basta la vista normale.

La differenza visibile tra destra e sinistra
di Luciano Gallino
Non si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee della scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un grande talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva venire realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si riusciva a vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone — giusto 140 volte meno che a San Giovanni.
Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni. Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso.
Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra. Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura. Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito-nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani.
A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.
Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra.
(la Repubblica, 29 ottobre 2014)
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Lo Stato innovatore

Riporto integralmente l’articolo di Giulio Marcon, deputato indipendente di Sel, nonché fondatore della campagna Sbilanciamoci. E’ la risposta più a caldo alla polemica avviata dal premier Renzi dopo la manifestazione del 25 ottobre. (Le evidenziazioni sono mie.)

Nel testo riportato c’è anche il link col sito di Laterza che riporta l’intervento di Mariana Mazzuccato, citata con il suo importante libro.

L’iPhone e le politiche pubbliche
di Giulio Marcon
Il primo ministro Renzi – nella sua foga contro la Cgil – ha tirato fuori una battuta sull’iPhone a gettoni, per irridere i suoi detrattori, accusandoli di essere al di fuori della realtà e di non stare al passo con il cambiamento. E proprio nella trasmissione ‘Otto e mezzo’ della Gruber (di lunedì 27 ottobre) Renzi ha ribadito che soldi per gli investimenti pubblici non ce ne sono e al massimo si possono stimolare (con gli sgravi fiscali alle imprese) gli investimenti privati. Negli ultimi anni gli sgravi fiscali non hanno rilanciato le imprese, né creato nuovi posti di lavoro. Lo dicono i dati. E invece in Germania – almeno in buona parte – sono state proprio le politiche pubbliche, gli investimenti nell’innovazione e nella ricerca ed il ruolo di un’agenzia pubblica come la Fraunhofer a fare la differenza.
Renzi si fa guidare dagli stantii dogmi neoliberisti: per ripartire bisogna ripartire dai tagli fiscali, dalle riduzioni della spesa pubblica, dalle privatizzazioni, dalla precarizzazione del mercato del lavoro. Niente di nuovo: sono le solite ricette neoliberiste condite con l’austerità e che stanno facendo sprofondare l’Europa nella depressione economica.
Ma proprio il suo amato iPhone dovrebbe far capire a Renzi quanto sono importanti le politiche pubbliche. Come dimostra efficacemente Mariana Mazzucato nel suo ultimo libro ‘Lo Stato innovatore’, quasi tutti i dispositivi contenuti nell’iPhone (Internet, gps, siri, ecc. lo schermo a cristalli liquidi, il microprocessore, ecc.) sono il risultato di investimenti pubblici nella ricerca e nella sperimentazione delle applicazioni. Non diamo tutto il merito a Steve Jobs: se non ci fossero stati quegli investimenti pubblici (che il fondatore di Apple ha avuto il merito di sfruttare a buon costo) non ci sarebbe stato l’iPhone che conosciamo.
Investimenti pubblici (nella ricerca, nell’innovazione, ecc.) che non ci sono né nel Def, né nella legge di stabilità. Se Renzi continua così la scomparsa dell’Italia industriale è inevitabile: continueremo a comprare e ad importare pannelli fotovoltaici dalla Cina e – in futuro – le auto elettriche dalla Volkswagen. Invece di fare battute ai sindacalisti, Renzi si dia una mossa e non aspetti investimenti privati che non arrivano. Invece di bonus e sgravi fiscali inutili, faccia gli investimenti pubblici e si dia una politica industriale per rilanciare l’economia. I gettoni non si mettono nell’iPhone, ma nemmeno si può rilanciare l’economia con le slides. E i gettoni si possono sempre usare per le politiche pubbliche e gli investimenti.

(28 maggio 2014)

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Cosa può essere il 25 ottobre

Sabato 25 ottobre 2014, nella scena politica italiana potrebbe essere una data storica, da ricordare a lungo.

Potrebbe infatti essere stato il giorno in cui una manifestazione “ostinata e contraria” all’eliminazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e alla manovra della legge di stabilità già venduta, anche nella Ue, come una grande svolta, fa in realtà cambiare verso al governo Renzi, quello guidato dal segretario del Pd, partito a cui buona parte dei partecipanti guarda elettoralmente da sempre.

Nell’intervento finale il segretario della Cgil Susanna Camusso, oltre a rivendicare con precisione le ragioni e l’importanza non solo simbolica dell’art. 18, è stata infatti molto chiara nel giudizio sulla legge finanziaria in discussione in Parlamento: è inadeguata a far cambiare il trend delle cose, prevede l’utilizzo di scarse risorse a favore delle imprese per incentivarle ad assumere, ma prevede anche che a pagare siano poi sempre gli stessi, aumentando i costo dei servizi che verranno tagliati. Non c’è nessuna redistribuzione del reddito, mentre servirebbe proprio una anche piccola patrimoniale, sull’uno per cento della popolazione che detiene il 10% del patrimonio nazionale (mentre un 10% ne detiene il 50% e un 50% solo il 10%).

Oppure potrebbe essere stato il giorno in cui la Cgil inizia a cambiare effettivamente una linea e una prassi sindacale che dura ormai da un trentennio – non certo da sola – e che ci ha portato sul baratro dell’assoluta svalutazione del lavoro.

Ma potrebbe succedere anche qualcos’altro, un po’ di tutto e di più. Come un nuovo scontro di tipo thatcheriano, come la nascita di un nuovo soggetto politico che riempia lo spazio lasciato vuoto dal Pd renziano, oppure una dura reazione di quest’ultimo alle posizioni conseguenti di alcuni parlamentari pd in sede di votazione sul Jobs Act, con conseguenze non facilmente valutabili.

Insomma, forse siamo proprio all’inizio di una nuova fase della politica italiana. Ma la direzione non è certa, dipende anche da noi. Rimbocchiamoci le maniche.

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Il senno e la rete

Tre anni fa moriva Andrea Zanzotto (10 ottobre 1921-18 ottobre 2011), ma la sua poesia vive più di sempre tra noi e in noi.

Luna Starter di feste bimillenarie
21- 22 dicembre 1999
Fotomodella d’altissimo rango
in piena forma sembri questa sera,
pur sempre amica Luna,
non si direbbe granché dilatata
dentro il gran sottozero
che rende ogni belletto menzonegro.
Ma di certo un lievissimo cachino
ti sfugge mentre adocchi sulla Terra
formicolar la gente assatanata:
perché ben sai
che gran parte del senno umano ormai
nel tuo mirabil tondo è congelata.
Invano striglia Astolfo l’ippogrifo
ed il carro d’Elia s’appresta invano.
Al mondo per le sue presenti mete,
non serve il senno, basterà la rete.
(Sovrimpressioni, 2001)
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