Eugenio Montale, trent’anni dopo

Se è ancora possibile non farsi schiacciare dalla data unica, vorrei ricordare che trent’anni fa, il 12 settembre 1981, moriva Eugenio Montale.

Montale è stato senza dubbio il maggior poeta italiano del Novecento (mentre il maggior poeta italiano nato nel Novecento è Andrea Zanzotto). E’ difficile non riconoscere questo anche per chi, come me, ha con alcuni suoi testi un rapporto contrastato.

Nato a Genova il 12 ottobre 1896 da famiglia borghese (il padre aveva un’attività industriale), ebbe un itinerario scolastico banale, diplomandosi in ragioneria. In realtà usò gran parte della sua giovinezza per acquisire una formazione filosofica e letteraria da perfetto autodidatta. Questa s’innestò nel precoce sentimento del “male di vivere”. Come tutti gli autori e i poeti, Montale ebbe un itinerario e qualcosa cambiò nella sua produzione, ma rimase fondamentalmente aderente alla prima ispirazione, nonostante i tempi particolari in cui nacque. Diceva nel 1976:

«L’argomento della mia poesia (…) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio (…). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia.»

Senza pretendere di scorrere tutta la sua produzione, scelgo due testi. Uno è la prima poesia della seconda sezione di Ossi di seppia (1925), famosa come un vero e proprio manifesto montaliano. Per me è oscura e chiara, aperta e ermetica, positiva e negativa, e – contro la stessa poetica dichiarata dell’autore – non riesco a dimenticare gli anni in cui fu scritta.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

L’altro testo è postumo, pubblicato solo nel 2006 come [XVIb] nella raccolta La casa di Olgiate e altre poesie, e conferma che l’autore tutto sommato non era contemporaneo ai suoi tempi, era in effetti più avanti.

Come un sigaro avana
la terra si fuma da sé
ma sul piattino resta la cenere
Per ora la cenere siamo noi
ma la seconda legge della termodinamica
ci assicura
che non è mai troppo presto
per farsi vedere
non è mai troppo tardi
per congedarsi.
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