“Così dopo secoli di sfruttamento l’Europa chiude le porte all’Africa”

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Stamattina è cominciato lo sgombero della bidonville di Calais, luogo da dove i profughi cercavano tutti i giorni di raggiungere la Gran Bretagna. Per chi lo vuole non è difficile trovare nella rete immagini e cronache su quest’ennesima vergogna della politica europea, anche se Francia e Regno Unito ci hanno messo qualcosa di specifico. Non è facile piuttosto trovare commenti molto chiari sulle ragioni storiche, economiche e politiche di questa situazione. Ecco perché riporto la nota pubblicata su La Stampa di oggi a firma di Antonio Maria Costa, una che conosce questa realtà, visto che è stato vicesegretario generale dell’Onu e direttore generale all’Ue. (Come al solito, le evidenziazioni sono mie.)

Così dopo secoli di sfruttamento l’Europa chiude le porte all’Africa
di Antonio Maria Costa
Da tempo l’Italia sollecita solidarietà in Europa per condividere l’onere dell’immigrazione. La richiesta, senza successo, è motivata da comunanza d’interessi di fronte a violenza e povertà in Africa. In effetti, l’esodo attraverso il Mediterraneo non è solo il risultato di miserie attuali. È conseguenza del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles – e che ora continua con il concorso di Pechino. Un crimine che ha causato, dice l’ex-capo Onu Kofi Annan, oltre 250 milioni di morti (neri): per farsi un’idea, il doppio dei morti (bianchi) nelle due guerre mondiali. Storia e giustizia motivano la richiesta italiana, non solo solidarietà.
Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse – umane, minerarie, agricole – inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a oriente verso il Golfo e l’Asia, e a occidente verso le Americhe.
Schiavi tre su quattro
Nel ‘600 tre africani su quattro sono intrappolati in una qualche forma di servitù. Inglesi e francesi si distinguono per un lucroso commercio triangolare: trasportano cargo umano nelle Americhe, dove usano le acque fredde del Nord per disinfettare navi purulente di sangue e infestazioni. Poi caricano zucchero, cotone e caffè che trasportano in Europa (a Liverpool e Nantes). Quindi riempiono le stive di manufatti, alcool, armi e polvere da sparo che barattano in Africa con altre vittime. La razzia accelera quando, come risultato della guerra di successione spagnola (i trattati di Utrecht del 1713), Londra ottiene il quasi monopolio del traffico di schiavi attraverso l’Atlantico. Il picco è raggiunto alla fine del ‘700 per un totale di 100 milioni di vittime (stima incerta, ma realistica).
All’inizio del ‘800 due mutamenti storici convergono. Dopo decenni di lotta, il movimento anti-schiavista prevale: nel 1807 il Regno Unito decreta la fine del traffico internazionale di esseri umani; l’anno successivo aderiscono gli Usa. (Non e’ la fine della schiavitù, ma la fine del trasporto nell’Atlantico). Al contempo, e per recuperare reddito, inizia l’esplorazione del cuore dell’Africa: David Livingstone, H.M. Stanley e più avanti Richard Burton, mappano i fiumi del Congo, scoprono i grandi laghi e trovano le sorgenti del Nilo. Lo spirito d’avventura anima gli esploratori. La ricchezza delle risorse africane motiva i loro governi, afflitti da problemi economici: una lunga depressione in Francia e Germania (1873-96), un continuo disavanzo commerciale in Inghilterra. L’Africa è ritenuta la soluzione della crisi, grazie alle sue grandiose risorse: rame, diamanti, oro, stagno nel sottosuolo; cotone, gomma, tè e cocco in superficie.
L’occupazione
Entrano anche in gioco interessi individuali – anzi, personali. L’inglese Cecil Rhodes chiama Rhodesia (oggi Zimbabwe) il Paese del quale s’impossessa. Il re del Belgio Leopoldo II dichiara il Congo proprietà personale e passa dal furto delle risorse umane all’esproprio di quelle naturali. «Quando, dopo 200 anni, traffici umani, mutilazioni e mattanze terminano, inizia la razzia di avorio e caucciù», scrive Stephen Hoschchild, biografo di Leopoldo. In una storia di avidità e terrore, l’African Company (di proprietà del re) causa 10 milioni di morti ed espropria risorse per decine di miliardi attuali. Venti-trentamila elefanti sono abbattuti annualmente. E il Belgio emerge come il Paese più ricco in Europa.
Inevitabilmente la corsa a derubare l’Africa diventa ragione di scontro tra le potenze coloniali. Intimorito, il Kaiser Guglielmo II convoca la conferenza di Berlino (1884), durante la quale le potenze europee si spartiscono il continente: un accordo che dura fino al 1914. La demarcazione dei confini coloniali decisa a Berlino violenta le realtà africane: racchiude etnie, religioni e lingue in confini artificiali, al solo fine di perpetuare il saccheggio delle risorse. In breve, i confini tracciati dagli europei allora pongono le basi per la violenza e la povertà di ora.
La II guerra mondiale
Dopo la seconda guerra mondiale l’Africa diventa indipendente, con risultati non meno devastanti. In vari Paesi il potere passa nelle mani della maggiore etnia, che raramente coincide con la maggioranza della gente: chi è fuori dal clan è oppresso, spesso fisicamente. Imitando gli oppressori coloniali, i nuovi despoti gestiscono le risorse come proprietà personale. Rubano quanto possibile. Il resto finisce nelle tasche di amministratori corrotti, finanzia milizie a sostegno del potere e, soprattutto, compra la correità degli investitori esteri – inglesi, francesi e belgi. Nel primo mezzo secolo d’indipendenza africana gli interessi economico-finanziari europei (a volte americani) mantengono al potere dittatori sanguinari in nazioni artificiali. Rivolte e fame hanno un costo umanitario drammatico.
Una seconda liberazione si delinea dopo il 1990. Grandi despoti scompaiono, e con essi gli immensi patrimoni da loro saccheggiati. Il comunista Mengistu fugge dall’Etiopia, Mobutu muore in Congo, il nigeriano Abacha spira nelle braccia di una prostituta: questi due ultimi accusati di aver rubato almeno 5 miliardi di dollari a testa. Soldi impossibili da recuperare: all’Onu ho identificato parte dei fondi di Abacha in banche anglo-svizzere, che gli avvocati dei figli del dittatore hanno subito congelato. Inevitabilmente le risorse rubate ai cittadini africani finiscono con l’arricchire le banche di New York, Londra e Lussemburgo.
La situazione oggi
Oggigiorno, a distanza di un quarto di secolo, furti e violenza continuano, dal Sudan di Al-Bashir (2 milioni tra morti e rifugiati), al Congo di Kabila (6 milioni di morti); da Zimbabwe di Mugabe, al Sud Africa di Zuma. In Guinea equatoriale il presidente Obiang, al potere da 35 anni, nomina vice-presidente il figlio Mangue – un vizioso che colleziona auto di lusso, tra esse una Bugatti da 350 mila dollari che raggiunge i 300km/h in 12 sec. Il settimanale inglese The Economist elenca 7 Paesi africani su 48 come liberi e democratici: tra essi Botswana, Namibia, Senegal, Gambia e Benin. Altrove gli autocrati perpetuano il potere modificando la costituzione (in 18 Paesi), oppure ignorandola (Congo). Il vincitore «piglia tutto», dice Paul Collier di Oxford: ruba per ripartire le spoglie con quanti l’aiutano a preservare il potere. Nulla sfugge al suo controllo: parlamento, banca centrale, commissione elettorale e media.
A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltano, niobium, tantalum e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica. Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti.
Fuga verso Occidente
A questo punto la gente africana ha una misera scelta: morire di violenza e povertà in patria, oppure rischiare la vita nel Mediterraneo, in un esodo dalle dimensioni bibliche – decine di migliaia di persone negli ultimi mesi, decine di milioni negli anni a venire. Papa Francesco parla di carità. Il governo italiano di solidarietà. Certamente. Soprattutto il mondo riconosca che Londra, Parigi e Bruxelles hanno causato il dramma africano, derubando dignità e risorse a gente già povera. È tempo di risarcimento – com’è avvenuto dopo la prima guerra mondiale, dopo l’olocausto, e a seguito di disastri naturali. Risarcimento in termini di assistenza allo sviluppo (per fermare la migrazione) e in termini d’integrazione (per assistere gli immigrati). L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea.
(La Stampa, 24 ottobre 2016)
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“Perché voto No”

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Foto di gruppo dei gappisti romani. Alfredo Reichlin è il primo da sinistra in alto.

Alfredo Reichlin che fu uno dei massimi dirigenti del Pci, segnatamente negli anni di Berlinguer, ha ritenuto opportuno far sapere il suo pensiero sul referendum pubblicando il 30 settembre su l’Unità una nota che riporto integralmente, anche se con qualche grassetto. (E come si vede, si può ammirare Renzi e votare No.)

Perché voto No
di Alfredo Reichlin
Avverrà che milioni di italiani si scontreranno in modo lacerante e drammatico non sui buoni argomenti di Violante oppure su quelli di Rodotà (che essi ignorano) ma sul voto popolare e diretto del Capo del governo. Ponendo fine, così di fatto al regime parlamentare e all’attuale divisione dei poteri. E temo che un solco resterà e tutta la comunità nazionale già così divisa ne pagherà le conseguenze.
A me questo non sta bene. È chiaro?
Io ho preso le armi per dare all’Italia un Parlamento. Io ricordo i tanti che allora volevano un regime politico più “avanzato” nel senso di dare poteri più diretti al popolo (i CLN). E ricordo la risposta di Togliatti: no, il PCI vuole una repubblica parlamentare. E su ciò si fece la Costituzione. Il Parlamento funziona male? Sì, ma solo il Parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo “ricchi e poveri, borghesi e proletari”. Non è la privativa di nessuno.
Di conseguenza ma c’è una preoccupazione altrettanto grande che domina i miei pensieri. È l’idea perfino angosciosa (che mai avevo avvertito così forte) che il destino dell’Italia, dell’Italia come comunità nazionale e come organismo statale rischia di non essere più nelle nostre mani. Basta un accenno ai fatti: la disgregazione in atto dell’unità europea, le guerre feroci che insanguinano le coste del Mediterraneo, la massa degli emigranti che preme sulle nostre coste; tutto ciò insieme alla sensazione che la grande scommessa di rilanciare lo sviluppo italiano bloccato da più di 20 anni (e certo non per colpe solo di Renzi) quella scommessa che Renzi si era illuso di vincere con la straordinaria energia del renzismo (un uomo solo al comando, chi non sta con me è contro di me, lo svuotamento del partito dei sindacati degli organismi sociali intermedi) mi pare fallita.
Siamo arrivati a un punto di svolta. Il problema non è tecnico-economico. È altamente, più che istituzionale, politico. Riemerge la sostanza storica del problema italiano. Tutti comunicano tra loro ma nessuno conta davvero, aumentano i disoccupati e meno del 50% degli italiani ha un lavoro. Di qui la necessità di porre su basi politiche, sociali e morali più ampie lo sviluppo del paese. È solo così che nel passato siamo usciti dalle crisi più gravi: le svolte giolittiane e il riconoscimento dei sindacati, il patto con Turati, l’idea dell’Ulivo e l’accordo sulla scala mobile tra Ciampi e Trentin, per non parlare dell’unità nazionale del dopoguerra e la ricostruzione. Come non si capisce che questo è il problema principale? Di fronte a un paese che invecchia, non fa figli, non da più lavoro in patria alla nuova generazione? Non illudetevi amici che il problema è chi comanda. È invece con chi si comanda. Con o senza il proprio popolo. Popolo dico. Popolo vero, non opinione pubblica; sono due cose diverse.
Ecco perché considero disastroso questo referendumplebiscito. E contro il bisogno di una svolta in senso più comunitario e di ricostruire il patto tra gli italiani del Nord e del Sud. Ecco perché sono arrivato alla conclusione che solo una vittoria del NO può consentire di riaprire il discorso sul futuro dell’Italia. Il problema non è Renzi, un uomo che resta per me assai notevole e un amico. Egli può benissimo continuare a governare. È la partecipazione del popolo italiano, alla vita pubblica, che è ormai quasi inesistente. È il nostro modo di stare insieme. È il partito ridotto a puro servizio del Capo, tramite Serracchiani che non funziona.
Queste cose vanno dette anche alla sinistra. La quale deve ritrovare il senso vero della sua missione, che è quello di ridare voce al popolo italiano. Mi hanno commosso le facce di quel popolo meraviglioso che è apparso sugli schermi delle televisioni tra le macerie del terremoto. Perfino commovente nella sua forza d’animo, nel sentimento di sé e della sua terra, nel suo slancio solidale.
Qui sta la leva per l’innovazione. Sta nella straordinaria creatività del popolo italiano.
(l’Unità, 30 settembre 2016)

 

 

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La verità sul referendum

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Papa Francesco e Raniero La Valle

Ieri il Governo Renzi ha definito nel 4 dicembre la data del referendum per l’approvazione o meno della riforma costituzionale Renzi-Boschi proposta l’8 aprile 2014 e approvata dal parlamento italiano il 12 aprile 2016. Si può così aprire l’ultimo tratto di discussione in vista del voto referendario. E sarà mio compito riportare qui tutte quelle posizioni che riterrò utili alla più profonda riflessione su questo evento che segnerà senz’altro la nostra storia politica dei prossimi anni.

Sul web è già apparso il testo di un discorso tenuto il 16 settembre da Raniero La Valle, di cui riproduco tutto con le mie solite evidenziazioni. (Spero così, come faccio sempre, di favorire la lettura su un monitor, sempre difficile e nervosa, ma se potete stampate e leggete con calma.)

 La verità sul referendum
di Raniero La Valle
     Cari amici,
      poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose. Non sarebbe necessario essere qui per dirvi come sono andate le cose, se noi ci trovassimo in una situazione normale. Ma se guardiamo quello che accade intorno a noi, vediamo che la situazione non è affatto normale. Che cosa infatti sta succedendo?
     Succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa, di Pozzallo o di Siracusa dove noi facciamo bagni e pesca subacquea. Sessantadue milioni di profughi, di scartati, di perseguitati sono fuggiaschi, gettati nel mondo alla ricerca di una nuova vita, che molti non troveranno. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni.
E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato.
     E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra, in Africa, in Medio Oriente e anche in Europa si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio.
E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori.
     Fallisce il G20 ad Hangzhou in Cina. I grandi della terra, che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo, non sanno che pesci pigliare e il vertice fallisce. Non sanno che fare per i profughi, non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra, e l’unica cosa che decidono è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania.
E in tutto questo l’Italia che fa? Fa eleggere i senatori dai consigli regionali.
     E ancora: l’Italia è a crescita zero, la disoccupazione giovanile a luglio è al 39 per cento, il lavoro è precario, i licenziamenti nel secondo trimestre sono aumentati del 7,4 % rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, raggiungendo 221.186 persone, i poveri assoluti sono quattro milioni e mezzo, la povertà relativa coinvolge tre milioni di famiglie e otto milioni e mezzo di persone.
E l’Italia che fa? Fa una legge elettorale che esclude dal Parlamento il pluralismo ideologico e sociale, neutralizza la rappresentanza e concentra il potere in un solo partito e una sola persona.
     Ma si dice: ce lo chiede l’Europa. Ma se è questo che ci chiede l’Europa vuol dire proprio che l’istituzione europea ha completamente perduto non solo ogni residuo del sogno delle origini ma anche ogni senso della realtà e dei suoi stessi interessi vitali.
Ma se questa è la distanza tra la riforma costituzionale e i bisogni reali del mondo, dell’Europa, del Mediterraneo e dell’Italia, la domanda è perché ci venga proposta una riforma così.
     La verità è rivoluzionaria, ma se si viene a sapere
      E’ venuto dunque il momento di dire la verità sul referendum. La verità è rivoluzionaria nel senso che interrompe il corso delle cose esistenti e crea una situazione nuova.
Il guaio della verità è che essa si viene a sapere troppo tardi, quando il tempo è passato, il kairos non è stato afferrato al volo e la verità non è più utile a salvarci.
Se si fosse saputa in tempo la bugia sul mai avvenuto incidente del Golfo del Tonchino, la guerra del Vietnam non ci sarebbe stata, l’America non sarebbe diventata incapace di seguire la via di Roosevelt, di Truman, di Kennedy, e avrebbe potuto guidare l’edificazione democratica e pacifica del nuovo ordine mondiale inaugurato venti anni prima con la Carta di San Francisco.
Se si fosse conosciuta prima la bugia di Bush e di Blair, e saputo che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non c’erano, non sarebbe stato devastato il Medio Oriente, il terrorismo non avrebbe preso le forme totali dei combattenti suicidi in tutto il mondo e oggi non rischieremmo l’elezione di Trump in America.
Se si fosse saputa la verità sul delitto e sui mandanti dell’uccisione di Moro, l’Italia si sarebbe salvata dalla decadenza in cui è stata precipitata.
Dunque la verità del referendum va conosciuta finché si è in tempo.
     Ma la verità del referendum non è quella che ci viene raccontata. Ci dicono per esempio che la sua prima virtù sarebbe il risparmio sui costi della politica, e che i soldi così ottenuti si darebbero ai poveri. Ma così non è: secondo la Ragioneria Generale dello Stato, il cui compito è di verificare la certezza e l’affidabilità dei conti pubblici, il risparmio si ridurrebbe a cinquantotto milioni che si otterrebbero togliendo la paga ai senatori, mentre resterebbe il costo del Senato, e i poveri non c’entrano niente.
     L’altra virtù del referendum sarebbe il risparmio sui tempi della politica. Ci dicono infatti di voler abolire la navetta delle leggi tra Camera e Senato. Ma così non è. In realtà si allungano i tempi della produzione legislativa; infatti si introducono sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere: 1) le leggi sempre bicamerali, Camera e Senato, come le leggi costituzionali, elettorali e di interesse europeo; 2) le leggi fatte dalla sola Camera che entro dieci giorni possono essere richiamate dal Senato; 3) le leggi che invadono la competenza regionale che il Senato deve entro dieci giorni prendere in esame; 4) le leggi di bilancio che devono sempre essere esaminate dal Senato che ha quindici giorni per proporre delle modifiche; 5) le leggi che il Senato può chiedere alla Camera di esaminare entro sei mesi; 6) le leggi di conversione dei decreti legge che hanno scadenze e tempi convulsi se richiamate e discusse anche dal Senato. Ciò crea un intrico di passaggi tra Camera e Senato e un groviglio di competenze il cui conflitto dovrebbe essere risolto d’intesa tra gli stessi presidenti delle due Camere che configgono tra loro.
     Ci dicono poi che col referendum si assicura la stabilità politica, e almeno fino a ieri ci dicevano che al contrario se perde il referendum Renzi se ne va. Ma queste non sono le verità del referendum. Finché si resta a questo la verità del referendum non viene fuori.
     Non è la legge Boschi il vero oggetto del referendum
      La verità del referendum sta dietro di esso, è la verità nascosta che esso rivela: il referendum infatti non è solo un fatto produttore di effetti politici, è un evento di rivelazione che squarcia il velo sulla situazione com’è. È uno svelamento della vera lotta che si sta svolgendo nel mondo e della posta che è in gioco. Il referendum come cunto de li cunti, potremmo dire in Sicilia, il racconto dei racconti, come togliere il velo del tempio per vedere quello che ci sta dietro, se ci sta Dio o l’idolo. Il referendum come rivelatore dello stato del mondo.
Ora, per trovare la verità nascosta del referendum, il suo vero movente, la sua vera premeditazione, bisogna ricorrere a degli indizi, come si fa per ogni giallo.
     Il primo indizio è che Renzi ha cambiato strategia, all’inizio aveva detto che questa era la sua vera impresa, che su questo si giocava il suo destino politico. Ora invece dice che il punto non è lui, che lui non è la vera causa della riforma, ha detto di aver fatto questa riforma su suggerimento di altri e ha nominato esplicitamente Napolitano; ma è chiaro che non c’è solo Napolitano. Prima ancora di Napolitano c’era la banca J. P. Morgan che in un documento del 2013, in nome del capitalismo vincente, aveva indicato quattro difetti delle Costituzioni (da lei ritenute socialiste) adottate in Europa nel dopoguerra: a) una debolezza degli esecutivi nei confronti dei Parlamenti; b) un’eccessiva capacità di decisione delle Regioni nei confronti dello Stato; c) la tutela costituzionale del diritto del lavoro; d) la libertà di protestare contro le scelte non gradite del potere.
     Prima ancora c’era stato il programma avanzato dalla Commissione Trilaterale, formata da esponenti di Stati Uniti, Europa e Giappone e fondata da Rockefeller, che aveva chiesto un’attenuazione della democrazia ai fini di quella che era allora la lotta al comunismo. E la stessa cosa vogliono ora i grandi poteri economici e finanziari mondiali, tanto è vero che sono scesi in campo i grandi giornali che li rappresentano, il Financial Times ed il Wall Street Journal, i quali dicono che il No al referendum sarebbe una catastrofe come il Brexit inglese. E alla fine è intervenuto lo stesso ambasciatore americano che a nome di tutto il cocuzzaro ha detto che se in Italia viene il NO, gli investimenti se ne vanno.
     Ebbene quelle richieste avanzate da questi centri di potere sono state accolte e incorporate nella riforma sottoposta ora al voto del popolo italiano. Infatti con la riforma voluta da Renzi il Parlamento è stato drasticamente indebolito per dare più poteri all’esecutivo. Delle due Camere di fatto è rimasta una sola, come a dire: cominciamo con una, poi si vedrà. Il Senato lo hanno fatto così brutto deforme e improbabile, che hanno costretto anche i fautori del Senato a dire che se deve essere così, è meglio toglierlo. Inoltre il potere esecutivo sarà anche padrone del calendario dei lavori parlamentari. Il rapporto di fiducia tra il Parlamento ed il governo viene poi vanificato non solo perché l’esecutivo non avrà più bisogno di fare i conti con quello che resta del Senato, ma perché dovrà ottenere la fiducia da un solo partito. La legge elettorale Italicum prevede infatti che un solo partito avrà – quale che sia la percentuale dei suoi voti, al primo turno o al ballottaggio – la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera (340 deputati su 615). Il problema della fiducia si riduce così ad un rapporto tra il capo del governo e il suo partito e perciò ricadrà sotto la legge della disciplina di partito. Quindi non sarà più una fiducia libera, non sarà una vera fiducia, sarà per così dire un atto interno di partito, che addirittura può ridursi al rapporto tra un partito e il suo segretario.
     Per quanto riguarda le altre richieste dei poteri economici, i diritti del lavoro sono stati già compromessi dal Jobs act, il rapporto tra Stato e Regioni ha subito un rovesciamento, perché dall’ubriacatura regionalista si ritorna a un centralismo illimitato, mentre, assieme alla riduzione del pluralismo politico, ci sono delle procedure che renderanno più difficili le forme di democrazia diretta come i referendum o le leggi di iniziativa popolare, e quindi ci sarà una diminuzione della possibilità per i cittadini di intervenire nei confronti del potere.
     Questo è il disegno di un’altra Costituzione. La storia delle Costituzioni è la storia di una progressiva limitazione del potere perché le libertà dipendono dal fatto che chi ha il potere non abbia un potere assoluto e incontrollato, ma convalidato dalla fiducia dei Parlamenti e garantito dal costante controllo democratico dei cittadini. E’ questo che ora viene smontato, per cui possiamo dire che la democrazia in Italia diventa ad alto rischio.
     Ma a questo punto è chiaro che quello che conta non è più Renzi, ed è chiaro che quanti sono interessati a questa riforma gli hanno detto di tirarsi indietro, perché a loro non interessa il sì a Renzi, interessa che non vinca il no alla riforma.
     Il secondo indizio è il ritardo della data della convocazione, che non è stata ancora fissata dal governo; ciò vuol dire che la partita è troppo importante per farne un gioco d’azzardo, come ne voleva fare Renzi, mentre i sondaggi e le sconfitte alle amministrative sono stati inquietanti. Perciò occorreva meno baldanza da Miles Gloriosus e più preparazione. E occorreva alzare il livello dello scontro, e soprattutto ci voleva il riarmo prima che si giungesse allo scontro finale. Il riarmo per acquisire la superiorità sul terreno era l’acquisto del controllo totale dell’informazione, non solo i giornali, di fatto già posseduti, ma radio e TV, ciò che è stato fatto in piena estate con le nomine alla RAI.
Se davvero si trattava di scorciare i tempi e distribuire un po’ di sussidi ai poveri, non c’era bisogno del controllo totale dell’informazione.
Inoltre bisognava distruggere il principale avversario e fautore politico del No, il Movimento 5 Stelle. Questo spiega l’attacco spietato e incessante alla Raggi. E poi ci volevano i tempi supplementari per distribuire un po’ di soldi con la legge finanziaria.
     C’è poi un terzo indizio. Interrogato sul suo voto Prodi dice: non mi pronunzio perché se no turbo i mercati e destabilizzo l’Italia in Europa. Dunque non è una questione italiana, è una questione che riguarda l’Europa, è una questione che potrebbe turbare i mercati. Insomma è qualcosa che ha a che fare con l’assetto del mondo.
     Lo spartiacque non è stato l’11 settembre
     A questo punto è necessario sapere come sono andate le cose.
Partiamo dall’11 settembre di cui si è tanto parlato ricorrendone l’anniversario in questi giorni.
     Il mondo è cambiato l’11 settembre 2001? Tutti hanno detto così. Ma il mondo non è cambiato quel giorno: quello è stato il sintomo spaventoso della malattia che già avevamo contratto. L’11 settembre ha mostrato invece il suo volto il mondo che noi stessi avevamo deciso di costruire dieci anni prima.
Nel 1991 con dieci anni di anticipo sulla sua fine fu da noi chiuso il Novecento, tanto che uno storico famoso lo soprannominò “Il secolo breve” [1] e così fu dato inizio a un nuovo secolo, a un nuovo millennio e a un nuovo regime che nella follia delle classi dirigenti di allora doveva essere quello definitivo, tanto è vero che un economista famoso lo definì come la “fine della storia” [2].
     Quello che avevamo fatto dieci anni prima dell’11 settembre è che avevamo deciso di rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra; avevamo deciso di rispondere alla cosiddetta fine delle ideologie trasformando il capitalismo da cultura a natura, promuovendolo da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza; avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati, avevamo deciso di sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista.
     La scelta decisiva, che non si può chiamare rivoluzionaria perché non fu una rivoluzione ma un rovesciamento, e dunque fu una scelta restauratrice e totalmente reazionaria, fu quella di disarmare la politica e armare l’economia ma non in un solo Paese, bensì in tutto il mondo. Non essendoci più l‘ostacolo di un mondo diviso in due blocchi politici e militari, eguali e contrari, l’orizzonte di questo regime fu la globalità, la mondialisation come dicono i francesi, si stabilì un regime di globalità esteso a tutta la terra.
     Quale è stato l’evento in cui ha preso forma e si è promulgata, per così dire questa scelta?
     C’è una teoria molto attendibile secondo cui all’inizio di un’intera epoca storica, all’inizio di ogni nuovo regime, c’è un delitto fondatore. Secondo René Girard all’inizio della storia stessa della civiltà c’è il delitto fondatore dell’uccisione della vittima innocente, ossia c’è un sacrificio, grazie al quale viene ricomposta l’unità della società dilaniata dalle lotte primordiali.
Secondo Hobbes lo Stato stesso viene fondato dall’atto di violenza con cui il Leviatano assume il monopolio della forza ponendo fine alla lotta di tutti contro tutti e assicurando ai sudditi la vita in cambio della libertà.
Secondo Freud all’origine della società civile c’è il delitto fondatore dell’uccisione del padre.
     Se poi si va a guardare la storia si trovano molti delitti fondatori. Cesare molte volte viene ucciso, il delitto Matteotti è il delitto fondatore del fascismo, l’assassinio di Kennedy apre la strada al disegno di dominio globale della destra americana che si prepara a sognare, per il Duemila, “il nuovo secolo americano”, l’uccisione di Moro è il delitto fondatore dell’Italia che si pente delle sue conquiste democratiche e popolari.
Ebbene il delitto fondatore dell’attuale regime del capitalismo globale fondato, come dice il papa, sul governo del denaro e un’economia che uccide, è la prima guerra del Golfo del 1991.
     La guerra come delitto fondatore e il nuovo Modello di Difesa
     È a partire da quella svolta che è stato costruito il nuovo ordine mondiale. E noi possiamo ricordare come sono andate le cose a partire dal nostro osservatorio italiano Non è un punto di osservazione periferico, perché l’Italia era una componente essenziale del sistema atlantico e dell’Occidente, ma era anche il Paese più ingenuo e più loquace, sicché spifferava alla luce del sole quello che gli altri architettavano in segreto.
Questa è la ragione per cui posso raccontarvi come sono andate le cose, a partire da una data precisa. E questa data precisa è quella del 26 novembre 1991, quando il ministro della Difesa Rognoni viene alla Commissione Difesa della Camera e presenta il Nuovo Modello di Difesa.
     Perché c’era bisogno di un nuovo Modello di Difesa? Perché la difesa com’era stata organizzata in funzione del nemico sovietico, che non c’era più, era ormai superata. Ci voleva un nuovo modello. Il modello di difesa che era scritto nella Costituzione era molto semplice e stava in poche righe: la guerra era ripudiata, la difesa della Patria, intesa come territorio e come popolo, era un sacro dovere dei cittadini. A questo fine era stabilito il servizio militare obbligatorio che dava luogo a un esercito di leva permanente, diviso nelle tre Forze Armate tradizionali. Le norme di principio sulla disciplina militare dell’ 11 luglio 1978, definivano poi i tre compiti delle Forze Armate. Il primo era la difesa dell’integrità del territorio, il secondo la difesa delle istituzioni democratiche e il terzo l’intervento di supporto nelle calamità naturali. Non c’erano altri compiti per le FF.AA. La difesa del territorio comportava soprattutto lo schieramento dell’esercito sulla soglia di Gorizia, da cui si supponeva venisse la minaccia dell’invasione sovietica, e la sicurezza globale stava nella partecipazione alla NATO, che prevedeva anche l’impiego dall’Italia delle armi nucleari.
     Con la soppressione del muro di Berlino e la fine della guerra fredda tutto cambia: non c’è più bisogno della difesa sul confine orientale, la minaccia è finita e anche la deterrenza nucleare viene meno. Ci sarebbe la grande occasione per costruire un mondo nuovo, si parla di un dividendo della pace che sono tutti i soldi risparmiati dagli Stati per le armi, con cui si può provvedere allo sviluppo e al progresso di tutti i popoli del mondo; servono meno soldati e anche la durata della ferma di leva può diventare più breve.
     Ma l’Occidente fa un’altra scelta; si riappropria della guerra e la esibisce a tutto il mondo nella spettacolare rappresentazione della prima guerra del Golfo del 1991, cambia la natura della NATO, individua il Sud e non più l’Est come nemico, cambia la visione strategica dell’alleanza e ne fa la guardia armata dell’ordine mondiale cercando di sostituirla all’ONU e anche di cambiare gli ideali della comunità internazionale che erano la sicurezza e la pace. Viene scelto un altro obiettivo: finita la guerra fredda, c’è un altro scopo adottato dalle società industrializzate, spiegherà il nuovo “modello” italiano, ed è quello di “mantenere e accrescere il loro progresso sociale e il benessere materiale perseguendo nuovi e più promettenti obiettivi economici, basati anche sulla certezza della disponibilità di materie prime”. Di conseguenza, si afferma, si aprirà sempre più la forbice tra Nord e Sud del mondo, anche perché il Sud sarà il teatro e l’oggetto della nuova concorrenza tra l’Occidente e i Paesi dell’Est. Alla contrapposizione Est-Ovest si sostituisce quella Nord-Sud.
     Tutto questo precipita nel nuovo modello di difesa italiano, è scritto in un documento di duecentocinquanta pagine e il ministro Rognoni, papale papale, lo viene a raccontare alla Commissione Difesa della Camera, di cui allora facevo parte.
     E’ un dramma, una rottura con tutto il passato. Cambia il concetto di difesa, il problema, dice il ministro, non è più “da chi difendersi” (cioè da un eventuale aggressore) ma “che cosa difendere e come”. E cambia il che cosa difendere: non più la Patria, cioè il popolo e il territorio, ma “gli interessi nazionali nell’accezione più vasta di tali termini” ovunque sia necessario; tra questi sono preminenti gli interessi economici e produttivi e quelli relativi alle materie prime, a cominciare dal petrolio. Il teatro operativo non è più ai confini, ma dovunque sono in gioco i cosiddetti “interessi esterni”, e in particolare nel Mediterraneo, in Africa (fino al Corno d’Africa) e in Medio Oriente (fino al Golfo Persico); la nuova contrapposizione è con l’Islam e il modello, anzi la chiave interpretativa emblematica del nuovo rapporto conflittuale tra Islam e Occidente, dice il Modello, è quella del conflitto tra Israele da un lato e mondo arabo e palestinesi dall’altro. Chi ha detto che non abbiamo dichiarato guerra all’Islam? Noi l’abbiamo dichiarata nel 1991. L’ho dichiarata anch’io, in quanto membro di quel Parlamento, anche se mi sono opposto.
     I compiti della Difesa non sono più solo quei tre fissati nella legge di principio del 1978 ma si articolano in tre nuove funzioni strategiche, quella di “Presenza e Sorveglianza” che è “permanente e continuativa in tutta l’area di interesse strategico” e comprende la Presenza Avanzata che sostituisce la vecchia Difesa Avanzata della NATO, quella di “Difesa degli interessi esterni e contributo alla sicurezza internazionale”, che è ad “elevata probabilità di occorrenza” (e sono le missioni all’estero che richiedono l’allestimento di Forze di Reazione Rapida), e quella di “Difesa Strategica degli spazi nazionali”, che è quella tradizionale di difesa del territorio, considerata però ormai “a bassa probabilità di occorrenza”.
     A seguito di tutto ciò lo strumento non potrà più essere l’esercito di leva, ci vuole un esercito professionale ben pagato. Non serviranno più i militari di leva; già succedeva che i generali non facessero salire gli arruolati come avieri sugli aeroplani, e i marinai sulle navi; ma d’ora in poi i militari di leva saranno impiegati solo come cuochi, camerieri, sentinelle, attendenti, uscieri e addetti ai servizi logistici, sicché ci saranno centomila giovani in esubero e ben presto la leva sarà abolita.
     E’ un cambiamento totale. Non cambia solo la politica militare ma cambia la Costituzione, l’idea della politica, la ragion di Stato, le alleanze, i rapporti con l’ONU, viene istituzionalizzata la guerra e annunciato un periodo di conflitti ad alta probabilità di occorrenza che avranno l’Islam come nemico. Ci vorrebbe un dibattito in Parlamento, non si dovrebbe parlare d’altro. Però nessuno se ne accorge, il Modello di Difesa non giungerà mai in aula e non sarà mai discusso dal Parlamento; forse ci si accorse che quelle cose non si dovevano dire, che non erano politicamente corrette, i documenti e le risoluzioni strategiche dei Consigli Atlantici di Londra e di Roma, che avevano preceduto di poco il documento italiano, erano stati molto più cauti e reticenti, sicché finì che del Nuovo Modello di Difesa per vari anni si discusse solo nei circoli militari e in qualche convegno di studio; ma intanto lo si attuava, e tutto quello che è avvenuto in seguito, dalla guerra nei Balcani alle Torri Gemelle all’invasione dell’Iraq, alla Siria, fino alla terza guerra mondiale a pezzi che oggi, come dice il papa, è in corso, ne è stato la conseguenza e lo svolgimento.
     Il perché della nuova Costituzione
     E allora questa è la verità del referendum. La nuova Costituzione è la quadratura del cerchio. Gli istituti della democrazia non sono compatibili con la competizione globale, con la guerra permanente, chi vuole mantenerli è considerato un conservatore. Il mondo è il mercato; il mercato non sopporta altre leggi che quelle del mercato. Se qualcuno minaccia di fare di testa sua, i mercati si turbano. La politica non deve interferire sulla competizione e i conflitti di mercato. Se la gente muore di fame, e il mercato non la mantiene in vita, la politica non può intervenire, perché sono proibiti gli aiuti di Stato. Se lo Stato ci prova, o introduce leggi a difesa del lavoro o dell’ambiente, le imprese lo portano in tribunale e vincono la causa. Questo dicono i nuovi trattati del commercio globale. La guerra è lo strumento supremo per difendere il mercato e far vincere nel mercato.
     Le Costituzioni non hanno più niente a che fare con una tale concezione della politica e della guerra. Perciò si cambiano. Ci vogliono poteri spicci e sbrigativi, tanto meglio se loquaci.
     E allora questa è la ragione per cui la Costituzione si deve difendere. Non perché oggi sia operante, perché è stata già cambiata nel ‘91, e il mondo del costituzionalismo democratico è stato licenziato tra l’89 e il ’91 (si ricordi Cossiga, il picconatore venuto prima del rottamatore). Ma difenderla è l’unica speranza di tenere aperta l’alternativa, di non dare per compiuto e irreversibile il passaggio dalla libertà della democrazia costituzionale alla schiavitù del mercato globale, è la condizione necessaria perché non siano la Costituzione e il diritto che vengono messi in pari con la società selvaggia, ma sia la società selvaggia che con il NO sia dichiarata in difetto e attraverso la lotta sia rimessa in pari con la Costituzione, la giustizia e il diritto.
[1] Eric Hobsbawm, Il Secolo breve (1914-1991: l’era dei grandi cataclismi), Rizzoli, Milano, 1995.
[2] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.
Discorso tenuto il 16/09/2016 a Messina nel Salone delle bandiere del Comune in un’assemblea sul referendum costituzionale promossa dall’ANPI e dai Cattolici del NO e il 17/09/2016 a Siracusa in un dibattito con il prof. Salvo Adorno del Partito Democratico, sostenitore delle ragioni del Sì.
(26 settembre 2016)
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Pordenonelegge?

Dal 2000 si tiene Pordenonelegge, presentata come “Festa dei libri con gli autori”. La diciassettesima edizione  si è svolta in 5 giorni, dal mercoledì 14 alla domenica 18 settembre, dalle nove del mattino alle undici di sera, con ben 289 eventi in 30 luoghi e ben 470 tra autori e presentatori. Naturalmente in piazza XX Settembre c’erano anche due tendoni di vendita libri, uno grande per le novità, uno più piccolo, ma ben intasato, per i libri vecchi e fuori distribuzione. Insomma, stavolta è stata una colossale fiera che ha avuto 100-120 mila presenze. Rispetto agli obiettivi è stato senz’altro un successo, anche per i locali di ristorazione, ma forse anche per qualcuno degli altri negozi che sono rimasti aperti.

L’impostazione dell’esposizione è chiara anche dalla Guida ufficiale. Gli eventi erano perlopiù indicati come “incontri” tra uno o più autori di libri con un giornalista o altro operatore culturale, a sua volta indicato come colui che “presenta” e che in realtà era l’interlocutore preparato, la spalla necessaria a non ridurre l’incontro ad un monologo. Per inciso, sempre nella guida, il breve testo di presentazione dell’incontro è tratto, se non copia-incollato dalle presentazioni su Ibs o dai cataloghi online degli editori. In poche parole si tratta di una fiera di prodotti di consumo organizzata dai produttori, gli editori, con lo scopo di vendere gli ultimi prodotti, le novità.

Quindi un programma tutto finalizzato alla pubblicità della novità libraria. Ogni discorso – anche quei pochi discorsi moralmente impegnati che pur ci sono stati – aveva questo obiettivo principale: fare pubblicità ad un libro. Dagli incontri a cui ho assistito era infatti chiaro che gli interlocutori di un dibattito non criticavano alcunché, al massimo segnalavano un aspetto curioso, quindi interessante.

Naturalmente ci sono anche le stranezze e le eccezioni. Mi è capitato anche di notare una particolare applicazione del principio base, quello pubblicitario, o meglio l’apparente esclusione dello stesso. Ho infatti visto e sentito Massimo Recalcati, noto psicanalista, che sabato sera parlava di un suo libro, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Parlava da solo in quella che era definita una lectio magistralis. Ebbene, c’era tantissima gente – stimata da me in oltre 450 persone – dentro e fuori il tendone in piazza della Motta. Gente anche molto lontana dal docente, anche venti metri fuori dal tendone, ma attentissima. Impressionante. Quindi, mi sono detto, la gente non viene qui solo per sentirsi fare la pubblicità di un libro. Per ascoltare Recalcati che parla di Lacan bisogna già conoscere qualcosa di questi. Sembrava piuttosto una seduta psicoanalitica di massa.

Io penso che la formula riproposta e dilatata anche quest’anno non possa rimanere tale in futuro. Il libro non è una merce qualsiasi, il suo valore d’uso non sta né nella sua manipolazione fisica, né nel suo formato estetico esteriore, né nella sua gradevole lettura che dura per qualche ora. Più bello e forte è un libro, più dura nel tempo e viene studiato e criticato, amato e odiato, ristampato anche se controverso. Insomma, fa parte della cultura del suo tempo. Bisogna leggerlo per dire se è bello o brutto, o meglio, se piace o meno, ma si può comprare anche se non piace, se non è bello, anche se è schifoso.

Ma non si può fare pubblicità ad un libro senza analizzarlo, criticarlo, decostruirlo. Naturalmente ci sono libri e libri. Un romanzo, una narrazione, un libro di fotografie o un fumetto, non sono la stessa cosa di un saggio politico o filosofico, di una ricostruzione storica o una divulgazione scientifica. I primi hanno una divulgazione e quindi un mercato assolutamente diversi da secondi. Esercitare una critica sui primi è senz’altro legittimo ma è anche più arbitrario e legato ai gusti di massa molto variegati tra loro. Ma allora, una volta di più, come si può uniformare tutti i libri sotto l’etichetta della novità?

Però, se non fosse una fiera di libri, cioè un mercato, anche se chiamato festa, dovrebbe essere un festival tematico, un incontro organizzato su idee e racconti diversi della realtà, un momento di lettura, più o meno spettacolare, comunque qualcosa di molto meno grosso e vago dove i libri non avrebbero neanche quella vita autonoma di merce che qui hanno. Quindi, forse, vista la fase triste che sta attraversando la nostra società, anche se si tratta della necessità vitale dell’industria culturale di una società consumista, questo della crescita del consumo dei libri è un momento ancora importante, se non indispensabile, anche per migliorare il nostro futuro. E con questo dubbio mi fermo.

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Addio presidente Ciampi!

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E’ morto oggi Carlo Azeglio Ciampi (1920-2016) che fu studente e partigiano, dipendente dal 1946 della Banca d’Italia e poi suo Governatore (1979-1993), Presidente del Consiglio dei ministri e poi variamente ministro (1993-1999), Presidente della Repubblica (1999-2006) e infine Senatore a vita. Non sarò io a ricordare adeguatamente la sua figura, ma voglio riprodurre qui l’ultimo dei suoi messaggi che ricordo bene.

Si tratta di una lettera al Direttore del Sole 24 ORE del 15 maggio 2012, quando il dibattito successivo alla crisi del 2008-2009 era ancora in piedi su opzioni chiare e fondamentali come quella espressa da Ciampi in fondo al suo scritto: modificare le dimensioni e le modalità operative del comparto finanziario. (Grassetto ed evidenziazione sono miei.)

Grazie Presidente! Ciao vecchio partigiano! Addio!

L’amara urgenza di agire
di Carlo Azeglio Ciampi
Caro direttore,
il suo Memorandum sull’ultimo numero della Domenica mi sollecita innanzitutto a ringraziarla per le espressioni con cui ha evocato uno scambio di opinioni, quel dialogare tra noi fattosi nel tempo amichevole consuetudine.
Ma l’aver richiamato le considerazioni che andavo svolgendo quando era appena deflagrata la crisi della Lehmam e altre se ne profilavano; quando, soprattutto, ancora confidavamo nella “durezza” della lezione per prefigurare una finanza emendata dal vizio di una speculazione dissennata, ha suscitato in me pensieri amari. E come potrebbe essere diversamente, di fronte al caso JP Morgan e al suo “buco” di 2 miliardi di dollari? È come se qualcuno dopo aver rimesso indietro le lancette ci facesse piombare in un déjà-vu da incubo. Al centro di tutto ancora una volta i derivati.
I derivati, un po’ come è avvenuto e avviene per molte conquiste della scienza, possono svolgere ruoli di segno opposto a seconda dell’uso che gli uomini – sottolineo gli uomini – scelgono di farne.
Ero Governatore della Banca d’Italia e posso affermare che fino alla fine degli anni Ottanta, i cosiddetti derivati non rappresentavano un problema per il sistema bancario e finanziario internazionale.
Economisti ed esperti di finanza, oltre che gli operatori del settore, ne sottolineavano il contributo all’innalzamento del livello di efficienza dei mercati, resi più spessi e più liquidi; maggiormente in grado di diversificare i rischi. In breve, i derivati rappresentavano un completamento dei mercati finanziari.
Nonostante questo, considerate le dimensioni che il fenomeno andava assumendo e la sua rapidità di espansione, già negli anni immediatamente successivi, esso fu posto sotto osservazione dalle Autorità di controllo. All’inizio degli anni Novanta, infatti, la Banca dei regolamenti internazionali avviò un esame sistematico per acquisire informazioni sulle dinamiche di crescita degli strumenti derivati e sulle loro modalità di transazione. In seguito, il Comitato di Basilea emanò linee guida per una corretta gestione da parte delle banche dei rischi connessi con questi prodotti. La crescita esponenziale dei derivati, il cui valore globale era diventato un multiplo del Pil mondiale, destò preoccupazione nelle Banche centrali e nelle Autorità di vigilanza di alcuni Paesi. Nel 1996, la Banca d’Italia avanzò al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio – da me presieduto in qualità di ministro del Tesoro – alcune proposte d’intervento nel settore della “nuova finanza”.
Il Comitato approvò una delibera che stabiliva, tra l’altro, la necessità di fissare «i requisiti organizzativi minimi» per «l’operatività in strumenti derivati da parte delle banche»; le stesse, per poter operare nel settore, avrebbero dovuto dotarsi di «strutture organizzative atte a misurare, controllare e gestire i rischi di mercato e, più in generale, i rischi connessi all’operatività nel comparto degli strumenti derivati». Ho voluto fare questo salto all’indietro per sgomberare il campo da semplificazioni e da generalizzazioni fuorvianti e per richiamare il ruolo che deve essere svolto dalle autorità di settore nelle sedi internazionali competenti.
Dopo la crisi finanziaria innescata dai mutui “subprime” e gli scandali relativi a operazioni truffaldine effettuate nel comparto dei derivati da singoli soggetti o da banche, non ha avuto un esito positivo la richiesta di misure di tipo normativo e operativo, invocate per ridurne drasticamente e renderne più trasparente l’attività, come è stato ricordato di recente da autorevoli commentatori anche sulle colonne del suo giornale. Il prevalere di interessi di segno opposto ha fatto fallire l’obiettivo. Nonostante tutto però voglio continuare a confidare, oltre che nella saggezza e nella tenacia dei legislatori e dei regolatori, nella deontologia dei banchieri. I quali banchieri sanno perfettamente che, in mercati concorrenziali, ad alti profitti corrispondono rischi altrettanto elevati; sanno perfettamente che nell’amministrare, nel gestire mezzi finanziari il primo dovere è la tutela del risparmio loro affidato; sanno perfettamente che, alla lunga, solo una economia sana (alla cui crescita le banche devono concorrere in misura sostanziale) e non squassata da crisi finanziarie, e da repentine svalutazioni dei valori, mobiliari e immobiliari, può assicurare al sistema bancario stesso e ai singoli istituti progresso e sviluppo.
A costo di ripetermi – l’ho ricordato da ultimo nel libro dedicato ai giovani – è indispensabile che le banche, la cui ragion d’essere è fare credito, riconducano l’attività nel suo alveo naturale: finanziare l’economia. Quanto alla finanza, soprattutto quella più innovativa e sofisticata, necessita di essere regolamentata al fine di non mettere a repentaglio la stabilità del sistema bancario e finanziario; una regolamentazione che, come è richiesto da parte dei soggetti più avvertiti e responsabili, produrrà effetti sulle dimensioni e sulle modalità operative del comparto. Dopo un periodo, già dolorosamente troppo lungo, di sconvolgimenti, drammatici per i costi umani e sociali che hanno determinato, è urgente ritrovare alcune delle motivazioni che ispirarono le legislazioni bancarie della prima metà del secolo scorso e l’atteggiamento cooperativo che, alla fine, prevalse tra i negoziatori di Bretton Woods.
Con i più cordiali saluti
Carlo Azeglio Ciampi

 

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Lo stato della vergogna

Fabrizio Gatti, giornalista de l’Espresso

Lo stato, anzi lo Stato della vergogna è quello nostro, lo Stato italiano che permette quello che succede nel Cara (Centro d’accoglienza per richiedenti asilo) di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il terzo per dimensioni in Italia. Ancora una volta a raccontarci tale stato è Fabrizio Gatti, giornalista d’assalto de l’Espresso.

Riporto solo un estratto iniziale, ma invito a leggere e guardare tutto il materiale pubblicato anche online sul sito del settimanale.

No, questa non è una bidonville. È un ghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”, amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze del momento.
La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto i gangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da far prostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria ad asciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion per l’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non la polizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico del cancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636 ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille. Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nella recinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso, una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Una settimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il mio diario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato.
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Cronache degli anni Cinquanta (ma del XXI secolo)

Bruno Arpaia è un intellettuale con un itinerario abbastanza insolito. Nato nel 1957 a Ottaviano, studia e si laurea in scienze politiche all’università di Napoli e resta nell’area facendo il giornalista presso Il Mattino. Alla fine degli anni Ottanta si trasferisce a Milano dove lavora a la Repubblica e comincia a scrivere storie, pubblicando nel 1991 I forestieri, suo primo romanzo. Nel 1994 pubblica Il futuro in punta di piedi, dove anticipa con una certa precisione le vicende della scena politica italiana di un personaggio ancora inesistente, Silvio Berlusconi.

Ormai è lanciato. Lascia il giornalismo da dipendente e si butta sulla scrittura, rimanendo giornalista free-lance. E nel 1997, quando ha quarant’anni, pubblica Tempo perso, un romanzo ambientato nella rivoluzione delle Asturie del 1934. Così comincia anche a mettere a frutto una sua matura risorsa, la conoscenza della lingua e della letteratura spagnola e latinoamericana. Un altro frutto è il romanzo appena successivo, L’angelo della storia, del 1997, in cui ricostruisce con un tecnica che ritroveremo più avanti le ultime ore di Walter Benjamin a Portbou, in fuga dalla Francia alla Spagna a fine settembre 1940. E’ un libro di successo che entra nella selezione Campiello e comincia a far conoscere Arpaia al grande pubblico italiano.

Negli anni che seguono, il primo decennio del Duemila, continua la sua presenza nella traduzione spagnola (Jorge Volpi, Carlos Ruiz Zafon), arrivando nella cura editoriale di prestigio, come i due Meridiani dedicati a Gabriel García Márquez (2004, 2005), e al confronto intellettuale con Luis Sepúlveda (Raccontare, Resistere del 2003) e con Javier Cercas (L’avventura di scrivere romanzi del 2013). Ma mantiene anche l’originale attenzione alla società e politica italiana, con scritture non banali sulla crisi della sinistra (Il passato davanti a noi del 2006 e Per una sinistra reazionaria del 2007).

Ma nel 2011 la sua traiettoria narrativa cambia discretamente e passa attraverso la fisica delle particelle con il romanzo L’energia del vuoto, un thriller che richiedeva una certa competenza scientifica, maturata nel frattempo anche nel confronto con Pietro Greco, con cui pubblica poi La cultura si mangia! (2013). E’ così che arriviamo all’ultima fatica letteraria, Qualcosa, là fuori, un romanzo, anzi una cronaca di cosa succederà nel prossimo mezzo secolo.

La struttura del racconto ripete uno schema già utilizzato in precedenza, dove gli stessi protagonisti vengono seguiti in due storie parallele nei capitoli ma che si congiungono alla fine. E’ un libro che raccomando volentieri ai miei due lettori, sia per l’oggetto che per la forma ed i contenuti specialistici, di cui l’autore fornisce la fonte in un breve poscritto.

In quanto all’oggetto fondamentale, dirò solo che si tratta della cronaca del nostro pianeta e dei suoi disgraziati abitanti dopo l’inesorabile trasformazione dovuta al cambiamento climatico a sua volta dovuto al riscaldamento della Terra. Cioè quella cronaca che l’autore fa cominciare proprio dal 2015 col cosiddetto accordo della Conferenza internazionale sul clima di Parigi.

Buona lettura! (Si fa per dire.)

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Puntuale come un terremoto

Una delle prime cose lette online sul nuovo terremoto italiano che ha colpito alcuni borghi in un punto in cui si incrociano Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo, tra cui la notissima Amatrice, diceva sull’Huffington Post che “il campanile di Amatrice si ferma alle 3:36”. La foto è chiara.

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E a questo proposito il commento più appropriato ancora una volta l’ho trovato su il manifesto, in un testo di Piero Bevilacqua:

L’immagine della torre dell’orologio di Amatrice (tredicesimo secolo), che svetta ancora intatta su un cumulo di abitazioni in macerie, è un atto di accusa che i costruttori dei secoli passati lanciano contro la modernità di cartapesta dei contemporanei.

Ma a noi pare che la torre sia rimasta su sì perché bella e forte rispetto a tanti edifici posteriori, ma anche per dirci con chiarezza che è ora di svegliarci.

Di giorno, ma soprattutto di notte, in Italia e soprattutto in quella appenninica, il terremoto è la regola, cioè è regolare, il suo arrivo è certo, senz’altro più di quello dei treni. Certo, non sappiamo bene il suo “programma”, ma siamo certi che c’è.

Infatti, quel genio del terremoto non improvvisa un bel niente e se la prende sempre con i soliti cittadini, quelli attaccati a zone difficili da raggiungere, un po’ strane per il pensiero architettonico attuale, quindi anche per la rendita e la speculazione edilizia e che finiscono perlopiù nelle graduatorie dei borghi più belli d’Italia. Al punto che per sapere dove ci sarà la prossima scossa distruttrice basta far scorrere il mouse sulla distribuzione geografica di questi.

Sappiamo quindi dove e quando ci saranno le prossime scosse. E’ il caso di darci una mossa noi, ma in anticipo.

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La strategia politica della paura

Riporto l’intervista di Zygmunt Bauman a Giulio Azzolini pubblicata su la Repubblica del 5 agosto 2016 (p. 35). (Il link è tratto da Eddyburg che riporta anche l’articolo che precede l’intervista. Le evidenziazioni sono mie.)

Il filosofo: “Attenti ai politici che fanno dei nostri sentimenti uno strumento di potere”
di Giulio Azzolini

“Succede che i legami si frantumano che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto di dialogo e cooperazione”
Professor Bauman, sono passati dieci anni da quando scrisse Paura liquida (Laterza). Che cos’è cambiato da allora?
«La paura è ancora il sentimento prevalente del nostro tempo. Ma bisogna innanzitutto intendersi su quale tipo di paura sia. Molto simile all’ansia, a un’incessante e pervasiva sensazione di allarme, è una paura multiforme, esasperante nella sua vaghezza. È una paura difficile da afferrare e perciò difficile da combattere, che può scalfire anche i momenti più insignificanti della vita quotidiana e intacca quasi ogni strato della convivenza».

Per il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la nostra è l’epoca delle “passioni tristi”. Che cosa succede quando la paura abbraccia la sfiducia?
«Succede che i legami umani si frantumano, che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto del dialogo e della cooperazione. Dalla famiglia al vicinato, dal luogo di lavoro alla città, non c’è ambiente che rimanga ospitale. Si instaura un’atmosfera cupa, in cui ciascuno nutre sospetti su chi gli sta accanto ed è a sua volta vittima dei sospetti altrui. In questo clima di esasperata diffidenza basta poco perché l’altro sia percepito come un potenziale nemico: sarà ritenuto colpevole fino a prova contraria».
Eppure l’Europa ha già conosciuto e sconfitto l’ostilità e il terrore: quello politico delle Br in Italia e della Raf in Germania, quello etnico-nazionalistico dell’Eta in Spagna e dell’Ira in Irlanda. Il nostro passato può insegnarci ancora qualcosa o il pericolo di oggi è incomparabile?
«I precedenti sicuramente esistono, tuttavia pochi ma decisivi aspetti rendono le attuali forme di terrorismo assai differenti dai casi che lei ricordava. Questi ultimi erano prossimi ad una rivoluzione (mirando, come le Br o la Raf, ad una sovversione del regime politico) o ad una guerra civile (puntando, come l’Eta o l’Ira, all’autonomia etnica o alla liberazione nazionale), ma si trattava pur sempre di fenomeni essenzialmente domestici. Ebbene, gli atti terroristici odierni non appartengono a nessuna delle due fattispecie: la loro matrice, infatti, è completamente diversa».
Qual è la peculiarità del terrorismo attuale?
«La sua forza deriva dalla capacità di corrispondere alle nuove tendenze della società contemporanea: la globalizzazione, da un lato, e l’individualizzazione, dall’altro. Per un verso, le strutture che promuovono il terrorismo si globalizzano ben al di là delle facoltà di controllo degli Stati territoriali. Per altro verso, il commercio delle armi e il principio di emulazione alimentato dai media globali fanno sì che ad intraprendere azioni di natura terroristica siano anche individui isolati, mossi magari da vendette personali o disperati per un destino infausto. La situazione che scaturisce dalla combinazione di questi due fattori rende quasi del tutto invincibile la guerra contro il terrorismo. Ed è assai improbabile che esso abdichi a dinamiche ormai autopropulsive. Insomma, si ripropone, sotto nuove forme, il mitico problema del nodo gordiano, quello che nessuno sa sciogliere: e sono molti i sedicenti eredi di Alessandro Magno che, ingannando, giurano che le loro spade riuscirebbero a reciderlo».
Per molti politici e molti commentatori, le radici del terrorismo vanno rintracciate nell’aumento incontrollato dei flussi migratori. Quali sono, a suo giudizio, le principali ragioni della violenza contemporanea?
«Com’è evidente, i profitti elettorali che si ottengono stabilendo un nesso di causa-effetto tra immigrazione e terrorismo sono troppo allettanti perché i concorrenti al gioco del potere vi rinuncino. Per chi decide è facile e conveniente partecipare ad un’asta sul mezzo più efficace per abolire la piaga della precarietà esistenziale, proponendo soluzioni fasulle come fortificare i confini, fermare le ondate migratorie, essere inflessibili con i richiedenti asilo… E per i media è altrettanto facile dare visibilità alla polizia che assalta i campi profughi oppure diffondere le immagini fisse e dettagliate di uno o due kamikaze in azione. La verità è che è maledettamente complicato toccare con mano le radici autentiche di una violenza che cresce in tutto il mondo, per volume e per intensità. E giorno dopo giorno diventa ancora più arduo, se non proprio impossibile, dimostrare che i governi abbiano individuato quelle radici e stiano lavorando davvero per sradicarle».
Vuole dire che anche i politici occidentali utilizzano la paura come strumento politico?
«Esattamente.
Come le leggi del marketing impongono ai commercianti di proclamare senza sosta che il loro scopo è il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, pur essendo loro pienamente consapevoli che è al contrario l’insoddisfazione il vero motore dell’economia consumistica, così gli imprenditori politici dei nostri giorni dichiarano sì che il loro obiettivo è garantire la sicurezza della popolazione, ma al contempo fanno tutto il possibile, e anche di più, per fomentare il senso di pericolo imminente. Il nucleo dell’attuale strategia di dominio, dunque, consiste nell’accendere e tenere viva la miccia dell’insicurezza…».

E quale sarebbe lo scopo di questa strategia?
«Se c’è qualcosa che tanti leader politici non vedevano l’ora di apprendere, è lo stratagemma di trasformare le calamità in vantaggi: rinfocolare la fiamma della guerra è una ricetta infallibile per spostare l’attenzione dai problemi sociali, come la disuguaglianza, l’ingiustizia, il degrado e l’esclusione, e rinsaldare il patto di comando-obbedienza tra i governanti e la loro nazione. La nuova strategia di dominio, fondata sulla deliberata spinta verso l’ansia, permette alle autorità stabilite di venire meno alla promessa di garantire collettivamente la sicurezza esistenziale. Ci si dovrà accontentare di una sicurezza privata, personale, fisica».
Crede che in tal modo le istituzioni rischino di smarrire il carattere democratico?
«Di sicuro la costante sensazione di allerta incide sull’idea di cittadinanza, nonché sui compiti ad essa legati, che finiscono per essere liquidati o rimodellati. La paura è una risorsa molto invitante per sostituire la demagogia all’argomentazione e la politica autoritaria alla democrazia. E i richiami sempre più insistiti alla necessità di uno stato di eccezione vanno in questa direzione».
Papa Francesco appare l’unico leader intenzionato a sfatare quello che lei altrove ha chiamato “il demone della paura”.
«Il paradosso è che sia proprio colui che i cattolici riconoscono come il portavoce di Dio in terra a dirci che il destino di salvezza è nelle nostre mani. La strada è un dialogo volto a una migliore comprensione reciproca, in un’atmosfera di mutuo rispetto, in cui si sia disposti ad imparare gli uni dagli altri. Ascoltiamo troppo poco Francesco, ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica in grado di risolvere una situazione che somiglia sempre di più a un campo minato, saturo di esplosivi materiali e spirituali, salvaguardati dai governi per mantenere alta la tensione. Finché le relazioni umane non imboccheranno la via indicata da Francesco, è minima la speranza di bonificare un terreno che produrrà nuove esplosioni, anche se non sappiamo prevedere con esattezza le coordinate».
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Terrorismo, una guerra vera

Ecco invece una stringata ma necessaria riflessione (1) sui rapporti storici tra Occidente, guerra e terrorismo e (2) su rapporti tra politica, economia e terrorismo. E’ un’intervista a Umberto Curi, filosofo e docente all’Università di Padova. (Le evidenziazioni sono mie.)

L’ambiguità del terrore
di Ernesto Milanesi
Paura, panico, terrore: è l’effetto domino del Califfato. Così si radicalizzano sicurezza, ordine, emergenza. Un’altra «guerra di civiltà», come nel 2001: oltre la trincea della religione teocon opposta all’islam, ma nel cuore smarrito d’Europa per azzerare ogni melting pot. «Siamo già al paradosso più eclatante. A novembre a Parigi la polizia ha caricato i dimostranti per garantire la loro sicurezza. Sono state vietate tutte le manifestazioni nella patria delle libertà rivoluzionarie e s’impongono misure eccezionali», chiosa Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova, che ha pubblicato di recente il saggio I figli di Ares. Guerra infinita e terrorismo (Castelvecchi, pp. 140, euro 16.50) e con Gianfranco Bettin Sfidare la paura (Becco Giallo, pp. 80, euro 8.50).
«È un momento di straordinaria delicatezza che rende massimamente necessario il coraggio intellettuale di nuove analisi e nuove categorie interpretative – argomenta ancora Curi -. Qualche possibilità di comprensione autentica dei fenomeni in atto esige il coraggio di una navigazione in mare aperto senza rispettare appartenenze, certezze, fedeltà a presunti feticci ideologici. Altrimenti, la prima e più importante vittoria del terrorismo sarà già realizzata: certificare la drammatica arretratezza culturale occidentale e l’inadeguatezza degli strumenti teorici dell’Europa tutta. C’è una sintesi angosciosa: il titolo Bastardi islamici con cui si raggiunge la vetta nel reclutamento dell’opinione pubblica, ma insieme si esprime una miseria inaccettabile».
Resta la paura che serpeggia nell’anima europea. Si può immaginare qualche antidoto?
La paura è anche ciò che lascia senza parole: lo stato d’animo che sconfina nello sgomento, nella perdita di controllo, nell’emotività sfrenata. Tuttavia, il carattere costitutivo ambivalente e ineliminabile della paura era chiaro fin dall’antica Grecia. Phobos è figlio di Ares, dio della guerra, e di Afrodite, dea dell’amore: arduo immaginare una discendenza più contraddittoria. La paura è fattore morfogenetico di disgregazione, tuttavia è anche la base su cui costruire nuovi assetti ordinati. Non a caso la sorella di Phobos è Armonia, la sposa di Cadmo: simbolo non di una staticità immobile e perfetta, quanto invece risultato dei conflitti presupposti dal padre Ares. Insomma, la paura è duale, ambivalente, contraddittoria. Incidentalmente, va ricordato che rappresenta il potentissimo fattore di aggregazione che dà origine allo Stato moderno come spiega Hobbes.
Guerra e pace, binomio «dialettico». Ora però tecnologicamente squilibrato a livello planetario sul fronte del terrorismo, della guerra di religione (anche nell’islam), del controllo delle risorse e perfino della finanza globale. Esiste una risposta non pacificata ai nuovi conflitti?
A differenza di ciò che abitualmente si crede, è sostanzialmente assente dalla tradizione del pensiero occidentale un’impostazione pacifista. Al contrario, alcuni fra i maggiori autori, antichi e moderni – da Platone a Tommaso, da Spinoza a Hobbes, da Fichte a Hegel, da Clausewitz a Schmitt – riconoscono realisticamente l’inevitabilità della guerra, il fatto che sia un evento deprecabile, ma al tempo stesso ineliminabile. Detto per inciso, sarebbe necessario sfatare una vera e propria leggenda, qual è quella che vorrebbe accreditare Marx come pacifista. Per il filosofo di Treviri non solo tutta la storia è storia di lotta di classe, ma i rapporti sociali di produzione, che sono alla base del divenire delle società, hanno un’impronta inconfondibilmente conflittuale.
D’altra parte, già dall’inizio del ventesimo secolo, e in maniera sempre più accentuata con l’inizio del terzo millennio, si assiste a una trasformazione nella morfologia della guerra, e nel nesso fra guerra e politica. Sempre meno la guerra è – come era stata invece in precedenza – «affare» di eserciti e di militari, e diventa un evento che coinvolge direttamente la popolazione civile. Basti pensare che se nella prima guerra mondiale metà dei caduti sono civili, questo rapporto diventa di 2/3 nella seconda guerra mondiale, e addirittura di 1/15, fra militari e civili, nella seconda guerra del Golfo. A ciò si aggiunga che l’impostazione stessa delle operazioni belliche si modifica radicalmente. Si rinuncia al combattimento «stivali sul terreno», per privilegiare forme di conflitto a distanza, capaci di minimizzare o annullare i rischi per i soldati, mentre è la popolazione civile a diventare l’obbiettivo esplicito delle iniziative militari.
Il terrorismo è la risposta ai cambiamenti intervenuti nelle modalità tecniche della guerra, nella misura in cui contrappone simmetricamente al drone, strumento simbolo della nuova morfologia bellica, l’uso del corpo stesso di singoli individui come arma letale
.
Si teme lo straniero, il diverso, l’altro, il povero, il dissidente. E s’invoca massima sicurezza anche a costo di rinunciare al minimo sindacale di libertà e diritti. Come se ne esce?
Di per sé, la paura è uno stato d’animo del tutto «naturale», quale conseguenza di una condizione in cui il rapporto con l’«altro» – quale che sia la forma specifica che tale alterità può assumere – pone radicalmente in questione la nostra stessa identità. I problemi nascono soprattutto in relazione alla risposta politica all’emergere della paura. Da un lato, anche ma non solo nel nostro paese, vi sono forze politiche che hanno spregiudicatamente costruito le loro fortune elettorali sull’alimentazione della paura, come la Lega di Matteo Salvini. Dall’altra parte, in quello che resta della sinistra manca una capacità di proporre una soluzione alternativa, che non pretenda abusivamente di cancellare la paura, ma che punti piuttosto a «curarla», attraverso la conquista di più maturi livelli di consapevolezza.
Questo quadro diventa ancor più allarmante se si tiene conto di ciò che sta avvenendo in alcuni paesi europei, in Francia in particolare: la reazione alla minaccia del terrorismo si è tradotta in una istituzionalizzazione dell’emergenza, nella tendenza – logicamente contraddittoria – a trasformare in norma l’eccezione.
Papa Francesco è tornato da Lesbo con dodici musulmani, Tsipras invece mette il filo spinato. Merkel legifera sui migranti, la Spo chiude la frontiera del Brennero. L’Iran accoglie 982mila rifugiati, in Italia dal 2011 sono sbarcati circa duecentomila migranti. Dov’è la bussola?
Nel mio libro cerco di argomentare la stretta connessione rilevabile fra i tre fenomeni macro-politici della nostra epoca: l’asimmetrica distribuzione delle risorse a livello planetario, l’emigrazione, il terrorismo. Trovo quanto meno sorprendente, e per certi aspetti scandaloso, che mentre si è pronti a riconoscere una relazione tra fenomeni spesso diversi ed eterogenei in nome di una fin troppo citata globalizzazione, si perseveri nel ritenere che, ad esempio, non vi sia alcun rapporto fra la povertà assoluta, che affligge ancora quasi un miliardo di esseri umani, e la diffusione del terrorismo.
Non si tratta – ovviamente – di postulare un rapporto diretto, di causa ed effetto. Ma dovrebbe balzare agli occhi un dato che a me pare incontestabile. E cioè che un mondo in cui 4/5 della popolazione dispone di solo 1/5 delle risorse
, in cui ogni anno 11 milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono di denutrizione, in cui 1/6 delle persone non ha accesso all’acqua potabile, in cui poco meno di un miliardo di individui cerca di sopravvivere con un dollaro al giorno, in cui il patrimonio di una singola persona (come Bill Gates) è superiore al Pil di cinque paesi africani messi insieme – un mondo caratterizzato da questi agghiaccianti squilibri è in se stesso un mondo in guerra, anche là dove non emergano esplicitamente episodi di combattimenti.
Sono convinto che la formula proposta dal segretario generale della Fao – «se vogliamo la pace domani, dobbiamo agire per la giustizia oggi» – costituisca la sintesi migliore per cogliere, in positivo, l’unica opportunità di pace non effimera oggi concretamente perseguibile.
(il manifesto, 28 luglio 2016)
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