26 ragazze morte e il nostro squallore quotidiano

Riporto senza commenti un articolo comparso sulla pagina odierna di Avvenire.it.

Naufragio nel deserto di umanità. Le 26 migranti morte e i commenti sui social
di Antonella Mariani
Una, due, tre, quattro… venticinque e ventisei. Ventisei. Tutte ragazze tra i 14 e i 18 anni. Un’enormità. Un’intera classe femminile di una nostra scuola superiore cancellata. Immaginate un insegnante che legga 26 nomi, all’appello del mattino, in aula: servirebbero lunghi minuti e ogni alunna risponderebbe «presente» e alzandosi in piedi riempirebbe la stanza con il suo pezzo di vita, la sua attesa di futuro, la propria originalissima umanità, nessuna uguale a un’altra. Ecco, ventisei ragazze, probabilmente nigeriane, venerdì scorso sono morte nel Mediterraneo. I loro corpi recuperati da una nave della Marina militare spagnola, intervenuta per salvare i passeggeri di un gommone semiaffondato. Perché sono morte solo ragazze? E perché erano radunate in quell’imbarcazione precaria? E perché tutte così giovani?
Le risposte a queste domande ancora non ci sono. Ci sono ipotesi però, che chi indaga sta cercando di verificare: forse sono annegate solo loro proprio perché indifese, più deboli fisicamente e dunque svantaggiate nel momento in cui ciascuno dei naufraghi – in gran parte uomini – ha provato a salvare la propria vita restando aggrappato come poteva alle sponde della barca, magari facendosi disperatamente e cinicamente spazio tra gli altri. Forse era un gruppo di prede destinato alla tratta della carne umana, ed erano sotto la «custodia» di qualcuno che quando l’acqua ha iniziato a salire le ha abbandonate a se stesse, senza dar loro una possibilità di sopravvivere. Forse, ancora, erano indebolite perché già pesantemente provate nel viaggio dalla Nigeria fino alle coste libiche: violentate e torturate, come ha raccontato una donna sopravvissuta e sbarcata ieri al porto di Salerno.
Per quanto ne sappiamo le 26 ragazze potrebbero anche essersi lasciate scivolare giù dal gommone insieme al loro dolore e al loro futuro mancato. Il destino, in ognuna di queste ipotesi, non c’entra. Come spesso accade nei naufragi (l’Organizzazione mondiale delle migrazioni in un rapporto diffuso il primo novembre parla di 111.552 persone approdate in Italia nei primi 10 mesi del 2017 e di 2.639 morti), i corpi delle 26 ragazze non verranno reclamati. Ci saranno madri e padri e nonni e fratelli che non sapranno più nulla: resteranno congelate per sempre nei loro 14, 16, 18 anni e le famiglie forse si illuderanno che l’Europa sia stata madre generosa per le loro bambine. Non sanno e non sapranno che in tanti, in Italia, non hanno avuto pietà. Nemmeno davanti al corteo funebre delle 26 bare, che avrebbero potuto essere bianche, calate dalla nave dei soccorsi, i codardi senza cuore si sono zittiti con l’unico gesto degno, anche da lontano: il segno della croce. E invece no.
Le cronache sulla morte delle 26 ragazze, diffuse già domenica dalle testate giornalistiche attraverso i profili social, sono stati sommerse da commenti impietosi. A chi, come il sindaco di Salerno Vincenzo Natale, turbato, domandava silenzio e raccoglimento davanti alla tragedia, è stato risposto con decine di post agghiaccianti, dal «se ne devono andare» al classico «ci rubano il lavoro», per non contare quelli che alle ragazze morte hanno riservato il più spregevole degli oltraggi, immaginando quella che sarebbe stata la destinazione finale del loro lungo viaggio, il marciapiedi. Quanti animi rimpiccioliti dagli egoismi, dalla superficialità, ristretti dall’incapacità di cogliere in quelle 26 migranti morte da sole, senza famiglia accanto, senza un nome e un volto, quell’umanità che ci accomuna tutti. E quell’attesa di futuro che appartiene a tutte le giovani donne del mondo.
Ma il deserto di umanità rappresentato da tanti post su Facebook non rispecchia (fortunatamente) tutta la realtà: perché le ultime vittime del grande esodo africano, in terra italiana avranno almeno una degna sepoltura. Ieri alcuni Comuni del Salernitano, oltre al capoluogo, hanno dato disponibilità ad accoglierle nei propri cimiteri: e vorremmo che almeno lì ciascuna di loro riavesse, se non il proprio, almeno un nome. E non un freddo numero da 1 a 26.
Avvenire.it – 7 novembre 2107
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Un’altra legge elettorale che puzza

In queste ore in Parlamento si sta consumando l’ennesima porcheria tra personaggi pressoché innominabili nel tentativo di imporre una legge elettorale che permetta di eleggere nomi già designati e garantire la sopravvivenza politica di strutture personali. Purtroppo sembra che la massima istituzione, la Presidenza della Repubblica, permetta o addirittura avvali tutto ciò. Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia, ha scritto sul Fatto Quotidiano di oggi proprio l’appello che riportiamo senza ulteriori commenti (ma con le evidenziazioni).

“Mattarella non si lasci coinvolgere”
di Tomaso Montanari
Nel 2014, per la prima volta, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale. In nome del principio della continuità dello Stato la sentenza non ha travolto deputati e senatori eletti l’anno precedente, ma ha comunque sancito espressamente la rottura del rapporto di rappresentanza tra i parlamentari e il corpo elettorale. In poche parole, ha sancito la non rappresentatività del Parlamento attualmente in carica.
Ciononostante, la maggioranza parlamentare non si è fatta scrupolo di abusare dei numeri che l’avevano incostituzionalmente resa tale, riscrivendo a proprio vantaggio le regole del sistema istituzionale. Un tentativo vanificato da un doppio fallimento: la bocciatura referendaria della riforma costituzionale e l’incostituzionalità anche della nuova legge elettorale.
Oggi, incredibilmente, ci risiamo. Ancora una volta una maggioranza parlamentare non rappresentativa degli italiani prova a imporre una legge elettorale segnata da astuzie e forzature: mancanza di un chiaro principio ispiratore, divieto del voto disgiunto, ripartizione pro-quota del voto maggioritario tra i partiti della coalizione nel proporzionale, ritorno delle liste-civetta, candidature plurime, liste bloccate… Alla base, un patto apertamente rivolto a danneggiare le forze politiche lasciate escluse e a privare i cittadini del potere di determinare la composizione del futuro Parlamento. Il risultato che si va costruendo sotto i nostri occhi è talmente artificioso e incomprensibile che gli stessi fautori della legge non hanno potuto evitare il ridicolo di prevedere l’inserimento nella scheda elettorale di istruzioni per l’uso agli elettori!
Da più di dieci anni i partiti elaborano leggi elettorali rivolte non ai cittadini, ma esclusivamente a se stessi. Non mirano a valorizzare la volontà popolare, ma a distorcerla a loro favore. Non si interrogano su quale strumento sia più adeguato alle esigenze sociali, ma su quello più utile ai loro regolamenti di conti. È ora di dire basta.
I vertici istituzionali hanno il dovere di garantire il corretto rispetto delle regole della competizione politica. Vogliamo credere che questa volta le presidenze delle Camere sapranno difendere il dettato costituzionale respingendo l’inammissibile pretesa del governo di apporre la fiducia sulla legge elettorale. E vogliamo credere che questa volta il Presidente della Repubblica non accetterà di farsi coinvolgere in un’operazione finalizzata, a pochi mesi dal voto, a predefinire incostituzionalmente il risultato delle elezioni a discapito della volontà degli elettori.
(Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2017)
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“Si apre un autunno cruciale”

In queste settimane pensavo di dedicare un po’ di tempo e di riflessione ai cento anni della Rivoluzione d’ottobre , ma qualcuno (giustamente) scrive che “si apre un autunno cruciale”. E’ Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia, autore con Anna Falcone del recente appello Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, che fa bene a sottolineare la gravità della crisi in atto e quindi dei compiti di tutti noi. Prepariamoci e partecipiamo.

Non possiamo essere pedine di questo gioco al massacro
di Tomaso Montanari
Se l’emigrazione è così massiccia vuol dire che le minacce alla vita sono insostenibili in gran parte del pianeta. Significa che la politica deve cambiare. Anche a sinistra
L’articolo 10 della Costituzione prescrive che gli stranieri che non possono esercitare le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» hanno diritto ad essere accolti nel nostro Paese, in quanto «persone» titolari, ai sensi del nostro articolo 2 della Costituzione, di diritti inviolabili a prescindere dalla loro nazionalità o Paese di provenienza.
Non è una vaga, utopica aspirazione, ma il cuore del progetto della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (non solo dei cittadini italiani, nda), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». È per questo che in Italia esiste un «diritto costituzionalmente garantito» all’asilo: non si può decidere se applicare o meno questa norma, dobbiamo chiederne noi l’attuazione, insieme a quella di tutti i principi che qualificano la nostra democrazia, e che ad oggi restano in gran parte inattuati.
Eppure, in queste drammatiche settimane estive, lo Stato italiano – attraverso il suo governo, e segnatamente il suo ministro dell’Interno – non solo non ha attuato questo principio fondamentale ma ha decisivamente scoraggiato le organizzazioni non governative che soccorrevano in mare i migranti, e ha preso accordi con le autorità di Paesi in cui non sono garantite le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», affinché i loro cittadini e i migranti che ne attraversino i territori non possano fuggirne: cioè non possano aspirare, come noi tutti, a una vita libera e dignitosa.
Siamo di fronte a un grave tradimento della nostra Carta fondamentale e dei Trattati e documenti internazionali che riconoscono e tutelano i diritti delle persone e dei richiedenti asilo. Crediamo che di fronte alle masse che lasciano la propria casa in cerca di diritti, di vita e di futuro la risposta dell’Occidente non possa essere la chiusura e il tradimento dei principi su cui si fondano le nostre democrazie.
Il fenomeno migratorio non si fermerà di fronte al nostro egoismo. Anzi, rischierà di degenerare in uno scontro di civiltà, già abilmente fomentato da chi coltiva la guerra come forma di lucro e dominio sui popoli, a prezzo del sangue dei più deboli e innocenti.
Non possiamo, non dobbiamo, essere pedine di questo gioco al massacro. Abbiamo un orizzonte diverso, che guarda al mondo come casa di tutti e alla globalizzazione dei diritti, come fine dell’azione politica internazionale di chi crede davvero nella democrazia e nell’universalità dei diritti fondamentali.
Tutti i Paesi più ricchi, a partire dall’Italia, devono garantire non solo l’accoglienza promessa delle Carte, ma impegnarsi in una strategia condivisa a livello sovranazionale che crei e garantisca ovunque le condizioni di eguaglianza e giustizia sociale la cui assenza è la vera e prima causa della grande migrazione in atto.
E anche sulla natura e le dimensioni di questo fenomeno la Sinistra ha, innanzi tutto, il dovere di dire la verità: le migrazioni sono processi fisiologici e costanti in un mondo globalizzato, diventano massicce quando le minacce alla vita delle persone diventano intollerabili, quando una parte del mondo vive in condizioni disumane, o non vive affatto, e una piccola parte di privilegiati vive con le risorse di tutti.
Ecco: questo egoismo rischia di trasformarsi in un detonatore. Dobbiamo disinnescarlo. Anche perché sui migranti si sta costruendo l’ennesima menzogna mediatica, che devia l’attenzione dalle emergenze reali della politica, dalle cause reali dei nostri problemi. Insomma: prima si è provato a dire che era colpa della Costituzione. Sappiamo come è finita, il 4 dicembre scorso. Ma ora i mali del Paese, le nostre vite precarie, il taglio orizzontale di diritti e futuro: tutto è colpa dei migranti! Fumo negli occhi di una politica che non sa cambiare e non vuole rimettere al centro le persone, ma spera di «neutralizzarle» mettendo poveri contro poveri, disperati contro disperati. Non ci siamo cascati il 4 dicembre, non ci cascheremo adesso.

Anche perché la piccola parte di migranti che sbarca sulle nostre coste rappresenta solo l’1% del flusso migratorio globale. Fra questi, solo una piccola parte aspira a fermarsi in Italia: non sono un’invasione, né un’ondata oceanica. Non rappresentano affatto una minaccia, semmai una grande opportunità: umana, culturale e anche economica.
Il nostro Paese, in drammatica crisi demografica, ha bisogno di nuovi italiani. Le nostre antiche città aspettano nuovi cittadini. E la perfino timida legge sullo ius soli in discussione in Parlamento è davvero il minimo che si possa fare per costruire questa nuova Italia.
Ecco: stiamo lavorando a un progetto condiviso che permetta a questo Paese di risollevarsi e ripartire, in cui ci sia lavoro vero per tutti, non elemosine e precarietà per pochi. Chi non si ponga in questa prospettiva, chi non ambisca a creare le condizioni per un «Nuovo Inizio» democratico, sociale ed economico, non ha capito qual è il compito fondamentale della politica che vogliono gli italiani.
Ancora una volta: è di questi nodi cruciali che dobbiamo e vogliamo discutere, non della sterile alchimia di sigle e leader. Continuiamo a credere nella formula che abbiamo proposto al Brancaccio il 18 giugno scorso: ci vuole una sola lista a sinistra del Partito Democratico – un partito la cui involuzione a destra è apparsa, proprio sui temi dell’immigrazione, palese.
Crediamo che anche la situazione della Sicilia confermi questa lettura: mentre il Pd guarda a destra, la sinistra cerca l’unità e la forza per proporre alternative radicali allo stato delle cose.
Si apre un autunno cruciale: proseguono le assemblee regionali, si moltiplicano quelle in città di ogni dimensioni, si preparano quelle tematiche fissate per il fine settimana a cavallo tra settembre e ottobre. Il loro formato è quello che abbiamo sperimentato da giugno in poi: aperto a tutti (associazioni, partiti, singoli cittadini) e senza dirigenze, egemonie o portavoce autonominati.
Decideremo poi insieme, e democraticamente, in una grande assemblea nazionale che sarà indetta alla fine del lavoro sul programma, il tipo di organizzazione che vorremo darci. Tutto questo è importante: ma è solo un mezzo, uno strumento per metterci in grado di dare il nostro contributo all’attuazione della Costituzione. Il primo traguardo da cui ripartire per costruire un nuovo orizzonte di democrazia partecipata e di cittadini liberi.
(il manifesto, 7 settembre 2017)
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Un Ferragosto maledetto

Non è facile leggere – e tantomeno vedere in tv – cosa sta veramente accadendo a quei poveri disgraziati che ancor pensano e tentano di attraversare il Mediterraneo, ma qualcuno che descrive e qualcuno che riflette ancora c’è.

Tra i primi segnalo e invito a seguire in questi giorni il reportage di Domenico Quirico su La Stampa, iniziato con gli articoli del 12 agosto con “A Tripoli con i migranti respinti dall’Europa fra torture, umiliazione e fame” e oggi, Ferragosto, con “Libia, nella roccaforte degli scafisti dove inizia l’inferno dei migranti“. Mentre tra i commenti riproduco ancora l’articolo odierno di Guido Viale publicato dal manifesto.

Buon Ferragosto!

Il deserto sociale e culturale dove trionfa l’inumano
di Guido Viale
Bisognerebbe chiedersi perché il Governo della Libia – o quello che viene spacciato per tale – è così pronto a riprendersi, anche con azioni di forza, quei profughi che tutti i Governi degli altri Stati, sia in Europa che in Africa, cercano di allontanare in ogni modo dai propri confini.
La verità è che a volerli riprendere non è quel Governo, ma sono le due o tre Guardie costiere libiche che fanno finta di obbedirgli, ma che in realtà lo controllano; e a cui l’Italia sta dando appoggio con dovizia di mezzi militari. Ormai si sa che quelle Guardie costiere sono in mano a clan e tribù coinvolte nella tratta dei profughi e nel business degli scafisti. E che una volta a terra profughe e profughi riportati in Libia saranno imprigionati e violate di nuovo e torturati per estorcere un riscatto alle loro famiglie; oppure venduti ad altri scafisti che faranno loro le stesse cose; fino a che non li imbarcheranno di nuovo, non prima di aver fatto pagar loro, per la seconda volta, il passaggio. Per farlo meglio hanno riattivato una zona Sar fantasma, proibendo alle Ong di entrarvi. Quello che Minniti cercava e non era riuscito a fare con il suo codice di condotta. Un business così, legittimato da un Governo straniero, dall’Unione europea e dall’Onu, nessun criminale al mondo se l’era finora sognato…
Dunque è il ministro Minniti, e non le Ong, ad aver fatto accordi con i veri scafisti, invece di cercare di impegnare il Governo italiano, con tutte le sue carte residue, in un vero confronto con il resto dell’Unione europea per mettere al centro un programma condiviso di accoglienza (di cui, a questo punto, solo un movimento di massa di respiro europeo potrà farsi carico). E’ una grande presa in giro degli italiani ed è un crudele abbandono di migliaia e migliaia di persone in balia di veri e propri carnefici – di cui la magistratura non sembra volersi accorgere – in vista, perché di questo si tratta, delle prossime elezioni. Ma il prezzo è molto alto per tutti: della presenza di Minniti in questo governo, ma anche del suo passaggio su questa Terra, resterà per decenni non la sua effimera e cinica popolarità attuale, ma il suo sostanzioso contributo alla disumanizzazione della società. Ma che cosa rende possibile una politica simile?

Non si è riflettuto abbastanza sul rapporto tra umanità e socialità e tra perdita dell’una e perdita dell’altra. Ma quel rapporto è sotto i nostri occhi. Mentre imperversano denigrazione e criminalizzazione delle Ong impegnate a salvare decine di migliaia di profughi altrimenti condannati a una morte orrenda, martedì 8 a Bologna sono stati sgomberati con violenza due centri sociali con alle spalle straordinarie pratiche di supporto alla vita sociale dei rispettivi quartieri: attività culturali autogestite, nido per i bambini, scuole di italiano, feste di quartiere, orto urbano, mercatino, accoglienza dei profughi in forme civili e solidali che li hanno fatti accettare e apprezzare da tutto il vicinato, mensa popolare, impegno politico, responsabilità amministrative, ecc.
Quegli sgomberi sono i più recenti episodi, ma non saranno gli ultimi, di una campagna di desertificazione culturale e sociale perseguita con pervicacia da partiti, magistratura, polizia, amministrazioni locali e speculazione edilizia, con cui in tante città si stanno chiudendo decine e decine di punti di ritrovo – cinema, teatri, palestre, ricoveri, mense, centri artistici, laboratori e altro – animati da giovani e meno giovani impegnati a dare corpo alle basi della convivenza: che è incontro, confronto, solidarietà, impegno, sicurezza, autonomia personale conquistata attraverso attività condivise: una scintilla di vita nell’oceano dell’omologazione imposta da consumismo, carrierismo, competizione, pubblicità e media di regime; ma anche, e soprattutto, da precarietà, sfruttamento, insicurezza, disperazione e solitudine. Quegli sgomberi vengono tutti effettuati in nome della «legalità»: cioè della proprietà privata; anche quando, come nel caso del Labas di Bologna, ma non è il solo, la proprietà è sì privata, ma il proprietario è pubblico; e vuole far cassa con la speculazione su edifici occupati da chi ne ha fatto uno strumento di lotta contro il degrado di città e quartieri.
Quella desertificazione sociale e culturale è portata avanti da quasi tutte le forze politiche; i 5 Stelle non hanno esitato nemmeno a cacciare dalla sua sede storica il Forum dell’acqua che tanto aveva concorso al loro immeritato successo. Allo stesso modo vengono avvolti nel silenzio, e poi denigrati, tanti movimenti che si formano spontaneamente. Il messaggio è chiaro: riunirsi ed esprimersi in autonomia è un crimine: si fa di tutto per impedirlo. Ma una città senza socialità trasforma gli uomini in cose e i suoi abitanti perdono capacità e voglia di mettersi nei panni degli altri, che è la base della solidarietà.
E’ in questo brodo di coltura che matura quel trionfo dell’inumano di cui solo ora, di fronte alla persecuzione delle Ong che salvano i naufraghi, qualcuno – persino Repubblica e una parte dei 5stelle – comincia ad accorgersi. È tre anni e più che tutti i teleschermi e le prime pagine dei giornali sono occupate giorno e notte in modo spudorato dalle infamie razziste di un Salvini e dei suoi sodali a 5 stelle. Per una ragione precisa: far passare Matteo Renzi come l’unico baluardo contro il dilagare delle destre. E ora se ne vedono i risultati, con Renzi completamente risucchiato da Salvini e da quel «aiutiamoli a casa loro» che vuol solo dire «facciamoli morire lontano da qui». Una strada peraltro percorsa da quasi tutte le maggioranze di governo europee (e anche da molte delle loro opposizioni) che sta facendoci precipitare in una notte nera che l’Europa ha già conosciuto e che l’Europa unita avrebbe dovuto evitare che si ripetesse. Per questo va rifondata alle radici: con un nuovo «manifesto di Ventotene» che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità. 

(il manifesto, 15 agosto 2017)

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Con le Ong contro il Codice Minniti

Riporto da il manifesto di oggi:

Con le Ong contro il Codice Minniti
L’appello. Solidarietà a Medici senza Frontiere e a tutte le Ong impegnate nel Mediterraneo
Noi sottoscritti esprimiamo pubblicamente una incondizionata solidarietà a Medici senza Frontiere e a tutte le Ong impegnate nel Mediterraneo a salvare la vita dei disperati che fuggono da guerre e miseria in gran parte provocate dai Paesi ricchi che oggi li vogliono respingere.
Esprimiamo inoltre una critica radicale al Codice Minniti che riteniamo sia il Manifesto della diserzione dell’Italia e dell’Europa da ogni etica umanitaria.
Piero  Bevilacqua, Tomaso Montanari (Presidente di Libertà e Giustizia), Ilaria  Agostini , Enzo Scandurra, Andrea Ranieri, Laura  Marcreati, Ignazio Masulli, Tonino Perna, Tiziana Drago, Giuseppe Aragno, Lucinia Speciale, Piero Di Siena, Franco Trane, Luigi Vavalà, Mario Fiorentini, Giovanni Attili, Francesco Santopolo, Laura Marchetti, Renato Accorinti (Sindaco di Messina), Maurizio Zavaglia (Presidente Consiglio comunale di Gioiosa Jonica), Vittorio Boarini, Maria Pia Guermandi, Alessandro Bianchi, Piero Caprari, Francesca Leder, Cristina Lavinio, Stefano Sylos Labini, Carmelo Buscema, Giorgio Nebbia, Rossano Pazzagli, Antonella Golino, Lidia Decandia, Velio Abati, Bia Sarasini, Ugo Olivieri, Giuseppe Saponaro, Daniele Vannetiello, Alessandro Giangrande, Luisa Marchini, Amalia Collisani, Ginevra Virginia Lombardi, Vezio De Lucia, Sandra Bonsanti, Nadia Urbinati, Maria Luisa Boccia.
Per aderire all’appello inviare la firma a officina-dei-saperi@googlegroups.com
il manifesto, 10 agosto 2017
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Noi che veniamo dopo Auschwitz e che stiamo per tornarci

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Migranti, chi infligge colpi mortali al codice morale
di Marco Revelli
Ong. Non era ancora accaduto, nel lungo dopoguerra almeno, in Europa e nel mondo cosiddetto «civile», che la solidarietà, il salvataggio di vite umane, l’«umanità» come pratica individuale e collettiva, fossero stigmatizzati, circondati di diffidenza, scoraggiati e puniti
Negli ultimi giorni qualcosa di spaventosamente grave è accaduto, nella calura di mezza estate. Senza trovare quasi resistenza, con la forza inerte dell’apparente normalità, la dimensione dell’«inumano» è entrata nel nostro orizzonte, l’ha contaminato e occupato facendosi logica politica e linguaggio mediatico. E per questa via ha inferto un colpo mortale al nostro senso morale.
L’«inumano», è bene chiarirlo, non è la mera dimensione ferina della natura contrapposta all’acculturata condizione umana. Non è il «mostruoso» che appare a prima vista estraneo all’uomo. Al contrario è un atteggiamento propriamente umano: l’«inumano» – come ha scritto Carlo Galli – «è piuttosto il presentarsi attuale della possibilità che l’uomo sia nulla per l’altro uomo».
Che l’Altro sia ridotto a Cosa, indifferente, sacrificabile, o semplicemente ignorabile. Che la vita dell’altro sia destituita di valore primario e ridotta a oggetto di calcolo. Ed è esattamente quanto, sotto gli occhi di tutti, hanno fatto il nostro governo – in primis il suo ministro di polizia Marco Minniti – e la maggior parte dei nostri commentatori politici, in prima pagina e a reti unificate.
Cos’è se non questo – se non, appunto, trionfo dell’inumano – la campagna di ostilità e diffidenza mossa contro le Ong, unici soggetti all’opera nel tentativo prioritario di salvare vite umane, e per questo messe sotto accusa da un’occhiuta «ragion di stato». O la sconnessa, improvvisata, azione diplomatica e militare dispiegata nel caos libico con l’obiettivo di mobilitare ogni forza, anche le peggiori, per tentare di arrestare la fiumana disperata della nuda vita, anche a costo di consegnarla agli stupratori, ai torturatori, ai miliziani senza scrupoli che non si differenziano in nulla dagli scafisti e dai mercanti di uomini, o di respingerla a morire nel deserto.
Qui non c’è, come suggeriscono le finte anime belle dei media mainstream (e non solo, penso all’ultimo Travaglio) e dei Gabinetti governativi o d’opposizione, la volontà di ricondurre sotto la sovranità della Legge l’anarchismo incontrollato delle organizzazioni umanitarie. Non è questo lo spirito del famigerato «Codice Minniti» imposto come condizione di operatività in violazione delle antiche, tradizionali Leggi del mare (il trasbordo) e della più genuina etica umanitaria (si pensi al rifiuto di presenze armate a bordo). O il senso dell’invio nel porto di Tripoli delle nostre navi militari.
Qui c’è la volontà, neppur tanto nascosta, di fermare il flusso, costi quel che costi. Di chiudere quei fragili «corridoi umanitari» che in qualche modo le navi di Medici senza frontiere e delle altre organizzazioni tenevano aperti. Di imporre a tutti la logica di Frontex, che non è quella della ricerca e soccorso, ma del respingimento (e il nome dice tutto).
Di fare, con gli strumenti degli Stati e dell’informazione scorretta, quanto fanno gli estremisti di destra di Defend Europe, non a caso proposti come i migliori alleati dei nuovi inquisitori. Di spostare più a sud, nella sabbia del deserto anziché nelle acque del Mare nostrum, lo spettacolo perturbante della morte di massa e il simbolo corporeo dell’Umanità sacrificata.
Non era ancora accaduto, nel lungo dopoguerra almeno, in Europa e nel mondo cosiddetto «civile», che la solidarietà, il salvataggio di vite umane, l’«umanità» come pratica individuale e collettiva, fossero stigmatizzati, circondati di diffidenza, scoraggiati e puniti.
Non si era mai sentita finora un’espressione come «estremismo umanitario», usata in senso spregiativo, come arma contundente. O la formula «crimine umanitario». E nessuno avrebbe probabilmente osato irridere a chi «ideologicamente persegue il solo scopo di salvare vite», quasi fosse al contrario encomiabile chi «pragmaticamente» sacrifica quello scopo ad altre ragioni, più o meno confessabili (un pugno di voti? un effimero consenso? il mantenimento del potere nelle proprie mani?)
A caldo, quando le prime avvisaglie della campagna politica e mediatica si erano manifestate, mi ero annotato una frase di George Steiner, scritta nel ’66. Diceva: «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Aggiungevo: Anche noi «veniamo dopo». 
Dopo quel dopo. Noi oggi sappiamo che un uomo può aver letto Marx e Primo Levi, orecchiato Marcuse e i Francofortesi, militato nel partito che faceva dell’emancipazione dell’Umanità la propria bandiera, esserne diventato un alto dirigente, e tuttavia, in un ufficio climatizzato del proprio ministero firmare la condanna a morte per migliaia di poveri del mondo, senza fare una piega. La cosa può essere sembrata eccessiva a qualcuno. E il paragone fuori luogo. Ma non mi pento di averlo pensato e di averlo scritto.
Consapevole o meno di ciò che fa, chi si fa tramite dell’irrompere del disumano nel nostro mondo è giusto che sia consapevole della gravità di ciò che compie. Della lacerazione etica prima che politica che produce. Se l’inumano – è ancora Galli a scriverlo – «è il lacerarsi catastrofico della trama etica e logica dell’umano», allora chi a quella rottura contribuisce, quale che sia l’intenzione che lo muove, quale che sia la bandiera politica sotto cui si pone, ne deve portare, appieno, la responsabilità. Così come chi a quella lacerazione intende opporsi non può non schierarsi, e dire da che parte sta. Io sto con chi salva.
(il manifesto, 8 agosto 2017)
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Ong, in difesa dei giusti
di Guido Viale
Migranti. A chi cerca di sottrarre i profughi a un destino di sofferenza e morte andrebbe riconosciuto il titolo di “Giusti”. Invece vengono trattati come criminali, sempre più spesso con un linguaggio che tratta le persone salvate e da salvare come ingombri, intrusi, parassiti e invasori da buttare a mare
Coloro che dalle coste della Libia si imbarcano su un gommone o una carretta del mare sono esseri umani in fuga da un paese dove per mesi o anni sono stati imprigionati in condizioni disumane, violati, comprati e venduti, torturati per estorcere riscatti dalle loro famiglie, aggrediti da scabbia e malattie; e dove hanno rischiato fino all’ultimo istante di venir uccisi. Molti di loro non hanno mai visto il mare e non hanno idea di che cosa li aspetti, ma sanno benissimo che in quel viaggio stanno rischiando ancora una volta la vita.
Chi fugge da un paese del genere avrebbe diritto alla protezione internazionale garantita dalla convenzione di Ginevra, ma solo se è «cittadino» di quel paese. Quei profughi non lo sono; sono arrivati lì da altre terre. Ma fermarli in mare e riportarli in Libia è un vero e proprio respingimento (refoulement, proibito dalla convenzione di Ginevra) di persone perseguitate, anche se materialmente a farlo è la Guardia costiera libica. Una volta riportati in Libia verranno di nuovo imprigionati in una delle galere da cui sono appena usciti, subiranno le stesse torture, gli stessi ricatti, le stesse violenze, le stesse rapine a cui avevano appena cercato di sfuggire, fino a che non riusciranno a riprendere la via del mare.
Alle Ong che cercano di sottrarre quei profughi a un simile destino di sofferenza e morte andrebbe riconosciuto il titolo di “Giusti” come si è fatto per coloro che ai tempi del nazismo si sono adoperati per salvare degli ebrei dallo sterminio. Invece, ora come allora, vengono trattati come criminali: dai Governi, da molte forze politiche, dalla magistratura, dai media e da una parte crescente dell’opinione pubblica (i social!); sempre più spesso con un linguaggio che tratta le persone salvate e da salvare come ingombri, intrusi, parassiti e invasori da buttare a mare.
Non ci si rende più conto che sono esseri umani: disumanizzare le persone come fossero cose o pidocchi è un percorso verso il razzismo e le sue conseguenze più spietate. Come quello che ha preceduto lo sterminio nazista. Nessuno prova a mettersi nei panni di queste persone in fuga, per le quali gli scafisti che li sfruttano in modo cinico e feroce sono speranza di salvezza, l’ultima risorsa per sottrarsi a violenze e soprusi indicibili.
La lotta agli scafisti indetta dal governo italiano e dall’Unione Europea è in realtà una guerra camuffata contro i profughi, contro degli esseri umani braccati. Ed è una guerra che moltiplica il numero e i guadagni di scafisti, autorità libiche corrotte e terroristi: unica alternativa ai canali di immigrazione legale che l’Europa ha chiuso fingendo di proteggere i propri cittadini.
Da tempo le imbarcazioni su cui vengono fatti salire i profughi non sono più in grado di raggiungere l’Italia: sono destinate ad affondare con il loro carico. Ma gli scafisti certo non se ne preoccupano: il viaggio è già stato pagato, e se il «carico» viene riportato in Libia, prima o dopo verrà pagato una seconda e una terza volta. In queste condizioni, non c’è bisogno che un gommone si sgonfi o che una carretta imbarchi acqua per renderne obbligatorio il salvataggio, anche in acque libiche: quegli esseri umani violati e derubati sono naufraghi fin dal momento in cui salpano e, se non si vuole farli annegare, vanno salvati appena possibile.
Gran parte di quei salvataggi è affidata alle Ong, perché le navi di Frontex e della marina italiana restano nelle retrovie per evitare di dover intervenire in base alla legge del mare; ma gli esseri umani che vengono raccolti in mare da alcune navi delle Ong devono essere trasbordati al più presto su un mezzo più capiente, più sicuro e più veloce; altrimenti le navi che eseguono il soccorso rischiano di affondare per eccesso di carico, oppure non riescono a raccogliere tutte le persone che sono in mare o, ancora, impiegherebbero giorni e giorni per raggiungere un porto, lasciando scoperto il campo di intervento.
Vietare i trasbordi è un delitto come lo è ingiungere alle Ong di imbarcare agenti armati: farlo impedirebbe alle organizzazioni impegnate in interventi in zone di guerra di respingere pretese analoghe delle parti in conflitto, facendo venir meno la neutralità che permette loro di operare. Né le Ong possono occuparsi delle barche abbandonate, soprattutto in presenza di uomini armati fino ai denti venuti a riprendersele. Solo i mezzi militari di Frontex potrebbero farlo: distruggendo altrettante speranze di chi aspetta ancora di imbarcarsi.
I problemi continuano quando queste persone vengono sbarcate: l’Unione europea appoggia la guerra ai profughi, ma poi se ne lava le mani. Sono problemi dell’Italia; la «selezione» tra sommersi e salvati se la veda lei… I rimpatri, oltre che crudeli e spesso illegali, sono per lo più infattibili e molto costosi.
Così, dopo la selezione, quell’umanità dolente si accumula in Italia, divisa tra clandestinità, lavoro nero, prostituzione e criminalità: quanto basta a mettere ko la vita politica e sociale di tutto paese. Ma cercare di fermare i profughi ai confini settentrionali o a quelli meridionali della Libia accresce solo il numero dei morti.
Dobbiamo guardare in avanti, accogliere in tutta Europa come fratelli coloro che cercano da lei la loro salvezza; adoperarci per creare un grande movimento europeo che lavori e lotti per riportare la pace nei loro paesi (non lo faranno certo i governi impegnati in quelle guerre) e perché i profughi che sono tra noi possano farsi promotori della bonifica ambientale e sociale delle loro terre (non lo faranno certo le multinazionali impegnate nel loro saccheggio).
L’alternativa è una notte buia che l’Europa ha già conosciuto e in cui sta per ricadere.
(il manifesto, 6 agosto 2017)

 

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La lotta ecologica ai tempi di Trump

Giorgio Nebbia è il decano degli ambientalisti italiani e ogni suo intervento va letto molto attentamente. Ne riproduco qui l’ultimo pubblicato sul Manifesto del 29 giugno 2017. (Come al solito i segni di lettura sono miei.)

Chiamata alle armi per una nuova contestazione ecologica
di Giorgio Nebbia

Inquinatori e inquinati. I movimenti ambientalisti si sono appiattiti su valori e «leggi» dell’economia globalizzata. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi… Poi Trump con le sue politiche ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati.
Col suo brutale discorso del 1° giugno di quest’anno il presidente Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti non intendono più aderire agli impegni presi dal suo predecessore a Parigi nel dicembre 2015 sulle azioni per attenuare le cause dei cambiamenti climatici. Tali azioni, secondo Trump, limiterebbero certe attività importanti per l’economia e i lavoratori del suo paese (l’uso del carbone come combustibile), faciliterebbero le importazioni di autoveicoli meno inquinanti con danno per l’industria automobilistica americana e imporrebbero ai consumatori americani maggiori costi per merci alternative e maggiori tasse per risarcimenti finanziari ai paesi danneggiati.
Come è ben noto, i cambiamenti climatici sono dovuti a varie cause, tutte di carattere economico e merceologico, distribuite diversamente fra i vari paesi, come sono distribuiti diversamente i danni e i relativi costi.  La principale causa è costituita dalla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera per la crescente immissione di «gas serra»: anidride carbonica proveniente dalla combustione dei combustibili fossili (in ordine decrescente di danno, carbone, prodotti petroliferi, gas naturale), metano proveniente dall’estrazione e trasporto del gas naturale e dalla zootecnia intensiva, e alcuni altri.
In secondo luogo i cambiamenti climatici sono dovuti al taglio delle foreste praticato per «liberare» nuovi spazi da dedicare all’agricoltura e all’estrazione di minerali, soprattutto per ricavarne merci destinate all’esportazione, e alle modificazioni della struttura del suolo a causa delle coltivazioni intensive che assicurano maggiori profitti agli agricoltori e per l’espansione degli spazi urbanizzati.
I soggetti coinvolti sono approssimativamente due: gli inquinatori, soprattutto i paesi industriali tradizionali o di nuova industrializzazione (diciamo i ricchi), e gli inquinati, diciamo i poveri, quelli che sono esposti alla siccità, alla desertificazione, e, d’altra parte, ad alluvioni e allagamenti. Con varie contraddizioni: sono danneggiati anche i paesi inquinatori (le alluvioni e la siccità colpiscono anche Europa, Stati Uniti e Cina, importanti inquinatori) e d’altra parte anche i paesi poveri, che subiscono maggiormente le conseguenze dei mutamenti climatici, ne sono anch’essi responsabili in parte, soprattutto per la distruzione delle foreste o le attività minerarie.
Gli accordi di Parigi, come è noto, vincolano i paesi inquinatori a limitare le attività responsabili dei mutamenti climatici (usare meno combustibili fossili, soprattutto carbone, ricorrere a energie rinnovabili, produrre merci, soprattutto autoveicoli, che inquinano meno a parità di servizio, per esempio di chilometri percorsi), e a risarcire i paesi poveri che subiscono maggiormente i danni dei mutamenti climatici.
Il più comune strumento è una imposta, pagata dagli inquinatori in proporzione alla quantità di gas serra emessi, destinata ad azioni di rimboschimento, ad aiuti ai popoli alluvionati o resi sterili dalla siccità. Meccanismi da regolare con accordi commerciali – si tratta di un vero e proprio commercio del diritto di inquinare, una specie di commercio delle indulgenze – abbastanza complicati.
Per farla breve, si tratta di soldi che gli inquinatori devono tirare fuori, con tasse e perdita di posti di lavoro e modificazioni dei consumi — cose sgradevolissime per la società globalizzata basata sulla legge fondamentale del capitalismo: la crescita del prodotto interno lordo, alla quale devono ubbidire i governanti per compiacere gli elettori che pensano ai soldi e agli affari.
Si capisce bene, quindi, perché il presidente Trump, con la sua abituale brutalità, ha detto che lui «deve» pensare agli interessi dei lavoratori, dei cittadini e dei finanzieri americani e non al futuro del pianeta Terra e alla sorte dei paesi desertificati o alluvionati. A dire la verità, probabilmente tutti i paesi industriali inquinatori pensano la stessa cosa pur dichiarando a gran voce la fedeltà agli accordi di Parigi. In un certo senso coloro a cui stesse a cuore davvero il futuro del pianeta dovrebbero essere riconoscenti a Trump per aver ricordato con chiarezza i veri caratteri dei rapporti fra natura, società ed economia.
Ai tempi dei primi movimenti di contestazione «ecologica», all’inizio degli anni settanta, nel nome dell’ecologia sembrava possibile fermare lo sfruttamento della natura, rallentare i consumi superflui e i relativi sprechi e rifiuti, attenuare le disuguaglianze fra ricchi e poveri. Poi, col passare degli anni, i movimenti ambientalisti si sono appiattiti sui valori e le «leggi» dell’economia globalizzata. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi, sostenibili, sono diventati sostenitori delle merci biocompatibili, delle fonti di energia rinnovabili (solare e eolico), in realtà occasioni di nuovi affari e commerci.
Trump ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati e la loro soluzione – e la salvezza del pianeta – sono ottenibili soltanto recuperando la voglia di lottare per superare il capitalismo, per una maggiore giustizia sociale, premessa anche per la liberazione dalla violenza fra le persone, i paesi, le generazioni – oltre che verso la natura.
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Con gli occhiali di Gramsci, ottant’anni dopo

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Il 27 aprile 1937, ottant’anni fa, moriva Antonio Gramsci. Ne aveva solo quarantasei essendo nato ad Ales, nel cuore della Sardegna, il 22 gennaio 1891. Moriva nella romana clinica Quisisiana in seguito ad un’emorragia celebrale avuta il 25, il giorno in cui gli veniva comunicata la fine della libertà vigilata. Così, uno dei paradossi della sua vicenda umana è che è morto libero.

Ricordarlo qui adeguatamente o sintetizzare qualche segmento della sua vita, della sua attività intellettuale e politica, dello stato attuale del suo pensiero, sarebbe solo un esercizio pretenzioso e riduttivo. Credo sia ancora utile a qualche mio possibile lettore sapere come avvicinare il pensiero di Gramsci, apparentemente così lontano ma in realtà assai vicino.

Segnalo anzitutto alcuni siti particolarmente interessanti (da notare che gli scritti carcerari, lettere e quaderni, sono integralmente leggibili su internet):

Casa Museo di Antonio Gramsci
Fondazione Gramsci
International Gramsci Society (IGS)
IGS Italia
Lettere dal carcere
Quaderni del carcere
Edizione nazionale delle opere
Gramsci Project
Gianni Fresu

Poi indico alcuni dei testi più recenti (* indica la mia preferenza):

Aspetti biografici
d’Orsi A., Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano 2017.*
Fabre G., Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, Sellerio, Palermo 2015.
Ghetti N., La cartolina di Gramsci. A Mosca, tra politica e amori, 1922-1924, Donzelli, Roma 2016.
Giacomini R., Il giudice e il prigioniero. Il carcere di Antonio Gramsci, Castelvecchi, Roma 2014.
Gramsci A. jr., La storia di una famiglia rivoluzionaria. Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia, Editori Riuniti UP, Roma 2014.
Lunardelli M., E’ Gramsci, ragazzi. Breve storia dell’uomo che odiava gli indifferenti, Blu Edizioni, Torino 2017.
Paulesu L. M., Nino mi chiamo. Fantabiografia del piccolo Gramsci [fumetto e testi gramsciani], Feltrinelli, Milano 2012.*
Introduzioni
Cospito G., Introduzione a Gramsci, Il Melangolo, Genova 2015.*
Fusaro D., Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Feltrinelli, Milano 2015.
Santucci A.A., Antonio Gramsci 1891-1937, Sellerio, Palermo (20051) 2017.*
Stamboulis E., Costantini G., Cena con Gramsci [fumetto e glossario gramsciano], Becco Giallo, Padova 2012.
 Approfondimenti
Burgio A., Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi, Roma 2014.
Liguori G., Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, Editori Riuniti, Roma 2012.*
Prospero M., La scienza politica di Gramsci, Bordeaux, Roma 2016.
Rossi A., Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), Guida, Napoli 2014.
Vacca G., Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937, Einaudi, Torino 2012.*
Vacca G., Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 2017.

In particolare, per chi volesse approcciare Gramsci segnalo Paulesu (che è nipote di Teresina, sorella di Nino, se non dispiace l’uso anche parziale del fumetto) e d’Orsi (fresco di stampa, ma frutto di un lungo percorso, su cui spero di tornarci presto). Mentre sintesi classica rimane Santucci (prima edizione 20o5, ma appena ripubblicata). Chi vuole scavare subito a fondo trova tante indicazioni e possibilità di collegamenti nel costante Liguori (praticamente tutto il dibattito storico su Gramsci), in Vacca 2012 (la somma di decenni di ricerche sul periodo carcerario) e in Cospito (un piccolo manuale, ma denso e completo). Vi lascio invece liberi di scegliere un’edizione delle Lettere dal carcere, ma da portare sempre dietro.

Io credo che oltre ai fatti che ha vissuto e alle cose che ha scritto, Antonio Gramsci, cioè Nino, abbia ancora qualcosa da dirci sul modo di vedere il mondo e la vita. Certo i suoi occhiali sono un po’ difficili da mettere, ma non ne ho trovati di migliori in questi miei ultimi cinquant’anni.

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Graziano Gozzo (1953-2017)

Alla vigilia di Pasqua, mentre stavamo preparandoci a godere la festa più bella dell’anno, è scomparso il nostro concittadino Graziano Gozzo. L’ha fatto a modo suo, silenziosamente. Mercoledì però l’abbiamo salutato in tanti, laicamente, nel cimitero della sua Concordia, a dimostrazione che il suo rapporto con la gente era vasto e radicato. Nel commiato è stato ben ricordato il suo forte legame con la famiglia e il suo lungo ed appassionato passato di musicista, un vero leader di band locali, una faccia che non ho conosciuto.

Perché io tutto sommato lo conoscevo poco, anche se lo vedevo praticamente tutti i giorni. Il suo laboratorio e negozio in via Cavour è quasi all’angolo con calle Pescatori, dove abito, ed era normale incrociarlo e salutarlo davanti il negozio o attraverso la porta aperta, almeno una volta al giorno. Era, almeno con me, di poche parole, ma queste avevano dentro sempre qualcosa di non banale e sopra, sovente, una risatina. Ma io non sono un appassionato di pittura, conosco alcuni pittori storici più per il valore culturale delle loro opere che per curiosità tecnica e non seguivo il suo lavoro. Però, mettendo insieme in questi giorni le caratteristiche a me note di Graziano, ho capito che la sobrietà e lo spirito gentile in lui erano fusi con la creatività ed il rigore. Sì, rigore, perché era un artista che non faceva qualcosa solo per vendere e lo faceva con un atteggiamento che definirei filologico. E anche fisicamente era più rinascimentale che postmoderno.

Basta guardare sul suo sito, così bello e così efficace nel descriverne le sue attività, da cui emergono i due prodotti delle sue mani: i modelli di barche veneziane ed i ritratti di cani. Se i primi ci testimoniano il rigore analitico e l’esecutiva precisione tecnica, i secondi forse ci danno l’idea della straordinaria empatia che Graziano aveva con questi animali. Le sue infatti non erano fotografie, ma ritratti, quei dipinti con cui si colgono i tratti non solo esteriori e superficiali di una personalità.

Così, pensandoci bene in queste ore, ho capito che Graziano semplicemente vedeva cose che non tutti vediamo e ci rideva sopra, perché era un vero artista, ma spiritoso e sobrio, non volgare e gaudente come tanta parte dei suoi sedicenti colleghi. E a me, per quanto conta, la sua scomparsa lascia un buco fisico, perché condivido con lui il fatto che mi devo accontentare della sua memoria e di rivederlo, sì, ma solo nella mia mente.

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La storia si ripete sempre

A me pare che sulla vicenda politica personale di Matteo Renzi, ma che ha coinvolto e coinvolge ancora tanti convinti italiani, si sia scritto ancora poco, troppo poco. Si, sono usciti anche alcuni libri o libretti, ma il giudizio è ancora legato all’attualità ed all’opportunità politica. Così fior di giornalisti, ma legati a testate o cordate troppo esposte per essere anche libere, scrivono a denti stretti. Mentre in tv, nonostante anche le tristi vicende giudiziarie che coinvolgono gli appartenenti al cosiddetto “giglio magico”, ovvero il cerchio magico fiorentino, siamo naturalmente ancora dentro l’organizzazione gerarchica appena sistemata dal vecchio governo, quindi del tutto incapace di libertà giornalistica.

Per leggere qualcosa di veramente duro o salace bisogna frequentare il Fatto Quotidiano, a partire dai commenti del direttore Marco Travaglio, e qualcosa di veramente intelligente il manifesto. Perciò riproduco volentieri l’articolo di Piero Bevilacqua pubblicato oggi su quello che si definisce ancora “quotidiano comunista”, un’espressione molto sintetica per dire che lì si pensa e si scrive in totale libertà da qualsiasi centro di potere.

Mi permetto solo di ricordare che il riferimento alla storia che si ripete ma come farsa è di Marx che cita Hegel nell’occasione: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.” (incipit de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852). (Grassetto ed evidenziazioni sono miei.)

Il trasformista replica grottesca della storia
di Piero Bevilacqua
Partito democratico. Renzi inaugura il patto del Nazareno ma Berlusconi non è Minghetti o i fratelli Spaventa. Divorata ogni ragione ideale tra il partito e il suo popolo
Più si osserva in prospettiva l’esperienza politica di Matteo Renzi, la vicenda del suo governo e l’evoluzione del Partito democratico in questi ultimi tre anni, più diventa forte l’impressione di assistere ad un hegeliano ripetersi della storia in forma di farsa, una vicenda con caratteri grotteschi.
Una vicenda grottesca ma che non costituisce il calco caricaturale di una esperienza recente, quanto la replica deformata di vicende anche ottocentesche della politica italiana. Era giusto infatti, ma solo alla lontana, qualche anno fa, parlare di trasformismo o di costume trasformistico nel quasi ventennio dei governi di Berlusconi, quando non pochi parlamentari attraversavano disinvoltamente i diversi schieramenti e si posizionavano a seconda della convenienza del momento. Ma non era propriamente quello il fenomeno storico designato nei manuali con tale nome.
Il trasformismo nasce nel lontano 1876, per iniziativa di Agostino Depretis, e non si esaurisce nella pratica delle trasmigrazioni di schieramento da parte di singoli parlamentari. Esso era, ben diversamente, un modulo di governo. Giunta al potere, infatti, la Sinistra storica emarginò la sua ala cosiddetta “Estrema” – vale a dire i propugnatori di programmi riformatori più radicali – e si alleò con la Destra liberale, governando per un decennio con una politica di centro e dando un colpo rilevante all’etica politica e all’immagine pubblica dell’istituzione parlamentare.
Sui vari provvedimenti del governo, infatti, Sinistra e Destra convergevano armonicamente. Maggioranza e opposizione divennero indistinguibili. Dunque, il trasformismo del nostro tempo è, propriamente, quello inaugurato da Renzi, con il patto del Nazareno, vale a dire un’alleanza informale di governo con il precedente avversario. Sennonché Silvio Berlusconi non è Marco Minghetti o i fratelli Spaventa, ma il capo di un partito-azienda, condannato in via definitiva da un tribunale della Repubblica, dunque un pregiudicato, un leader portatore di un gigantesco conflitto di interessi mai risolto, un uomo che aveva manomesso Parlamento ed esecutivo per i propri privati interessi, che aveva dato di sé, all’opinione pubblica mondiale, un’immagine offensiva della nostra dignità nazionale.
Quando un partito, com’è accaduto al Pd di Renzi, finisce con l’allearsi con l’avversario politico di un ventennio, per perseguire peraltro scopi politici controversi, il colpo di natura piscologica e morale subìto da elettori e militanti risulta particolarmente severo. In questo caso una lunga stagione della vita, venti anni dei sentimenti e delle passioni di milioni di persone, vengono rovesciati e contraddetti di colpo dall’iniziativa politica decisa di un uomo solo. È davvero difficile pensare che una simile scelta potesse essere perseguita senza conseguenze anche gravi sul popolo che stava dietro le insegne di quel partito.
I partiti e in primissimo luogo quelli di sinistra, erano (e sono in parte ancora) formazioni di forte identità, luogo di sentimenti oltre che di idee e interessi, terreno di idealità e di generoso volontariato. La dissoluzione di queste fedi, di questi collanti sentimentali, per quanto usurati rispetto ai precedenti decenni d’oro, ha divorato ogni ragione di condivisione ideale tra la grande massa di popolo che si identificava in quel partito.
Nel novero delle repliche del passato andrebbe oggi anche posta l’idea del Partito della nazione che Renzi intendeva perseguire con la combinazione della riforma della Costituzione e l’Italicum. Una formazione che, per almeno un decennio, sarebbe diventato il “Partito unico della nazione”, se gli italiani non l’avessero bocciato nelle urne. Una replica funesta della storia, anche se in un contesto profondamente mutato, fortunatamente abortita.
Ed ecco l’ultimo grottesco ripescaggio, in nuove forme, di comportamenti politici dai bassifondi della vita civile del nostro passato: la negazione della decadenza del senatore Minzolini da parte di molti senatori del Pd. Grazie anche a costoro, il Parlamento ha violato una legge dello stato. Anche in questo caso abbiamo assistito a un episodio che Gramsci avrebbe definito di «sovversivismo delle classi dirigenti», una delle tante forme di violazione dello stato di diritto che i ceti dominanti italiani hanno messo in atto lungo la nostra storia unitaria.
Per questo gli episodi di tesseramento selvaggio al Pd, in varie città italiane, segnalati dalla stampa negli ultimi giorni, non deve sorprendere più di tanto. Lo svuotamento etico-politico di questo partito è ormai completo. Ed esso si presenta quale drammatica testimonianza di una esperienza fallimentare e insieme insegnamento ineludibile per il futuro. Non si può far commercio dei sentimenti e degli ideali delle persone, senza pagare conseguenze, talora anche gravi e definitive. La realpolitik, di cui, nella sinistra, è stato maestro Giorgio Napolitano, può anche conseguire successi momentanei, ma alla lunga può risultare rovinosa. È diventa rovinosa nel caso di Renzi, perché al capovolgimento del sentire comune di tanta parte del popolo del Pd, è anche corrisposto un suo definitivo distacco dalla rappresentanza degli interessi della classe operaia e dai ceti popolari.
il manifesto, 28 marzo 2017
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