Il gesuita che ci mancava

Primi cento giorni di governo Monti e intere pagine dei giornali nuovamente dedicate ad aspetti personali del leader e dei suoi ministri.

Sulle idee di Mario Monti non ci sono certo misteri. C’è anche un’intera rassegna storica nell’archivio del Corriere della Sera che ospita ben 72 articoli pubblicati dal 1992 alla vigilia dell’insediamento a Palazzo Chigi. Si conoscono meno le caratteristiche personali, psicologiche e morali, umane, ma da un articolo di Fabio Martini su La Stampa di oggi abbiamo notizia di un tratto fondamentale dello stile del capo del governo.

(…) è stato il cancelliere Gerhard Schroeder, spossato da un lungo negoziato, a cogliere da dove venissero quelle caratteristiche: «Lei ha studiato dai Gesuiti? Sì? Ecco perché argomenta, argomenta, argomenta e non concede mai niente». Ha chiosato Monti: «Quelle capacità le avevo apprese dai gesuiti del Leone XIII di Milano dove ho studiato dieci anni». Proprio in quegli anni si impartivano agli alunni quelle regole della modestia, che sembrano ritrovarsi in Monti. La prima regola, «in tutte le azioni esteriori si veda modestia e umiltà», ma anche la seconda: «Il capo si volti leggermente in qua in là, ma con gravità».

Della biografia di Monti, piuttosto monotona rispetto al suo predecessore, questo è forse uno degli aspetti più vivaci. Su questo in questi mesi non sono mancati i malevoli, ma la questione va vista dal lato migliore: abbiamo conferma con chi abbiamo a che fare, un gesuita.

Per chi non avesse dimestichezza con questa compagnia di cristiani, segnalo il sito dei Gesuiti, molto bello. Anzi consiglio subito la pagina sull’umorismo, anche se il nostro non mi pare ne sia molto attrezzato. E vi anticipo una barzelletta, ma ce ne sono di tutti i tipi.

Si racconta che quando Dio creò il mondo, affinché gli ordini religiosi prosperassero decise di concedere loro due virtù ciascuno. E così fece: I Legionari di Cristo li fece ordinati e rispettosi delle leggi. I Domenicani perseveranti e studiosi. Quelli dell’Opus Dei lavoratori e pazienti. I Benedettini colti e raffinati. I Francescani allegri e accoglienti. Quando arrivò ai Gesuiti si rivolse all’Angelo che prendeva nota e gli disse: “I Gesuiti saranno intelligenti, onesti e di sinistra!”
Quando terminò con la creazione, l’Angelo gli disse: “Signore, hai dato a tutti gli ordini due virtù, ma ai Gesuiti tre, questo farà sì che prevarranno su tutti gli altri”. “È vero! Ma le virtù divine non si possono più togliere: che i Gesuiti abbiano tre virtù! Però ogni persona non potrà averne più di due insieme”. Fu così che:
– Il Gesuita che è di sinistra ed onesto, non può essere intelligente.
– Il Gesuita che è intelligente e di sinistra, non può essere onesto.
– Il Gesuita che è intelligente ed onesto, non può essere di sinistra…
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“Un’idea di città”

A proposito di Piano di Assetto del Territorio (Pat), che a Portogruaro dovrebbe trovarsi ormai a buon punto, riportiamo alcune battute dell’intervista all’assessore all’Urbanistica di Milano, Ada Lucia De Cesaris, pubblicata oggi su la Repubblica Milano. (A Milano si chiama Piano di Governo del Territorio, Pgt.)

Qual è il disegno di città che viene fuori da questo Pgt?
«Questo Piano ha in sé un’idea di città in cui lo sviluppo non può coincidere con un’incondizionata crescita edilizia. Al centro di ogni trasformazione urbana deve esserci l’interesse collettivo, il miglioramento della qualità della vita».
Non teme l’opposizione dei costruttori?
«Parlare di indici in un momento di crisi del mercato non ha molto senso. Quello che il Pgt mette in gioco è la possibilità di costruire rispondendo alle effettive esigenze dell’abitare, di rimettere in comunicazione domanda e offerta reali».
A cosa si riferisce, all’housing sociale?
«Sicuramente la residenza sociale, in tutte le sue declinazioni, è la vera scommessa. Ma penso anche alla possibilità di realizzare trasformazioni che poi non rischino di morire ancora prima di essere terminate o che siano prive di collegamenti, parchi, strutture pubbliche».
Questo Pgt non è stato scritto ex novo dalla giunta. Qual è il cambiamento di cui è più orgogliosa e quale, invece, quello che non è riuscita a fare?
«Sicuramente questo non è il mio Piano. Ma sono molto contenta delle scelte fatte per il Parco Sud, di aver limitato una pioggia di volumetrie che difficilmente avremmo gestito. Attraverso la rilettura delle osservazioni, poi, abbiamo ridato, non in modo ideologico, una funzione alla regìa pubblica. So, invece, che tutta la parte relativa alla mobilità e alle infrastrutture è rimasta debole: dovremo occuparci quanto prima del Piano urbano della mobilità».
L’opposizione vi accusa di aver stravolto il Pgt.
«Non è stato stravolto. Abbiamo ascoltato la città, recepito i pareri dei vari enti, tenuto conto dell’esito dei referendum ambientali. Un Pgt è sempre la sintesi della proposta che fa un’amministrazione e delle osservazioni dei cittadini, che comportano inevitabilmente modifiche e aggiornamenti».
Crede che, economicamente, l’impianto stia in piedi?
«Per noi i conti tornano. Certo, a chi consuma un bene come il suolo chiediamo di partecipare alla costruzione della città pubblica con case di edilizia sociale, con servizi».
Teme ricorsi?
«Un ricorso non si nega a nessuno. Il vecchio Piano è stato impugnato ancora prima di essere pubblicato e, nella mia storia professionale di avvocato, non ho notizie di Pgt che non lo siano stati. L’importante è aver lavorato nel rispetto della legge».
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Ci vuole coraggio

Dopo aver letto l’intervista di Walter Veltroni su la Repubblica di oggi, ho avuto conferma che c’è più realismo e senso della prospettiva nel pensiero di Bersani, Samuele.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=hpJNQ96iiMY[/youtube]
Un pallone

Un pallone rubato
E’ dovuto passare
Dalla noia di un prato all’inglese
A un asfalto che Garibaldi a donare,
Dalle scarpe di Messi
Alle scarpe ignoranti,
A una rabbia calciata di che lo
Fa volare più in alto dei santi
Un pallone bloccato
Fra gli uccelli su un tetto
Finge di essere un uovo malato
In attesa soltanto di un colpo di becco
Per poter scivolare
E cadere dal bordo
Basterebbe una semplice pioggia però
Anche il cielo deve esser d’accordo
Ci vuole molto coraggio a rotolare giù in un contesto vigliacco che non si muove più
E a mantenere la calma adesso
Per non sentirsi un pallone perso
Ci vuole molto coraggio a ricercare la felicità in un miraggio che presto svanirà
E a mantenere la calma adesso
Per non sentirsi un pallone perso
Un pallone scappato
Sa rubare la scena
Alle ruote dei camion che in mezzo alla strada
Per caso lo sfiorano appena
Quando gli manca un metro
A una lunga discesa
Una scheggia di vetro lo ferma perché
E’ contraria alla libera impresa
Un pallone bucato
Non è più di nessuno
Anzi viene scansato da tutti i bambini
E lasciato a ingiallire nel fumo
Dei rifiuti bruciati
Sotti ai fuochi di agosto
Come se fosse giusto un destino così
Arrivando alla fine di un corso
Ci vuole molto coraggio a rotolare giù in un contesto vigliacco che non si muove più
E a mantenere la calma adesso
Per non sentirsi un pallone perso
Ci vuole molto coraggio a rimanere qui in un ambiente malato in cui è sempre lunedì
E a mantenere la calma adesso
Per non sentirsi un palllone perso
Ci vuole molto coraggio a rotolare giù in un contesto vigliacco che non si muove più
E a mantenere la calma adesso
Per non sentirsi un pallone perso
Ci vuole molto coraggio a ricercare la felicità in un miraggio che presto svanirà
E a mantenere la calma adesso
Per non sentirsi un pallone perso
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Uscire dall’insanity

Segnalo un nuovo articolo di Piero Bevilacqua (il manifesto, 14 febbraio 2012), uno degli intellettuali più lucidi, per me un costante punto di riferimento nella situazione attuale, italiana e storica in generale. Come al solito si trova anche su Eddyburg, il sito di Edoardo Salzano, oltre che sul suo sito Amigi, entrambi sempre linkati su questo blog. Ma preferisco riprodurlo integralmente, con qualche (chiedo venia) evidenziazione in grassetto.

Un reddito oltre il lavoro
Le gaffe di Monti e delle sue maldestre ministre sul lavoro e le “oziose attitudini” della nostra gioventù – sinistra forma di scherno su una tragedia sociale di proporzioni mai viste – hanno avuto da più parti la risposta che meritavano. Splendido, fra gli altri, M. Gotor su Repubblica del 7 febbraio. Val la pena, tuttavia, ricordare che i nostri uomini e donne di governo non compiono solo l’errore di scambiare la condizione privilegiata della propria famiglia con quella generale degli italiani. Non solo confondono la complessa realtà del nostro tempo con i manuali di economia studiati nella loro lontana giovinezza. Ma soprattutto non hanno nessuna idea delle forme inedite e socialmente distruttive che ha assunto il capitale nel nostro tempo. Ne è prova la caparbia insistenza con cui ripropongono come rimedio alla disoccupazione la ricetta che in parte ne è la causa: la flessibilità. Quasi 20 anni di flessibilità del lavoro, che ha prodotto, come mostrano i fatti, precarietà e crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, stagnazione economica, decadimento delle infrastrutture civili e dei servizi dell’intero paese. Ma per loro non basta e l’articolo 18 resta il totem arcaico da abbattere.
Dunque, siamo di fronte a un caso conclamato di quella che Einstein chiamava “insanity”, follia: «fare la stessa cosa e continuamente ripeterla e aspettarsi risultati diversi». Fa parte di tale insania – comprensibile in un epoca in cui la mente di tanti uomini è diventata un dispositivo tecnico per pensare un unico pensiero – l’idea che l’uscita dalla Grande Crisi in cui annaspiamo, ridarà al paese la piena occupazione perduta, sia pure in forme “cangianti” e flessibili. Basta riprendere la crescita – è questa la vulgata pubblicitaria in Italia e nel mondo – e tutto ritornerà più bello e più splendente che pria.
Tocca allora ricordare che questo, con assoluta certezza, non avverrà, perdurando l’attuale modello di accumulazione capitalistica. La certezza evidente nasce da una rapida ricognizione storica. Prima della Crisi, e a dispetto della crescita economica, la piena occupazione era sparita da un pezzo dalle società industriali. Il secolo scorso si era chiuso con 35 milioni di disoccupati nei paesi OCSE (8% delle forze di lavoro, 11% nell’Unione Europea). La crescita dell’occupazione che spesso, negli anni successivi, è stata vantata da governi e stampa benevola, è stato il lavoro frammentato e precario con cui si è cercato di mettere i lavoratori al servizio intermittente delle imprese. Utile per incoraggiare le statistiche, assai meno per dare redditi dignitosi e continuativi ai lavoratori. Se la situazione era questa prima della crisi, solo un atto di fede, non certo una previsione razionale, può fare immaginare l’approdo a una condizione di piena occupazione per effetto della crescita nei prossimi anni.
Occorre qui almeno accennare a una riflessione generale. La sempre più ridotta capacità del capitalismo di creare posti di lavoro, nasce da un insieme di cause congiunturali e storico-strutturali che l’opinione economica dominante non vuole in nessun modo vedere. Cercherò di elencarli brevemente.
La prima e più ovvia causa è che le società capitalistiche mature hanno un ritmo di crescita ridotto rispetto al passato. Un andamento che negli ultimi anni ha risentito anche del fatto che una parte degli investimenti si sono indirizzati verso i paesi a bassi salari e a bassa protezione ambientale. Tra il 2000 e il 2005 gli USA, ad esempio, hanno perso 3 milioni di posti di lavoro nelle manifatture, tra ristrutturazioni e delocalizzazioni. Ma al fondo c’è un mutamento strutturale che segna una cesura rispetto ai decenni precedenti. La maturità del capitale oggi significa soprattutto il declino dell’industria automobilistica, la più grande fabbrica labor intensive del ‘900. Questa industria, insieme a quella degli elettrodomestici, è stata in grado, in Italia come negli altri paesi avanzati, di svuotare quell’immenso serbatoio di forza lavoro che erano le campagne dell’Occidente. Milioni di contadini sono diventati classe operaia nel giro di pochi anni. Com’è noto, quell’industria non solo alimentava a monte l’attività mineraria e siderurgica per i suoi materiali, ma aveva intorno le piccole e medie imprese dell’indotto, a valle l’industria delle costruzioni stradali e autostradali. Questa immensa idrovora di forza lavoro ha ormai ridotto i suoi ranghi e in Occidente non risorgerà nulla di simile. Lo dice eloquentemente un dato che è anche un tratto distintivo del capitale oggi: 30 milioni di auto ogni anno rimangono invendute. Il ministro dell’Istruzione e dell’Università, Profumo, in una intervista a Repubblica (6.2.2012) ha paragonato la capacità di Internet di attivare economie, all’industria automobilistica del dopoguerra. Pensare che essa possa creare tanti posti di lavoro quanti ne ha generato il settore dell’auto è una illusione che gli USA hanno già scontato. E questo, almeno per una ragione fondamentale: se è vero che l’informatica apre continuamente nuove possibilità operative e di servizi, la sua indomabile forza, la sua centralità, è sostituire lavoro con processi automatizzati. Consiglierei a questo proposito la lettura (e possibilmente la traduzione) del testo di un ingegnere della Silicon Valley, Martin Ford, The Lights in the tunnel, che mostra la gigantesca sostituzione di lavoro con processi informatici in arrivo nei prossimi anni.
Ma la nostra epoca, e le nostre società opulente, sono contrassegnate da un fenomeno ignoto alle società del passato: la rapida obsolescenza delle innovazioni di prodotto, che riducono i margini di profitto delle imprese a una velocità prima sconosciuta. Esse si muovono in un mercato che si satura rapidamente. Quanto è durata l’automobile, quanto il computer prima di diventare un prodotto maturo? Quanto dura sul mercato un nuovo cellulare che è costato elevati investimenti in ricerca, realizzazione, commercializzazione? Quanti sono oggi gli attori imprenditoriali che si contendono il mercato di prodotti affini? E occorre, a questo proposito, ricordare che – al di la della spasmodica ricerca di profitti- l’asprezza della competizione mondiale fa la sua parte nello scoraggiare il capitale ad entrare nel circolo Denaro-Merce-Denaro. Esso trova sempre più lucroso attivare il circolo D-D-D, cioè operare nelle attività meramente finanziarie senza passare per l’ impegno gravoso della produzione. Infine, com’è noto, ubbidendo ai dogmi neoliberisti, i governi hanno quasi dismesso ogni impegno imprenditoriale pubblico, riducono progressivamente il welfare, che è stato ed è ancora fonte di posti di lavoro. Una tendenza che si avvita su se stessa, generando concentrazione di ricchezza privata e impoverimento di risorse pubbliche.
Se questo quadro sommario è esatto, l’esortazione alla crescita proveniente dal Governo e gli indirizzi che la ispirano non risolveranno il grave problema della disoccupazione nel nostro paese. Purtroppo, non è neppure necessario scomodare le tendenze di fondo del capitale per pronosticare che essa è destinata ad aggravarsi almeno nei prossimi due anni, vista la recessione in atto. E allora? Quali sono i progetti per alleviare la sofferenza di milioni di disoccupati? Come si intende aiutare oltre il 30% della nostra gioventù che non ha più alcuna prospettiva di lavoro davanti a se?
Questa è una domanda, tuttavia, che non deve guardare al problema come a un fatto transitorio e congiunturale. Essa si inscrive in un più ampio interrogativo di prospettiva che André Gorz formulò in un suo scritto nel 2005: «quando la società produce sempre più ricchezza con sempre meno lavoro, come può far dipendere il reddito di ognuno dalla quantità di lavoro che fornisce?»
Com’ è noto, una risposta certamente parziale, ma importante e per tanti aspetti tendenzialmente rivoluzionaria, esiste. Una risposta che tante forze, gruppi, ambienti intellettuali sollecitano e che costituisce una realtà già operante in tanti paesi d’Europa, come ricorda Giuseppe Bronzini nel suo Il reddito di cittadinanza. Si chiama reddito minimo o di cittadinanza, o universale e conosce varie declinazioni. La sua diffusione decreta ormai la separazione sempre più spinta tra lavoro e reddito. Quest’ultimo non può più dipendere in assoluto da una occupazione che diventa sempre più rara. E’ arrivato il momento, per le società opulente, di destinare risorse cospicue ai cittadini cui non sa più fornire lavoro. Altrimenti il capitalismo tracolla per sovraproduzione e la democrazia prende una china dagli esiti imprevedibili.
Oggi un reddito minimo fornito ai nostri giovani tra i 18 e 35 anni costituirebbe una leva importante non solo per fare uscire milioni di ragazzi dalla disperazione, ma per fornire aiuto alle famiglie, ridare fiducia e un qualche slancio al nostro paese. Quanti ragazzi potrebbero così proseguire i loro studi e ricerche, intraprendere da soli o in cooperativa, qualche attività stabile senza perdersi in lavoretti per sopravvivere, attivarsi nel volontariato, cooperare con i comuni, svolgere compiti utili nei territori? Pochi immaginano quale sollievo sarebbe oggi anche un minimo sostegno in famiglie dove i genitori sono in cassa integrazione, o senza lavoro, dove misere pensioni tengono a galla più persone.
Un reddito minimo non è l’avvilente assistenza che si teme. Esso è ormai una condizione di libertà, fornisce una base minima ai cittadini per non chinarsi alla mortificazione di chi impone condizioni non tollerabili di prestazione, per progettare e creare nuovi servizi, per svolgere attività di valorizzazione dei beni collettivi. Su di esso ormai poggia, quale condizione imprescindibile, quel bene comune che si chiama vita dignitosa. Si vuole davvero fare retorica sulla fine del posto fisso? Bene, facciamo scegliere con un po’ più di libertà dal bisogno quali lavori i nostri giovani vogliono scegliere e cambiare.
Un tale obiettivo ha un pregio politico, che non si fa fatica a scorgere. Esso potrebbe unificare l’intera sinistra, fornirle un versante rivendicativo e contrattuale forte e unitario, toglierebbe dall’isolamento il sindacato. Anche lo smarrito PD potrebbe guadagnare una immagine meno servizievole nei confronti del governo e assumere un profilo rappresentativo più spiccato dei bisogni del paese. E sì che questo partito ne avrebbe bisogno, di fronte all’onda di discredito che si è abbattuta sul ceto politico e che è destinata a ingigantirsi nel prossimi mesi di crescente disperazione sociale.
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La nostra fortuna

La sentenza di primo grado del Tribunale di Torino, con la condanna a sedici anni di carcere ai responsabili della Eternit, ci ha dato un po’ di giustizia, ma ci fa ricordare che non è un caso isolato.

Così è molto triste e ancora sinistra la causa ancora in piedi, ma sembra per poco perché in via di prescrizione, presso il tribunale di Paola, in Calabria, per i morti di Praia a Mare, legati alle produzioni della Marlane, fabbrica di Marzotto.  

«Nello stabilimento Marlane – si legge nella relazione tecnica effettuata dal consulente tecnico della Procura di Paola, Giacomino Brancati – in relazione alla tipologia delle sostanze chimiche utilizzate, alle modalità di impiego delle stesse sostanze nei processi lavorativi, alla conformazione degli ambienti di lavoro e alle cautele per la sicurezza dei lavoratori adottate, vi è stata un’esposizione eccessiva dei dipendenti a sostanze nocive potenzialmente cancerogene». Per il tecnico che ha passato in rassegna alcuni casi sospetti di cancro contratto dagli operai della fabbrica di tessuti, «sulla base dell’analisi epidemiologica effettuata, è evidente un nesso di causalità tra le sindromi tumorali sofferte dai dipendenti e i processi lavorativi utilizzati nel ciclo produttivo in corso all’interno dello stabilimento Marlane».

Con noi Marzotto è stato molto più generoso, ci ha lasciato la villa comunale.

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“Un contratto con l’ambiente”

“Dopo il contratto sociale un contratto con l’ambiente” è il titolo dell’articolo di Enzo Bianchi, il priore di Bose, pubblicato da La Stampa di oggi (12022012, data intrigante). Il sottotitolo recita: “Anche la natura è titolare di diritti: della terra siamo solo coinquilini, ne abbiamo il possesso ma non la proprietà”.

Si può leggere in formato pdf sul sito del monastero di Bose, Alzo gli Occhi verso il Cielo.

(Appena posso metto qui l’articolo, intanto, lo metto sotto ‘Sobrietà’.)

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La banda del buco

Riporto tutto l’articolo di Marco Revelli – Una questione di democrazia – pubblicato su il manifesto di oggi. Non ha bisogno di tanti commenti e tornerà utile tra poco, perché siamo in presenza di una questione centrale, sia di metodo (democratico) che di contenuto (il Tav in Val di Susa).

Ancora la Val di Susa. Ancora la resistenza contro il Tav. Il blitz – così lo chiamano giornali e tv – di giovedì all’alba è caduto in un paese segnato dalla crisi e attraversato da ventate di rivolta a cui non si era più abituati, dai “forconi” siciliani agli autisti dei tir. E già prende corpo l’idea di una manovra repressiva ad ampio raggio, che affianchi all’autoesclusione della democrazia parlamentare la chiusura degli spazi di mobilitazione dal basso nel quadro di una modernissima forma di dispotismo della ragione economica e dell’emergenza finanziaria.
In effetti, ci si sarebbe aspettati che in un momento in cui si raschia il fondo del barile per far cassa, e si spremono persino i pensionati per ridurre il debito pubblico, si dedicasse non dico un encomio solenne al valor civile, ma quantomeno un minimo di ascolto a chi da anni si batte per evitare che una ventina di miliardi di euro vengano gettati in un buco inutile e dannoso. E che il peso di quell’opera folle fosse sollevato dalle spalle degli italiani. Invece i 26 arresti, le perquisizioni a tappeto, gli ordini di custodia cautelare. Perché tanto accanimento? E perché ora, a sette mesi dai fatti contestati? Con tanta inopportunità nei tempi, nei modi e nelle dimensioni dell’azione repressiva?
Credo che le ragioni siano due, entrambe estranee a un qualche piano generale di cui questa classe politica, per quanto male se ne pensi, non sembra né in grado né interessata. La prima attiene alla natura dell’opera. Tutto ciò che riguarda il Tav è destinato ad assumere dimensioni abnormi. Parossistiche. L’intreccio di interessi che ruotano intorno ad esso è tale che qualsiasi contestazione, dubbio, ostacolo assume il carattere dell’attentato. Qualsiasi gesto di resistenza subisce lo stigma di un atto di guerra. Vale davvero per il Tav quello che vale per le linee dell’alta tensione: «Chi tocca i fili muore». Chi pone ostacoli alla Torino-Lione rischia di fulminarsi: non per nulla il cantiere di Chiomonte è stato dichiarato, con atto sconsiderato, «strategico», come le basi Nato in Afghanistan. Gli arresti di giovedì sono stati invocati, a gran voce, da politici di ogni colore, in forma rigorosamente bipartisan, con toni imperativi da crociata, con l’appoggio di pressoché tutte le grandi testate giornalistiche.
La seconda ragione è più banale. Mi viene un solo termine: ottusità. Non conosco tutti gli arrestati. Ma quelli locali sì. C’è un barbiere di paese, amato e stimato da tutti, in solidarietà del quale si sono mossi in blocco i commercianti di Bussoleno. C’è un consigliere comunale che al momento dei fatti era azzoppato e si sosteneva con due stampelle, una delle quali figura, con raro sprezzo del ridicolo, come corpo del reato, novello Enrico Toti del nord-ovest. C’è un vecchio anarchico, Tobia Imperato, che tutti noi conosciamo: uno che da anni entra ed esce di prigione ad ogni manifestazione, come i suoi antenati ai tempi delle visite del Duce, ma che non farebbe male a una mosca. E poi un ex Br, quasi settantenne ormai, basta vedere la fotografia, difficile immaginarlo a fare guerriglia sui dirupi scoscesi della Maddalena. Più probabile che sia stato messo li, nella lista, per abbellire il quadro con un pizzico di terrorismo scaduto.
Sette mesi di lavoro di intelligence per arrivare a questo? A mandati di cattura senza flagranza di reato? E per reati che, se comprovati, sarebbero da considerarsi comunque “minori”? Nutro una grande stima personale per il procuratore Caselli. Conosco il suo impegno non solo nella battaglia alla mafia ma anche nel volontariato. Mi ha fatto davvero male vederlo mettere la propria faccia e la propria parola in quest’occasione. Ma forse l’amara conclusione è questa: anche se guidata da un eroe civile, la macchina burocratica-repressiva possiede un’ottusità di fondo inemendabile, che vanifica ogni spirito di giustizia.
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Memoria

Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. Si ricorda, in corrispondenza all’anniversario dell’arrivo ad Auschwitz dell’Armata rossa sovietica.  Vorrei dare un piccolo contributo riportando un testo dell’ultimo lavoro, appena pubblicato, di Giacomo Vit, grande poeta delle nostre bande.


Ciaviei
Montagna di ciaviei, in duà
a sonu i tos? Chei che to mari
a ti caressava prin che cualchidun
al rabaltàs ingiostri tal mond?
In duà ch’a duàrmin, sporcs,
intorgolàs, distacàs dal to
ciavùt di pipina inciocada
tai binaris dal gas?
Capelli
Montagna di capelli, dove
sono i tuoi? Quelli che tua madre
ti accarezzava prima che qualcuno
rovesciasse inchiostro sul mondo?
Dove dormono, sporchi,
aggrovigliati, strappati dal tuo
capino di bambola ubriacata
nei binari del gas?

(Giacomo Vit, Zyklon B. I vui da li’ robis – Gli occhi delle cose, CFR, Piateda SO 2011)

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La differenza tra la Germania e l’Italia

Secondo Luciano Gallino:

“Va totalmente ribaltato un concetto che oggi va per la maggiore: non è la crescita a produrre occupazione, ma il contrario. Solo una diffusa occupazione genera crescita. Occorre dunque lavorare, con serie politiche industriali – magari di stampo keynesiano –, per la creazione diretta di posti di lavoro. Ma di queste politiche non mi pare oggi di scorgere alcuna traccia o presagio, neanche all’orizzonte.”

E ancora:

“Il paese più virtuoso, da questo punto di vista, è sicuramente la Germania. E uno dei motivi, secondo me, sta nel fatto che i sindacati sono molto forti, soprattutto nelle grandi aziende dove hanno il 50 per cento dei rappresentanti nei Consigli di sorveglianza. Non è un caso che in questo paese negli ultimi anni non si sia praticamente più licenziato. Basti ricordare gli accordi che flessibilizzano, in momenti di crisi, gli orari di lavoro, con la riduzione da 39 a 27 ore settimanali e con una perdita di salario di appena il 4 per cento grazie agli interventi dell’azienda e dello Stato. L’accordo alla Siemens del 2010, per esempio, che blocca i licenziamenti in tutto il mondo (210.000 addetti) fino al 2013. Ecco, cose di questo genere vorrei vederle anche in Italia.”

Credo che non serva nessun commento particolare.

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Un futuro tranquillo. O no?

Finalmente qualcuno che ci aiuta a guardare avanti, veramente avanti, nei prossimi cinquant’anni. Sentite cosa scrive oggi su la Repubblica Riccardo Luna.

TRANQUILLI, fra 50 anni sarà molto meglio. Andremo su automobili che si guidano da sole, evitando multe ed incidenti grazie a una rete di microsensori. Mangeremo carne prodotta in laboratorio senza uccidere animali (e senza inquinare l’ambiente). Prenderemo tutta l’energia che ci serve dal centro della Terra dicendo finalmente addio a carbone e petrolio. Non avremo più soldi in tasca, ma gireremo con un chip sottocutaneo collegato al conto corrente. E la sera scaricheremo il cervello su una chiavetta, come quando facciamo il backup del telefonino per non perdere i dati della rubrica. Se vi sembrano le solite previsioni futuristiche un po’ strampalate, beh, sappiate che lo sono forse: ma qui parliamo di scienza. Di quello che la scienza sta preparando per noi.

Però il finale dell’articolo è un po’ più problematico.

Sarà migliore il mondo nel 2062? Guardiamo la vita delle persone. Il lavoro in grandissima parte sarà fatto da macchine: non parliamo di robot, ma di costruttori molecolari in grado di produrre qualunque oggetto. Nel frattempo la vita si allungherà sempre di più per cui “nel 2062 sarà nato il bambino che vedrà la cometa di Halley tre volte, cioé vivrà più di 152 anni”. Che faranno tutti questi ultra anziani senza lavoro? E’ uno scenario che fa intravedere problemi sociali immensi. Che non possiamo evitare. “Alla società non sarà data la scelta se invecchiare o no. Il futuro non si ferma e non ci aspetta”.

Già, che faranno tutti questi anziani senza lavoro? Il ministro Fornero ne ha già tenuto conto o non è meglio pensare ad un piccolo ritocco alla grande riforma delle pensioni?

 

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