Pubblicare poesie o articoli sul ciclismo malato in un momento storico come questo può sembrare perlomeno bizzarro, ma io insisto, perché il “fenomeno” Lance Armstrong per chi segue il ciclismo è destinato a segnarne indelebilmente la storia, perché è semplicemente una metafora assoluta dell’attuale società e perché senza buoni miti e senza poesia si vive peggio, non meglio.
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I miei anni con Armstrong
Brutta favola del ciclismo
di Gianni Mura
In un posto che continuava a sembrarmi finto, Le Puy du Fou, nel luglio del ’99 mi appoggiavo idealmente alla canna della bici numero 181, quella di Armstrong. Tutti gli altri li avrebbe vinti col numero 1. Era un Tour senza Pantani e senza Ullrich. Armstrong ci arrivava dopo due quarti posti ai mondiali, linea e crono. E un quarto alla Vuelta.
Si conoscevano i suoi propositi, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Proprio il mare, che rende scivoloso d’alghe la stradella del Gois, fa cadere Zuelle ed è alleato di Armstrong. Nella crono di Metz cade e si ritira Julich, altro rivale di Armstrong che domina anche sulle Alpi. Tutto facile. Per me Armstrong era entrato in un cono di luce a Limoges, quando vinse e indicò il cielo per ricordare Casartelli.
È difficile rievocare quegli anni al Tour oggi, sotto un’altra luce che è quella della confessione (parziale), del crollo. Allora, almeno all’inizio, era una bella storia, forte, dura, non proprio una favola. Bisogna stare sempre attenti alla favole, nel ciclismo: Cappuccetto Rosso ha le siringhe nel cestino, la nonna spaccia e il Lupo è già cattivo di suo.
Ma una storia è una storia. Quella di un ragazzo che fin da bambino ha imparato da sua madre a essere un “guerriero della vita”. Che vince un mondiale nella bufera. Che corre solo di muscoli, cervello poco. Un torello da gare in linea. Si ripresenta cambiato nel fisico e nella testa. Parla anche in un altro modo. Giù dal podio di Parigi ringrazierà il cancro che ha fatto di lui un altro atleta ma soprattutto un altro uomo, migliore. I sospetti, quelli non sono mai mancati. Una pomata fuorilegge a Pau: “Sono un perseguitato”.
Attorno al capo c’è uno sbarramento sempre più robusto. Il più ciarliero dell’Us Postal è il cuoco, uno svizzero che si chiama Willi Balmat (“Con una nonna di Trastevere, cognome Di Rienzo”). Ad Armstrong piacciono gli spaghetti aglio e olio (peperoncino no), l’omelette (“Un rosso d’uovo e tre bianchi”), il risotto allo zafferano. Poi, le minacce di morte, le guardie del corpo, l’albergo come un fortino.
Si gira la Francia, ovviamente. Armstrong non è molto popolare, col passare del tempo. Solo Schumacher e Anelka risultano più antipatici, in un sondaggio. Ci si interroga anche tra noi in sala-stampa, o a cena. Tu ci credi? A me non piace, ma finché i controlli sono negativi ha ragione lui. Sì, perché usa qualcosa che gli altri non hanno, una cosa sperimentale, non si può avere quella cadenza di pedalate in salita, non è umano.
È umanamente strano, questo si può dire. Nel 2000 Pantani e Ullrich ci sono. In cima al Ventoux battuto dal vento sono in due, Armstrong e Pantani. Vince Pantadattilo e Armstrong dice che l’ha lasciato vincere. Pantani non gradisce e vuole fargli pagare l’omaggio-affronto. Vince a Courchevel, poi cerca di far saltare il Tour e salta lui, si ritira. È strano, o quantomeno nuovo, il modo di preparare il Tour. Già LeMond, l’amico-nemico, ne aveva fatto il centro della stagione. Armstrong ne corre almeno due: uno abbondante in allenamento, poi quello vero, quello che conta.
Si raccontano episodi al limite del fachirismo: la Madeleine due volte in maggio, pochi gradi sopra lo zero, l’Alpe d’Huez otto volte. C’è qualcosa di maniacale nel suo legame col Tour, e solo col Tour. E qualcosa di oscuro nella sua forza, che è anche la debolezza della concorrenza, sul podio si avvicendano Zuelle ed Escartin, Ullrich e Beloki, Beloki e Rumsas, Ullrich e Vinokurov, Kloden e Basso, Basso e Ullrich. Il solo a poter battere Armstrong: se non ingrassasse otto o nove chili passando l’inverno a ingozzarsi di dolci, se fosse meglio guidato dalle ammiraglie, se sapesse improvvisare e bluffare come Armstrong sul Glandon.
Anche una delle cose che i ciclisti temono di più, le cadute, sembrano non accanirsi con lui. Lo risparmiano. È Beloki che si schianta verso Gap, Armstrong a ruota ha i riflessi per sterzare in un campo di grano. E quando è lui a cadere, nella tappa di Luz Ardiden, Ullrich non lo attacca, rispettando un codice non scritto. Anche Armstrong è rispettato, in gruppo. Sempre stato così, coi padroni del gruppo. Amato, no. Troppo texano, troppo rigido, troppo esigente, coi gregari ma anche con se stesso. I gregari (quelli che poi gli testimonieranno contro) per lui si butterebbero nel fuoco. Non hanno spesso via libera. Quando succede, Hincapie vince il tappone pirenaico (altri sospetti, giustamente), Savoldelli a Revel. Ma non c’è posto per capitani alternativi, manco a parlarne. Uno solo deve vincere.
Con quali aiuti chimici, adesso si sa. Ma non è vero che tutti i giornalisti del Tour suonavano il violino. David Walsh in particolare, sul Sunday Times già nel 2001 accusava Armstrong di aver usato epo alla Motorola, e nel 2003 rincarava la dose con il libro “LA confidential”, scritto con Paul Ballester. Letti, e riferito. Ho voluto bene alla storia di Armstrong, perché mi accorgevo di quante persone riuscisse a coinvolgere, di quante speranze riuscisse a dare.
Armstrong era un ragazzo che riusciva a mettersi in piazza anche nei lati più tristi, che da malato aveva paura di addormentarsi e di morire nel sonno, che a tenergli compagnia aveva un gatto rossiccio trovato per strada e ribattezzato Chemio, e del resto anche Rogge, medico, presidente del Cio, un nonno che correva con Van Houwaert, dichiarò che di cancro si guarisce, è noto, ma che la funzionalità epatica si riteneva compromessa dalla chemio, mentre Armstrong recuperava meglio di prima.
Armstrong ha assunto un’altra faccia, ai miei occhi, il giorno di Lons, quando andò ad annullare la fuga di Simeoni, “uno che faceva del male al gruppo”, per difendere il buon nome (già) del dottor Ferrari. Un gesto antisportivo, indegno, volgare, mafioso. Chi lo compie, pensai quella sera, è capace di tutto. Ma i controlli erano sempre negativi, a Kristin succedeva Cheryl, alla telefonata di Bush l’abbraccio di Robin Williams. Un americano a Parigi, remake. La mano sul cuore. Una telenovela che non è finita con la confessione pubblica e lacunosa assai: se non si eliminano gli Alti Complici, non cambierà nulla.
E per Armstrong spiegare bene le cose ai suoi figli sarà più difficile che battere Beloki. Le salite più dure non sono quelle del Tour, Armstrong se ne sarà già accorto.
(la Repubblica, 21 gennaio 2013 – il grassetto è mio)