Lance Armstrong, la triste favola senza fine

Pubblicare poesie o articoli sul ciclismo malato in un momento storico come questo può sembrare perlomeno bizzarro, ma io insisto, perché il “fenomeno” Lance Armstrong per chi segue il ciclismo è destinato a segnarne indelebilmente la storia, perché è semplicemente una metafora assoluta dell’attuale società e perché senza buoni miti e senza poesia si vive peggio, non meglio.
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I miei anni con Armstrong
Brutta favola del ciclismo

di Gianni Mura

In un posto che continuava a sembrarmi finto, Le Puy du Fou, nel luglio del ’99 mi appoggiavo idealmente alla canna della bici numero 181, quella di Armstrong. Tutti gli altri li avrebbe vinti col numero 1. Era un Tour senza Pantani e senza Ullrich. Armstrong ci arrivava dopo due quarti posti ai mondiali, linea e crono. E un quarto alla Vuelta.

Si conoscevano i suoi propositi, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Proprio il mare, che rende scivoloso d’alghe la stradella del Gois, fa cadere Zuelle ed è alleato di Armstrong. Nella crono di Metz cade e si ritira Julich, altro rivale di Armstrong che domina anche sulle Alpi. Tutto facile. Per me Armstrong era entrato in un cono di luce a Limoges, quando vinse e indicò il cielo per ricordare Casartelli.

È difficile rievocare quegli anni al Tour oggi, sotto un’altra luce che è quella della confessione (parziale), del crollo. Allora, almeno all’inizio, era una bella storia, forte, dura, non proprio una favola. Bisogna stare sempre attenti alla favole, nel ciclismo: Cappuccetto Rosso ha le siringhe nel cestino, la nonna spaccia e il Lupo è già cattivo di suo.

Ma una storia è una storia. Quella di un ragazzo che fin da bambino ha imparato da sua madre a essere un “guerriero della vita”. Che vince un mondiale nella bufera. Che corre solo di muscoli, cervello poco. Un torello da gare in linea. Si ripresenta cambiato nel fisico e nella testa. Parla anche in un altro modo. Giù dal podio di Parigi ringrazierà il cancro che ha fatto di lui un altro atleta ma soprattutto un altro uomo, migliore. I sospetti, quelli non sono mai mancati. Una pomata fuorilegge a Pau: “Sono un perseguitato”.

Attorno al capo c’è uno sbarramento sempre più robusto. Il più ciarliero dell’Us Postal è il cuoco, uno svizzero che si chiama Willi Balmat (“Con una nonna di Trastevere, cognome Di Rienzo”). Ad Armstrong piacciono gli spaghetti aglio e olio (peperoncino no), l’omelette (“Un rosso d’uovo e tre bianchi”), il risotto allo zafferano. Poi, le minacce di morte, le guardie del corpo, l’albergo come un fortino.

Si gira la Francia, ovviamente. Armstrong non è molto popolare, col passare del tempo. Solo Schumacher e Anelka risultano più antipatici, in un sondaggio. Ci si interroga anche tra noi in sala-stampa, o a cena. Tu ci credi? A me non piace, ma finché i controlli sono negativi ha ragione lui. Sì, perché usa qualcosa che gli altri non hanno, una cosa sperimentale, non si può avere quella cadenza di pedalate in salita, non è umano.

È umanamente strano, questo si può dire. Nel 2000 Pantani e Ullrich ci sono. In cima al Ventoux battuto dal vento sono in due, Armstrong e Pantani. Vince Pantadattilo e Armstrong dice che l’ha lasciato vincere. Pantani non gradisce e vuole fargli pagare l’omaggio-affronto. Vince a Courchevel, poi cerca di far saltare il Tour e salta lui, si ritira. È strano, o quantomeno nuovo, il modo di preparare il Tour. Già LeMond, l’amico-nemico, ne aveva fatto il centro della stagione. Armstrong ne corre almeno due: uno abbondante in allenamento, poi quello vero, quello che conta.
Si raccontano episodi al limite del fachirismo: la Madeleine due volte in maggio, pochi gradi sopra lo zero, l’Alpe d’Huez otto volte. C’è qualcosa di maniacale nel suo legame col Tour, e solo col Tour. E qualcosa di oscuro nella sua forza, che è anche la debolezza della concorrenza, sul podio si avvicendano Zuelle ed Escartin, Ullrich e Beloki, Beloki e Rumsas, Ullrich e Vinokurov, Kloden e Basso, Basso e Ullrich. Il solo a poter battere Armstrong: se non ingrassasse otto o nove chili passando l’inverno a ingozzarsi di dolci, se fosse meglio guidato dalle ammiraglie, se sapesse improvvisare e bluffare come Armstrong sul Glandon.

Anche una delle cose che i ciclisti temono di più, le cadute, sembrano non accanirsi con lui. Lo risparmiano. È Beloki che si schianta verso Gap, Armstrong a ruota ha i riflessi per sterzare in un campo di grano. E quando è lui a cadere, nella tappa di Luz Ardiden, Ullrich non lo attacca, rispettando un codice non scritto. Anche Armstrong è rispettato, in gruppo. Sempre stato così, coi padroni del gruppo. Amato, no. Troppo texano, troppo rigido, troppo esigente, coi gregari ma anche con se stesso. I gregari (quelli che poi gli testimonieranno contro) per lui si butterebbero nel fuoco. Non hanno spesso via libera. Quando succede, Hincapie vince il tappone pirenaico (altri sospetti, giustamente), Savoldelli a Revel. Ma non c’è posto per capitani alternativi, manco a parlarne. Uno solo deve vincere.

Con quali aiuti chimici, adesso si sa. Ma non è vero che tutti i giornalisti del Tour suonavano il violino. David Walsh in particolare, sul Sunday Times già nel 2001 accusava Armstrong di aver usato epo alla Motorola, e nel 2003 rincarava la dose con il libro “LA confidential”, scritto con Paul Ballester. Letti, e riferito. Ho voluto bene alla storia di Armstrong, perché mi accorgevo di quante persone riuscisse a coinvolgere, di quante speranze riuscisse a dare.

Armstrong era un ragazzo che riusciva a mettersi in piazza anche nei lati più tristi, che da malato aveva paura di addormentarsi e di morire nel sonno, che a tenergli compagnia aveva un gatto rossiccio trovato per strada e ribattezzato Chemio, e del resto anche Rogge, medico, presidente del Cio, un nonno che correva con Van Houwaert, dichiarò che di cancro si guarisce, è noto, ma che la funzionalità epatica si riteneva compromessa dalla chemio, mentre Armstrong recuperava meglio di prima.

Armstrong ha assunto un’altra faccia, ai miei occhi, il giorno di Lons, quando andò ad annullare la fuga di Simeoni, “uno che faceva del male al gruppo”, per difendere il buon nome (già) del dottor Ferrari. Un gesto antisportivo, indegno, volgare, mafioso. Chi lo compie, pensai quella sera, è capace di tutto. Ma i controlli erano sempre negativi, a Kristin succedeva Cheryl, alla telefonata di Bush l’abbraccio di Robin Williams. Un americano a Parigi, remake. La mano sul cuore. Una telenovela che non è finita con la confessione pubblica e lacunosa assai: se non si eliminano gli Alti Complici, non cambierà nulla.

E per Armstrong spiegare bene le cose ai suoi figli sarà più difficile che battere Beloki. Le salite più dure non sono quelle del Tour, Armstrong se ne sarà già accorto.

(la Repubblica, 21 gennaio 2013 – il grassetto è mio)

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“Anch’io sono finito in trappola”

Anch’io sono finito in trappola,
ma a differenza del topo
o del coniglio è una trappola
che ho costruito io, con le mie mani.
È a mia misura, della taglia giusta,
dipinta nei miei colori preferiti:
una confortevole gabbietta
dove posso avvitarmi nei pensieri
più alti stolti ignobili squisiti.

Il topo è subdolamente attratto
dal formaggio; il coniglio
ingannato ad arte da una tagliola
nascoste nelle frasche. Cosí
i due senza saperlo si giocano la loro
libertà – quella stessa che io
invece perdo scientemente,
a causa della mia dolosa inerzia.

Come bucare questa bolla
artificiale, se l’orizzonte
intorno implode e si spaura?
Se si ammalano gli amici
e le parole? Se il tessuto comune
cede in ogni sua giuntura?
Chi ci comanda è intento
a far di conto, ma è un conto
che non torna se giorno
dopo giorno arde solitario
un nuovo bonzo indigeno.

E il coro, il coro
di cui anch’io facevo parte? Scomparso
per sempre – e chi l’ha divorato?
In gabbia canta l’uccello
canterino, io invece, senza coristi
al fianco, rimango senza fiato.

Franco Marcoaldi, La trappola (Einaudi, 2012)

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Di cosa si dovrebbe parlare alle elezioni

Il baratro fiscale dell’agenda Monti
di Luciano Gallino

Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo, Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore.. del 60%… tale parte contraente opera una riduzionea un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.

L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ’60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.

Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio.

La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78).

L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.

Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.

Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.

Naturalmente il problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia.

Un riconoscimento al quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche (lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1 per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione.

Con il baratro fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento, come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.

(la Repubblica, 8 gennaio 2013 – il grassetto è mio)

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La farsa delle liste

“Dov’è finita la democrazia dal basso?”: questo è il titolo del breve articolo di Paolo Cacciari sul il manifesto di oggi (p.3) e online.

Cosa succede se i teorici della democrazia partecipativa vengono poi messi in lista prima dei vincitori delle assemblee o primarie, come Alberto Lucarelli per Rivoluzione Civile e Giulio Marcon per Sel?

Siamo solo vittime del diabolico “Porcellum” o “c’è qui qualcosa di essenziale che non va bene”, come scrive Paolo Cacciari? Che aggiunge: “difficile credere alla ‘democrazia dal basso’ quando non si riesce ad essere coerenti in casa propria”.

Paolo Cacciari non tira altre conclusioni. Neanch’io.

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Perma-austerity o decrescita? (2)

C’è dunque solo l’alternativa tra crescita ed austerity, magari permanente, o no? Non c’è proprio nessun’altra via?

Non c’è nessun media di certe dimensioni che non scriva o non parli di crescita, anche – anzi soprattutto – quando si programma l’austerità, cioè la decrescita. Già, decrescita, perché questa è la parola. C’è chi la usa senza nasconderla, anzi esibendola. Per esempio quelli del Movimento della Decrescita Felice che hanno un’idea del tutto diversa sulle cause e sulla via d’uscita dalla crisi.

Se siete un po’ interessati ad uscire dal solito carosello potete leggere questo articolo: “Proposta di confronto su un progetto per superare la crisi, creare un’occupazione utile e dare un futuro ai giovani”, dove si affrontano questi temi (titoli dei paragrafi):

La crescita è la causa della crisi (potrebbe esserne la soluzione?).
Il debito è l’altra faccia della medaglia della crescita.
Le misure tradizionali di politica economica non funzionano più.
Inasprimento della lotta di classe dei ricchi contro i poveri.
Le posizioni neo-keynesiane.
Un’incredibile rimozione collettiva [l’ambiente].
Investire nelle tecnologie che riducono gli sprechi di energia e risorse naturali.
La decrescita selettiva della produzione di merci è alternativa sia all’austerità, sia al consumismo irresponsabile.
Una politica economica e industriale finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci.
Il blocco di potere cementato dall’ideologia della crescita.
Una nuova cultura per una nuova alleanza sociale.
Avviare un confronto tra i potenziali sostenitori di un progetto politico finalizzato a superare la crisi mediante una decrescita selettiva della produzione di merci.

Leggendo questo articolo non è detto che vi troviate d’accordo su tutto, non lo sono neanch’io, ma avete letto senz’altro un’altra cosa che la solita liturgia.

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Crescita o perma-austerity? (1)

Su la Repubblica di oggi un articolo di Federico Rampini, “La crescita. L’Europa non sta agganciando la ripresa schiacciata tra austerità e moneta forte”, ci racconta cosa sta accadendo ai vertici dei massimi protagonisti della politica economica mondiale.

Ci racconta delle manovre americane, in atto da un bel po’, attraverso la Federal Reserve, uno strumento fondamentale della Casa Bianca (“è evidente la convergenza tra la strategia della Fed e l’agenda politica di Barack Obama”). Ci racconta delle manovre, più recenti, della Banca del Giappone, che sta comprando molti euro aumentandone così il valore e deprezzando lo yen. Insomma è il classico tentativo di favorire la competitività delle merci interne e quindi confermare la crescita economica, spostando così e finalmente anche gli interessi finanziari dai bond alle azioni.

L’autore, un’autorità come cronista economico, sottolinea che queste manovre monetarie sono anche accompagnate da politiche keynesiane, cioè spesa pubblica in grandi opere. Dunque, niente di nuovo sotto il sole, salvo il recupero del diabolico aggettivo “keynesiano”, usato sempre più di nascosto.

Alla fine Rampini confronta queste mosse con la “perma-austerity“, citando Wolfgang Munchau del Financial Times, cioè l’austerity permanente già messa in programma dalla Germania per il 2014 (!), “per rispettare l’obbligo costituzionale di pareggio strutturale del bilancio pubblico”. Le conseguenze per l’Eurozona sono intuibili.

Se non ci fermiamo dunque alle schermaglie verbali della campagna elettorale italiana, dove tutti sono certamente per la crescita, possiamo vedere che è in atto a livello mondiale un partita che noi non giochiamo neppure. Siamo come il giocatore spedito dall’allenatore in tribuna. Se è della squadra vincente, se ha qualche buona rendita, ci guadagnerà comunque qualcosa, altrimenti si dividerà con i suoi compagni solo l’ennesima umiliazione.

Ma forse è giunto il momento di cambiare gioco e non solo di partecipare o assistere alla solita partita.

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Salario minimo garantito, «per dirla con Marx»

Juncker: «Disoccupazione ci sta schiacciando subito salario minimo per tutta l’area euro»
Audizione al parlamento europeo, con tanto di citazione di Marx, per sollecitare l’introduzione di un salario minimo

Nell’area euro «stiamo sottovalutando l’enorme tragedia della disoccupazione, che ci sta schiacciando». Lo afferma il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker in una audizione al Parlamento europeo. «Nell’area euro la disoccupazione supera l’11 per cento, e dobbiamo ricordarci che quando è stato fatto l’euro avevamo promesso agli europei che tra i vantaggi della moneta unica ci sarebbe stato un miglioramento degli squilibri sociali».

SALARIO MINIMO – Secondo Juncker, esponente del Partito Popolare europeo, «bisogna ritrovare la dimensione sociale dell’unione economica e monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti perderemmo credibilità e approvazione della classe operaia, per dirla con Marx». Quindi l’invito ai governi a non pensare che la crisi sia al capolinea. «I tempi che viviamo sono difficili – afferma – non dobbiamo dare all’opinione pubblica l’impressione che il peggio sia alle nostre spalle perchè ci sono ancora cose da fare molto difficili».

PROSPETTIVE – Si mostra comunque ottimista per il futuro. «Iniziamo il 2013 in una situazione nettamente migliore rispetto all’anno scorso, il 2012 è stato un anno di risultati positivi per la zona euro». Ma lamenta che nella Ue non ci sia «accordo sulla strada da imboccare nei prossimi anni, gli Usa e gli altri ci interpellano a proposito e noi abbiamo solo risposte di cortissimo respiro».

Redazione Online
10 gennaio 2013 – 13:58

Da: http://www.corriere.it

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Lega, carega

Fresco di oggi, settimo di una serie di puntate su “I poltronifici”, l’articolo di Roberto Galullo su Il Sole 24 Ore dedicato alla prassi veneta (diciamo così) merita di essere riprodotto integralmente. I commenti sono superflui (il grassetto è mio).

Lotta spietata per le «careghe»
In Veneto anche chi è pensionato può aspirare a essere riassunto

L’ultimo sigillo del 2012 è stato apposto quando i veneti erano distratti dal veglione di Capodanno e i tappi del prosecco di Valdobbiadene erano pronti a saltare coprendo con il loro rumore sordo il crepitio dei fuochi d’artificio della politica. Il 31 dicembre due consulenze sono state infatti pubblicate sul sito della Regione che gli ha dato anche una numerazione progressiva: n. 187 e n.188. Distratti questa volta dalla Befana, i veneti non si sono forse accorti che il 2013 è iniziato come è finito il 2012: il 7 gennaio infatti sono arrivate quattro nomine fresche fresche per centinaia di migliaia di euro.

Se volete cercare la prima consulenza o il primo incarico di collaborazione messo in Rete dalla Regione Veneto, dovete tornare indietro nel tempo. Al 2008, allorché gli incarichi furono 444. Nel 2009 la Regione scese a 399, nel 2010 precipitò a 291 e nel 2011 si inchiodò a quota 186.

In cinque anni è stata attribuita a professionisti, università, società ed enti, una pioggia di incarichi che hanno spaziato dalla consulenza tecnico-scientifica specialistica sulla pianificazione territoriale funzionale (la prima visibile sul sito, il 22 aprile 2008, per un importo di 24.885, 83 euro erogato a un professore universitario) alla gestione sostenibile delle risorse del mare Adriatico (le ultime del 2012 per complessivi 53.030 euro finanziati dalla Ue). In mezzo un mondo di incarichi milionari: 1.512, praticamente al ritmo di uno ogni 29 ore o giù di lì. A quelle della Giunta si sommano le consulenze del consiglio: 130 dal 2007 a oggi.

Con una ragnatela così estesa di nomine esterne alla Regione, del tutto legittime per carità di Dio, tutto farebbe pensare che le risorse interne siano carenti di agenzie, società partecipate, enti e istituzioni con uomini e dirigenti in grado di far camminare progetti e idee. Nulla di più sbagliato. Se la Regione Veneto concorre al record mondiale di consulenze, è molto ben posizionata anche nella speciale classifica internazionale di poltrone nelle Ulss (che sono 22 più due aziende ospedaliere), commissioni (sette), comitati regionali (due), organismi partecipati (due), osservatori regionali (20 oltre a quello interregionale) ma soprattutto enti (ne ha 20, direttamente o tramite Veneto Sviluppo spa, che spaziano dalla sanità alla polizia locale). L’Arpav (Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale) è commissariata: sotto esame la gestione dal 2000 in poi.

Insomma, un caleidoscopio di organismi che entrano direttamente nella vita economica della regione, al centro del quale girano centinaia di poltrone legate spesso alla fedeltà politica che dal 1995 ha un sola etichetta (centrodestra tendenza Lega). In 17 enti il Sole-24 Ore ha contato 43 tra presidenti, vicepresidenti e consiglieri con indennità annue lorde che oscillano da 3.300 euro a 152mila euro all’anno anche se c’è chi non prende nulla per ricoprire l’incarico a testimonianza che o lo fa per spirito di servizio o lo fa per vantaggi indiretti.

Tra le poltrone calamita la curiosità quella di Luigino Tremonti, cugino del più noto Giulio. Dall’11 giugno 2011 è amministratore unico delle Terme di Recoaro ma soprattutto amministratore unico, dal 20 maggio dello stesso anno, della Società veneziana edilizia Canalgrande spa. Il 21 settembre 2011 il consigliere Diego Bottacin (Verso Nord) presentò in consiglio un’interrogazione a risposta immediata chiedendo papale papale: «Di cosa si occupa la Società Veneziana Edilizia Canalgrande Spa? Qual è il suo capitale sociale? Quanto costa il suo funzionamento? Come è stato scelto Tremonti?».

La risposta – alla faccia dell’immediatezza – è giunta il 5 marzo 2012 per bocca dell’assessore al Bilancio Roberto Ciambetti (Lega Nord): il futuro della società è «nell’avvio di un percorso di accorpamento delle società a partecipazione regionale operanti nel settore immobiliare, individuando la Società veneziana edilizia Canalgrande Spa, quale soggetto capofila dell’operazione». Unico cambiamento? A quanto pare sì, perché la Regione è fiera di una società che detiene il 35% del capitale sociale della società Ski college spa, costituita nel 1996 «per concorrere alla gestione economica della scuola-convitto per atleti in discipline sportive invernali, aggregata all’Ipssar di Falcade (Belluno), per conciliare la frequentazione scolastica all’attività sportiva agonistica e non, contribuendo alla crescita ed ammodernamento dell’offerta turistica del territorio». Una presenza fondamentale per una società immobiliare. Quanto a Tremonti, beh, la scelta era obbligata, ha spiegato Ciambetti, visto che «è in possesso di una decennale esperienza nella gestione di immobili maturata come presidente dell’Ater di Belluno».

Il punto è che in Veneto sono moltissimi a non capire a cosa serva quel corposo pacchetto di enti, istituzioni e società, quali siano i criteri di nomina (fedeltà politica a parte in particolare in quota Galan e Zaia, ex Governatore e Presidente in carica) e a cosa serva tenerle in piedi. Mai come in Veneto, un consiglio regionale è bombardato da interrogazioni su questi temi: basta scorrere decine e decine di verbali degli ultimi due anni. E’ facile pescare nel mazzo magari partendo da polemiche recenti. Ad esempio quella del consigliere Antonino Pipitone (Idv) che il 14 febbraio 2012 ha chiesto quanti fossero «i funzionari e dirigenti eccellenti della Regione, delle Ulss e degli enti strumentali regionali andati in pensione e poi riassunti a stretto giro di posta, nello stesso ruolo e con le stesse funzioni o in ruoli e funzioni similari». Ancora nessuno gli ha risposto.

Peschiamo ancora nel mazzo. Il 19 maggio 2011 il consigliere Stefano Valdegamberi (Udc) ha presentato un’interrogazione a risposta immediata chiedendo: «E’vero che sono stati assunti all’aeroporto Catullo di Villafranca di Verona familiari diretti ed amici del rappresentante della Regione nel consiglio di amministrazione? Risposta del solito Ciambetti: «Tra i soci della società aeroportuale figura la Veneto Sviluppo spa. la quale possiede lo 0,187% del capitale sociale. Considerata l’assoluta esiguità della suddetta partecipazione, alla Finanziaria regionale non compete il diritto di nominare alcun componente nel consiglio d’amministrazione dell’Aeroporto Valerio Catullo, talché Veneto Sviluppo non ha mai avuto propri rappresentanti in seno agli organi sociali della partecipata. Pertanto, la Regione del Veneto non possiede alcun potere di nomina/designazione né diretta, né tantomeno indiretta nella suddetta Società». Proprio su Veneto Sviluppo, la finanziaria detenuta al 51% dalla Regione che ha chiuso il bilancio 2011 con un disavanzo di 3,5 milioni e che in portafoglio conta una trentina di partecipazioni (comprese quelle di compagnie aeree poi fallite e autodromi in perdita di esercizio, testimoniando forse così inconsciamente l’amore per il brivido), si sono abbattute negli ultimi anni decine di interrogazione e interpellanze.

La replica di Valdegamberi è stata furiosa: «Nell’aeroporto Catullo di Villafranca di Verona, ente a partecipazione pubblica, c’è stato qualche amministratore che ha detto che si ritagliano i posti di assunzione tra i partiti come scambiarsi le figurine: “tocca a me, tocca a te, questa è mia, questa è tua”. Ci sono cose veramente allucinanti dietro l’utilizzo del denaro pubblico». Forse, dietro c’è solo quello che, con un’altra interrogazione, il consigliere Pietrangelo Pettenò (Prc) ha denunciato il 4 luglio 2011 sempre a proposito di Veneto Sviluppo: «Altro che crisi: qui si lotta per le careghe». Per chi non mastica il dialetto veneto, ci si scanna per le poltrone.

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“Quando Coppi e Bartali correvano in bicicletta”

Il 2 gennaio 1960 morì Fausto Coppi. Wikiradio di oggi racconta con la voce di Gianni Mura la sua storia dentro quella del ciclismo e dell’Italia del dopoguerra.

Poi ci butteremo sulla guerra del 2013.

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Buon 2013

Ci sono dei momenti in cui ad un individuo non gli va bene niente, è in un perfetto stato di dis-grazia. Relazioni sociali e famiglia, progetti personali, lavoro, perfino le emozioni sono causa di amarezze e sconfitte. Anche se si ferma, se non interviene, se non agisce (nel senso del ‘wu wei’ taoista), le cose vanno sempre peggio. Poi però in qualche modo cambiano, lentamente ma cambiano. Quasi sempre il cambiamento costa lacrime e sangue.

La cosa è diversa a livello sociale, dove la volontà collettiva, cioè la politica, ha un altro peso sul corso delle cose e le disgrazie sono di tanti individui. Per questo bisogna sempre partecipare alla politica, dare il proprio contributo attivo per cambiare il corso degli eventi, altrimenti questo lo determinano altri individui già ben organizzati attorno ai loro interessi.

Ebbene, caro lettore, ti invito a partecipare attivamente per cambiare le cose di tutti e di nutrire la fiducia necessaria sul tuo stato. Però se è buono cerca di condividerlo almeno un po’.

Questo è il mio augurio per il 2013.

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