Ue, ripartire dall’impossibile

    Riporto l’ultimo articolo di Luciano Gallino sui temi della politica economica e finanziaria europea e quindi italiana. Grassetto ed evidenze sono miei.
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Cambiamo i trattati Ue
di Luciano Gallino

Poco prima delle elezioni, una nota rivista tedesca di studi politici ha pubblicato un articolo intitolato “Quattro anni di Merkel, quattro anni di crisi europea”. L’autore, Andreas Fisahn, non si riferiva affatto al rinnovo ch’era ormai certo del mandato alla Cancelliera, bensì al precedente periodo 2010-2013, in cui l’austerità imposta da Berlino tramite Angela Merkel ha rovinato i paesi Ue. Ma la sua diagnosi ci porta a dire che la riconferma di quest’ultima assicura che senza mutamenti di rilievo nelle politiche dell’Unione il prossimo quadriennio potrebbe essere anche peggio.

Sui guasti pan-europei delle politiche di austerità come ricetta per risolvere la crisi, in nome della stabilità dei bilanci pubblici, non ci possono essere dubbi. I disoccupati nella Ue hanno superato i 25 milioni, di cui oltre 19 nella sola zona euro, e 4 in Italia. La compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori ha creato decine di milioni di lavoratori poveri, a cominciare dalla Germania dove i salari reali, caso unico in Europa, sono oggi inferiori a quelli del 2000. Quasi ovunque sono stati brutalmente tagliati i trattamenti pensionistici – da noi ne sanno qualcosa gli esodati, ma non soltanto loro – insieme con i fondi per l’istruzione, la sanità, i trasporti pubblici. Paesi quali la Grecia e il Portogallo sono stati letteralmente strangolati dalle prescrizioni della troika venuta dal Nord, senza che esse abbiano minimamente giovato ai loro bilanci. In tutta la Ue i comuni devono fronteggiare difficoltà di bilancio mai viste per continuare ad assicurare i servizi locali ai residenti.

Codesti risultati delle politiche di austerità, imposte alla fine dalla Germania, dovrebbero bastare per concludere che è necessario cambiare strada. Per contro i governi europei insistono sul sentiero battuto, a riprova del fatto che gli dèi fanno prima uscire di senno coloro che vogliono abbattere. La loro persistenza nell’errore ha preso sempre più forma di misure autoritarie, ideate e avallate da Berlino, Francoforte e Bruxelles. Hanno stanziato quattromila miliardi per salvare le banche, di cui oltre duemila impiegati soltanto nel 2008-2010, ma se i cittadini provano a dire che con 500 euro di pensione o 800 di cassa integrazione non si vive li mettono a tacere con cipiglio affermando che i tagli è l’Europa a chiederli. Come si legge in un altro articolo della stessa rivista citata sopra (firmato da H.-J. Urban), l’autoritarismo dei governi Ue trova un solido alimento nella retorica in tema di sorveglianza e disciplina finanziaria della Bce. La quale parla, nei suoi documenti ufficiali, di “processi di comando permanente”; “regole rigorose e vincolanti di disciplina politico-fiscale”; “credibilità ottenuta tramite sanzioni”; “sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici”, nonché di “robusti meccanismi di correzione” (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero scattare in modo automatico. Giusto quelli che nei giorni scorsi han messo in fibrillazione il nostro governo, perché forse il bilancio dello Stato ha superato il fatidico limite del 3 per cento sul Pil di un decimo di punto percentuale.

Allo scopo di contrastare sia le politiche dissennate che pretendono di curare la crisi ricorrendo alle stesse dottrine che l’hanno causata, sia il crescente autoritarismo con cui i governi Ue le impongono sotto la sferza costruita da Berlino ma brandita ogni giorno dalla troika di Bruxelles (che in realtà è un quartetto, poiché molte delle sue più aspre prescrizioni sono elaborate dal Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato e di governo dei paesi Ue), esiste una sola strada: la riforma dei trattati Ue, ovvero dei trattati di Maastricht, Lisbona ecc. oggi ricompresi nella versione consolidata che comprende le norme di funzionamento dell’Unione. I trattati particolari che ne sono discesi, fino all’ultimo dissennato “Patto fiscale”, che se fosse mai rispettato assicurerebbe all’Italia una o due generazioni di miseria, hanno come base il Trattato Ue, per cui da questo bisognerebbe partire.

Tra le revisioni principali da apportare al Trattato (alcune delle quali sono prospettate anche da Fisahn, l’autore citato all’inizio: ma articoli e libri che avanzano proposte a tale scopo, in quel tanto di pensiero critico che sopravvive in Europa, sono dozzine) la prima sarebbe di attribuire al Parlamento Europeo dei poteri reali, laddove oggi chi elabora i veri atti di governo è un organo del tutto irresponsabile, non eletto da nessuno, quale è la Commissione europea. Lo statuto della Bce dovrebbe includere la facoltà, sia pure a certe condizioni, di prestare denaro direttamente ai governi, rimuovendo l’assurdità per cui è l’unica banca centrale del mondo cui è vietato di farlo. Inoltre, esso dovrebbe porre accanto alla stabilità dei prezzi, quale finalità primaria delle sue azioni, un vincolo miope imposto a suo tempo dalla Germania che non ha ancora elaborato il lutto per l’inflazione del 1923, lo scopo di promuovere la piena occupazione. Dovrebbe altresì prevedere, la revisione del Trattato Ue, una graduale riforma radicale del sistema finanziario europeo volta a ridurre i suoi difetti strutturali, cioè l’eccesso di dimensioni, complessità, opacità (il sistema bancario ombra pesa nella Ue quanto il totale degli attivi delle banche), di facoltà di creare denaro dal nulla mediante il debito; laddove nella versione attuale il Trattato si preoccupa soprattutto di liberalizzare ogni aspetto del sistema stesso, con i risultati disastrosi che si sono visti dal 2008 in avanti: in special modo in Germania. A fronte di tale indispensabile riforma, gli interventi in atto o in gestazione, tipo il Servizio europeo di vigilanza bancaria o l’unione bancaria, sono palliativi da commedia di Molière. Infine l’intero trattato dovrebbe essere riveduto in modo da prevedere modalità concrete di partecipazione democratica dei cittadini a diversi livelli di decisione, dai comuni ai massimi organi di governo dell’Unione. Come diceva Hannah Arendt, senza tale partecipazione la democrazia non è niente.

So bene che a questo punto chi legge sta pensando che tutto ciò è impossibile. Stante la situazione politica attuale, nel nostro paese come in altri e specialmente in Germania, non ho dubbi al riguardo. Ma forse si potrebbe cominciare a discuterne. Ci sarebbe un politico italiano volonteroso e capace di avviare simile discussione? Anche perché l’alternativa è quella di continuare a discutere per altri venti o trent’anni, intanto che il paese crolla, di come fare a ridurre il deficit di un decimo dell’un per cento.

(la Repubblica, 27 settembre 2013)

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12 ottobre: a Roma, per “La via maestra”

La scena politica italiana si è incartata, come si dice. E’ rimasta senza possibilità di giochi alternativi. Così almeno sembra leggendo la cronaca. Prendiamo quanto pubblicato oggi da quello che viene definito, non senza ridicolo ossequio, un “quirinalista” importante, Marzio Breda sul Corriere della Sera. Riporto il nucleo centrale del problema:

    (…) Insomma, i casi di un eventuale crac delle larghe intese potrebbero essere tanti, ma si riducono ad uno: il voto dell’Aula del Senato che estrometterà il Cavaliere dal Parlamento. Quel giorno quale sarà la reazione del Pdl?

    (…) Sarebbe questo il vero problema, se non ci fosse l’altro, che tiene appeso tutto e tutti. E mentre l’Italia perde con Telecom un altro pezzo di argenteria, mentre nel Pd va in scena il gioco dello scaricabarile sul modo in cui ai tempi del centrosinistra venne privatizzato il colosso telefonico, Berlusconi aspetta di sapere quale sarà il suo destino. E intanto lavora a una grande convention per presentare i «volti nuovi» che sul territorio incarneranno la «nuova Forza Italia», e per rilanciarsi mediaticamente prepara un road show in giro per il Paese. Come se il 15 ottobre non dovesse accadergli nulla…

E’ chiaro? Tra Quirinale, Parlamento, partiti, tutto gira attorno a come gestire una scadenza… il 15 ottobre.

Ma prima del 15 c’è il 12 ottobre, quando ci sarà la manifestazione a Roma promossa con l’appello di Lorenza Carlassare, don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky.

    (Estratto) La difesa della Costituzione è dunque innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. È un impegno, al tempo stesso, culturale e politico che richiede sia messa in chiaro la natura della posta in gioco e che si riuniscano quante più forze è possibile raggiungere e mobilitare. Non è la difesa d’un passato che non può ritornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa.

Questa, per ora, è la scadenza più importante.

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Le buone opere sono quelle piccole

Sbilanciamoci! tiene ogni anno il forum chiamato Controcernobbio. A Cernobbio si tiene infatti il famoso Forum Villa d’Este a cui partecipa il gotha del pensiero economico e finanziario tradizionale, quest’anno intitolato “Lo scenario di oggi e di domani per le strategie competitive“.

I materiali del contro-forum sono tutti pubblicati sul sito, ma io per riprendere il discorso dopo la pausa estiva vorrei proporvi l’intervento di Guido Viale che con la solita lucidità e chiarezza mette tutto insieme. (Le sottolineature sono mie.)
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    L’ambiente a perdere
    di Guido Viale

    Il mondo non è più quello dell’immagine di un universo economico e sociale in espansione che ha consolidato l’idea della crescita destino del pianeta. Nel corso degli ultimi trenta e più anni la globalizzazione è andata sviluppandosi lungo due assi: orizzontale, con l’unificazione del mercato; e verticale, riunificando sotto il comando del capitale finanziario la stragrande maggioranza delle attività produttive. In entrambi i casi, ad aver trasformato radicalmente gli assetti dei processi produttivi e delle politiche dei governi nazionali, locali e sovranazionali è l’economia del debito. Sullo sfondo della crisi economica e sociale e ad essa direttamente connessa c’è la crisi ambientale che ha ormai investito tutto il pianeta e che rischia ogni giorno di più di arrivare a un punto di non ritorno.

    All’approccio che domina il discorso che accomuna sostenitori del pensiero unico liberista, favorevoli alle deregolamentazioni e alle privatizzazioni, e fautori del ritorno a politiche keynesiane di sostegno alla domanda, manca una presa in carico dell’emergenza ambientale come pilastro di una ridefinizione sia delle cose e delle attività da fare che di quelle che non si possono e non si devono più fare. Tutte le ricette che oggi vengono proposte come vie per la “ripresa”, per rimettere in moto la “crescita” fanno riferimento a un mondo che non esiste più.

    La più banale è l’uscita dall’euro. I fautori di questa scelta ritengono che con il ritorno a un cambio flessibile una consistente svalutazione della nuova lira sarebbe di per sé sufficiente a far recuperare al nostro paese quella competitività sui mercati internazionali che gli scarsi progressi della produttività degli ultimi due decenni gli hanno fatto perdere. Ma è un’illusione. Una parte consistente, ancorché minoritaria del nostro apparato produttivo, ha continuato a esportare molto nonostante la sopravvalutazione della valuta. Il resto del sistema produttivo italiano è invece sprofondato, inghiottito dal calo della domanda interna (cioè dei redditi da lavoro), dai tagli della spesa pubblica, dal credit crunch imposto da banche traballanti, dai mancati pagamenti dello Stato, dalle tasse, dalla corruzione, dalle delocalizzazioni; ma soprattutto dalla mancanza di una politica industriale in grado di indirizzarlo verso una riconversione non solo dei processi, responsabili dei livelli di produttività, ma soprattutto dei prodotti.

    La ricetta più in voga tra i sostenitori di una politica di stampo keynesiano auspica invece un allentamento dei vincoli imposti alla spesa pubblica dall’Unione Europea e dalla Bce. Ma i fautori di queste politiche raramente hanno il coraggio di spiegare che cosa potrebbe e dovrebbe fare il governo italiano per spezzare quei vincoli; per lo più ritengono che ad essi non ci si possa sottrarre (“non c’è alternativa”). In attesa di una svolta ci si limita a ipotizzare una diversa allocazione delle risorse tra le diverse voci del bilancio nazionale (meno spesa per le armi e per le grandi opere, più impegno per il welfare e per la manutenzione del territorio); senza però ricordare il salasso a cui le finanze del paese sono sottoposte dal pagamento degli interessi sul debito in regime di pareggio del bilancio (80-90mila miliardi all’anno) e, dall’anno prossimo, dalle rate del fiscal compact (altri 45-50mila miliardi all’anno).

    Per questo, anche le aperture di questo filone di pensiero nei confronti di un programma di conversione ecologica – per lo più presentate come incentivazione di una generica green economy – non hanno alcuno spazio di realizzazione entro quei vincoli. Riconversione produttiva, sostegno all’occupazione, ai redditi, alla ricerca, all’innovazione, all’istruzione, all’accoglienza e all’integrazione, salvaguardia del welfare non sono possibili senza un massiccio ricorso alla spesa pubblica, soprattutto a livello locale. Ma sono tutte cose che non possono più essere governate – se mai lo sono state – a livello centrale. Senza un radicale coinvolgimento delle popolazioni interessate attraverso nuove forme e nuovi istituti di democrazia partecipativa e nuove forme di finanza locale, direttamente promossi da Comuni e consorzi di Comuni, l’unico modo di impiego della spesa pubblica in funzione anticiclica va a parare sulle cosiddette Grandi Opere: cioè in un ennesimo sfregio all’ambiente e alla vivibilità, con ricadute, in termini di occupazione e produttività, nulle o negative. Inoltre il settore esportatore del nostro paese è impegnato soprattutto nella produzione di beni strumentali e di lusso, mentre i cosiddetti beni-salario – alimentazione, abbigliamento, apparecchi elettrici ed elettronici, veicoli di bassa gamma, ecc. – sono sempre di più oggetto di importazione da – o di delocalizzazioni in – paesi emergenti. Per questo, senza un radicale processo di conversione produttiva, una crescita della domanda interna scarsissime conseguenze sui livelli occupazionali e pesanti ricadute sulla bilancia dei pagamenti.

    L’ultima ricetta, agitata per lo più solo in forma propagandistica, è il protezionismo. È ovvio che da una politica del genere, che solleverebbe le ritorsioni dei paesi colpiti dalle nuove barriere doganali, l’economia italiana, che dipende da molte importazioni irrinunciabili, avrebbe da perdere ben più che da guadagnare. E un approccio del genere metterebbe fine una volta per tutte alla prospettiva di “uscire dal baratro” con la crescita.

    L’inadeguatezza di queste ricette mette in luce i problemi di fondo nel nostro come in molti altri paesi europei che si trovano in situazioni altrettanto drammatiche: la mancata utilizzazione di una quantità crescente di risorse già presenti, sia in termini di know-how e di impianti che di saperi diffusi, di competenze sociali e gestionali, di buone pratiche; e l’impossibilità di colmare il divario con i paesi forti dell’Unione Europea finché l’intero continente rimarrà soggetto a un potere finanziario che controlla e condiziona le politiche degli Stati membri e di cui l’euro e la Bce sono lo strumento operativo; uno strumento che in un contesto libero da quei condizionamenti potrebbe operare in direzione diametralmente opposta. Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci), è l’unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ambientali e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell’occupazione messi alle corde dal sistema economico attuale.

    Per promuovere una riconversione di così vasta portata non bastano rivendicazioni, conflittualità e lotte; ci vogliono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazioni di associazionismo di imprenditorialità, di presenze istituzionali che delineano il perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa: compatibile, e per molto tempo destinata a convivere, con le forme tradizionali della rappresentanza istituzionale; ma non ne definiscono le forme, che non dovranno necessariamente essere simili ovunque.

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Sraffa, 30 anni dopo

Piero Sraffa riceve la medaglia Söderström (1961)

Trent’anni fa, il 3 settembre 1983, a Cambridge moriva Piero Sraffa. Aveva compiuto da un mese 85 anni. Era infatti nato a Torino il 5 agosto 1898, figlio unico di Angelo e Irma Tivoli, entrambi di origini ebraiche, come si arguisce anche dai cognomi.

Ma chi era Piero Sraffa? Perché si dovrebbe conoscerlo e commemorarlo? Oltre che nella voce Wikipedia indicata è piuttosto arduo trovare sul web un riferimento alla ricorrenza. Io ho scovato con difficoltà, e mi sono fermato lì, una noterella di Antonio Gnoli su la Repubblica di lunedì 14 gennaio, che riporto.

L’ECONOMISTA CRITICO
Sono trascorsi parecchi anni. Ma ricordo bene alcune lezioni che Luigi Spaventa (recentemente scomparso) dedicò a Piero Sraffa all’Università di Roma. L’eloquio, sebbene a tratti brusco, era sorretto da una grande chiarezza: indispensabile, ne converrete, per poter attraversare la boscaglia di concetti che è Produzione di merci a mezzo di merci. Spaventa aveva studiato a Cambridge, nel luogo dove Sraffa – grazie all’invito di Keynes – stabilì col tempo il suo regno. E quest’anno che ricorre il trentennale della morte non sarebbe male se si riuscisse finalmente a fare il punto sul grande economista, amico sia di Wittgenstein che di Gramsci. Anzi, questa doppia presenza dovrebbe suggerire di indagare meglio la sua complessità intellettuale. E una certa misteriosa doppiezza che ne avvolse l’esistenza. Ho letto un’interessante ricerca (di Monica Schweizer per Mimesis) che tiene conto delle lettere (alcune inedite) che l’economista scambiò con Wittgenstein.
È noto quanto egli influì sulle posizioni del filosofo. La critica sraffiana al marginalismo economico è in linea con quella al Tractatus. Tutto si tiene in questo torinese che l’Inghilterra adottò senza riserve fino a farne un mito del pensiero.

Non so in che occasione Gnoli ne scrisse, bisognerebbe vedere tutta l’impaginazione di quel giornale, ma sintetizza che era un grande economista, amico di grandi personaggi del pensiero (Wittgenstein e Gramsci, ma si dimentica almeno il collega economista Keynes). Accenna alla ricerca della mia amica Monica Schweizer, che ha indagato e anticipato l’uscita dell’aggiornamento delle lettere di Wittgenstein a Cambridge. Poi, nessun altro ne ha scritto, né prima né immediatamente dopo il 3 settembre. Perché?

Perché Piero Sraffa ha scritto poco e pubblicato pochissimo, circa 400 pagine a stampa, tutto compreso. Compreso “Produzione di merci a mezzo di merci” (1960), cento pagine che la cui lettura e comprensione esigono la conoscenza di due secoli di pensiero economico. Perché queste poche pagine sono lette da pochi e solo economisti, docenti o ricercatori universitari costretti a farlo. Ma soprattutto perché è il critico più radicale e conseguente dell’ortodossia neoclassica o marginalista, la base anche dell’attuale liberismo dominante, il pensiero unico in cui ci crogioliamo beatamente, la nostra certezza quotidiana, la Verità. Insomma, chi volete che ne scriva, oggi?

Così, in attesa di altre pagine giornalistiche, vi segnalo l’ultimo libro di Giorgio Lunghini, “Conflitto crisi incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative” (Bollati Boringhieri, Torino 2012). E’ una sintesi magistrale (130 pagine in sedicesimo) del pensiero economico classico (Smith, Ricardo, Marx) e neoclassico, in confronto col pensiero di Keynes e Sraffa. Ma su Sraffa ne riparliamo.

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Grandi navi

(Foto di Berengo Gardin)

Anche oggi e chissà ancora per quanto tempo il tema delle grandi navi in transito sul canale della Giudecca è al centro dei giornali locali e non solo. (Per chi volesse seguire la discussione c’è il tag su la Nuova Venezia.)

Ma questa non è una storia speciale. E’ una tipica storia italiana. Vedi l’Ilva a Taranto.

C’è chi fa affari mentre fa un danno certo anche se lento e progressivo e rischia ogni giorno di provocare una catastrofe. C’è chi ha progettato tutto ciò e ha avuto i permessi per realizzarlo. C’è chi lo ha permesso per molto tempo e dice di non volerlo più. C’è chi lo permette oggi e dice che non dipende da lui. C’è chi dice che non farlo è un grave danno per la città e l’area tutta. C’è chi s’incazza ma non viene neanche preso in considerazione, se non viene anche denunciato per manifestazioni di protesta. L’unica cosa strana è che non sia ancora intervenuta la magistratura.

Anzi, la foto della grande nave in canale che nessuno può dirottare o fermare è proprio una sintesi dell’Italia di oggi. Ma così non può durare.

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Dies irae

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=KkssNMI_niE[/youtube]

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La sinistra? E’ giù in fondo, a destra

Sui due maggiori quotidiani italiani oggi compaiono due interviste interessanti sul concetto (e sulla prassi) di sinistra.

Sul Corriere della Sera online: “De Gregori: non voto più. La mia sinistra si è persa tra slow food e No Tav”. Ne riporto solo la prima parte.

Cos’ha votato alle ultime elezioni?
«Monti alla Camera e Bersani al Senato. Mi pareva che Monti avesse governato in modo consapevole in un momento difficile. Sono contento di com’è andata? No. Oggi non so cosa farei. Probabilmente non voterei. Con questo sistema, tanto vale scegliere i parlamentari sull’elenco del telefono».
Dice questo proprio lei, considerato il cantautore politico per eccellenza? L’autore de «La storia siamo noi», per anni colonna sonora dei congressi della sinistra italiana?
«Continuo a pensarmi di sinistra. Sono nato lì. Sono convinto che vadano tutelate le fasce sociali più deboli, gli immigrati, i giovani che magari oggi nemmeno sanno cos’è il Pd. Sono convinto che bisogna lavorare per rendere i poveri meno poveri, che la ricchezza debba essere redistribuita; anche se non credo che la ricchezza in quanto tale vada punita. E sono a favore della scuola pubblica, delle pari opportunità, della meritocrazia. Tutto questo sta più nell’orizzonte culturale della sinistra che in quello della destra. Ma secondo lei cos’è oggi la sinistra italiana?».
Me lo dica lei, De Gregori.
«È un arco cangiante che va dall’idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del “politicamente corretto”, una moda americana di trent’anni fa, e della “Costituzione più bella del mondo”. Che si commuove per lo slow food e poi magari, “en passant”, strizza l’occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini. Tutto questo non è facile da capire, almeno per me».

Su la Repubblica (p. 33) l’ennesima e giornaliera sortita di Massimo Cacciari: “Quella parola non serve più, chi la usa è un conservatore”. Di questa seleziono qualcosa in mezzo.

Neppure Bobbio, dieci anni dopo, la convinse a recuperare il concetto?
«Nel suo sforzo di definire le basi di un “tipo ideale” della sinistra, Bobbio ricorse all’idea guida di uguaglianza. Ma era una base disperatamente povera, non sorreggeva una vera dualità, una vera opposizione. Chi mai oggi promuove la diseguaglianza? Voglio dire, chi la propone apertamente come programma politico? E’ chiaro che la diseguaglianza esiste, anzi cresce, ma non è un’ideologia, è un fatto. La diseguaglianza non è il programma odioso di un avversario riconoscibile, semmai è la forma che ha assunto la globalizzazione, è l’anonimo che ha preso il volto dello stato di natura, dell’inevitabile, e nessuno se lo intesta. (…)»
Trent’anni fa lei si chiedeva se avesse senso tentare di recuperare la parola sinistra. Ha una risposta oggi?
«Sì, negativa. Quello che ha senso è ridefinire una politica di cambiamento. (…) Urgente è il fare. Rivolgersi ai problemi. Chiedersi cosa è l’Europa, cosa è nazione, come si affronta la globalizzazione. Non c’è un prontuario di sinistra per queste cose, perché la disposizione concettuale destra-sinistra è arcaica, lineare, mentre il mondo oggi è multidimensionale.»

Ecco, questi due mi mancavano. Dopo Giorgio Gaber che almeno queste cose le cantava nel 1994, dopo il Veltroni fondatore del Pd (oggi anche lui riparla di sinistra, è spesso fuori fase), dopo il Grillo fondatore del M5S, dopo un ventennio in cui i vecchi democristiani, che si sono sempre definiti di centro, sono tornati a governare appoggiati dai banchi di tutta la geometria parlamentare, dove si sono rimescolati, mi mancava uno che votando Monti (un governante “consapevole”) e un altro che ridicolizzando Bobbio (“nel suo sforzo” disperato ma inutile) venissero a dire che la distinzione destra-sinistra è “incompatibile con la modernità” (De Gregori) e “arcaica” (Cacciari).

Comunque, grazie. Se questi – in qualche modo, una volta, per un po’ – sono stati intellettuali di sinistra, anche se entrambi come uomini di spettacolo, adesso mi è più chiaro perché la sinistra non esiste. Ma forse no, è solo finita in basso, tanto in basso, in fondo a destra.

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Letture estive

Dovete ancora andare in vacanza e non sapete cosa leggere? Oppure ci siete già stati e volete riprendere con calma la solita vita? Oppure siete stati delusi dall’ennesima lettura, diciamo standard (Dan Brown, Andrea Camilleri o un altro best seller)? Allora forse posso aiutarvi. Cercherò di restare su libri usciti quest’anno, con poche pagine e piuttosto economici.

Intanto qualcosa di ecologico, per l’ambiente e la mente:
Federico Del Prete,
Compratevi una bicicletta! Come uscire dalla dipendenza da automobile e cambiare la propria vita, Ediciclo, Portogruaro 2013 (euro 14,90);
Emilio Rigatti e Sandro Supino,
Livenza da scoprire. Itinerario ciclabile e navigabile dalle sorgenti al Mare Adriatico, Ediciclo, Portogruaro 2013 (euro 14,50).

Poi, quest’anno ricorrono 500 anni (!!) dalla stesura del Principe di Machiavelli, quale miglior occasione per (ri)leggerlo? Ecco una versione accessibile e una lettura matura di uno dei maggiori esperti italiani del Segretario fiorentino (e già il titolo dà un’indicazione su un testo che sfata i luoghi comuni sullo stesso):
Niccolò Machiavelli,
Il Principe. Testo originale e versione in italiano contemporaneo di Piero Melograni, Mondadori, Milano 2013 (euro 9,00);
Maurizio Viroli,
Machiavelli. Filosofo della libertà, Castelvecchi, Roma 2013 (euro 16,50).

Quindi i libretti (ma sono solo interviste) di due filosofi francesi che ho sempre seguito (Morin è del 1921, Badiou del 1937):
Alain Badiou,
Elogio dell’amore. Intervista con Nicolas Truong, Neri Pozza, Vicenza 2013 (euro 14,00);
Edgar Morin,
Il mio cammino. Intervista di Djénane Kareh Tager, Armando Editore, Roma 2013 (euro 19,00).

Poi un libro di storia, storia vera ma raccontata meglio di Camilleri o Simenon:
Luciano Canfora, La guerra civile ateniese, Rizzoli, Milano 2013 (euro 19,00).

Per tornare ai nostri problemi di fondo:
Serge Latouche, Limite, Bollati Boringhieri 2012 (euro 8,00);
Guido Viale, Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli, Milano 2013 (euro 12,00).

Anzi, per finire con la stessa domanda e autori già citati:
Edgar Morin, Dove va il mondo?, Armando Editore, Roma 2012 (euro 14,00);
Serge Latouche e altri, Dove va il mondo? Un decennio sull’orlo della catastrofe, Bollati Boringhieri, Torino 2013 (euro 8,00).

Ma volevate narrativa? Qualcosa di più leggero? Avete sbagliato posto. Qui solo roba tutto sommato leggera, ma che aiuta veramente sia la mente che il fisico.

(Aggiornato il 25-09-2013.)

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Lavoro: serve qualche idea, forse vecchia

Lo so che siamo a fine luglio, che fa caldo, che ne farà ancor di più in questo fine settimana da record con Caronte che porterà temperature percepite fino a 43°. Ma a me preoccupa di più il termometro della disoccupazione.

Sull’ultimo The Economist, il settimanale inglese, le cifre correnti sono queste: USA 7,6%, China 4,1%, Japan 4,1%, Britain 7,8%, Euro Area 12,2%. In quest’ultima: France 10,9%, Germany 6,8%, Italy 12,2% (quindi nella media europea), ma Greece e Spain 26,9%. Un giornale economico online piuttosto “gridato” come il Wall Street Italia, anticipa che la Spagna farà come Detroit (fallirà), con la disoccupazione del prossimo anno al 28%.

Nelle stesse ore, il flemmatico premier italiano Enrico Letta ci fa sapere che con l’Expo 2015 avremo ben 800 nuovi posti di lavoro e (che novità!) con un modello contrattuale messo a punto coi sindacati che farà scuola.

Certo, 800 posti nuovi sono buoni, come è bene che si prevedano ben 18.500 volontari per accompagnare i visitatori… Ma la mia preoccupazione resta, non solo per il nuovo modello contrattuale, di cui temo anche la lettura. Infatti sono proprio preoccupato che ci saranno pochi visitatori. Non credo che basterà un invito e neanche un decreto del “Fare visita all’Expo”.

Il lavoro in Europa non aumenterà né per turismo né per decreto. Credo serva qualche nuova o vecchia idea, comunque diversa da quelle martellate a vuoto ormai da anni (crescita, vincolo competitivo, produttività, libertà in uscita, pareggio di bilancio, austerità, etc. etc.).

Forse serve proprio una diversa idea – magari vecchia – di società. Una società fondata sul lavoro di tutti, non sulla disoccupazione di molti.

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“Brutta aria per la democrazia”

Il problema attuale di noi italiani non è solo il governo che non c’è o c’è ma solo per trascinare una situazione economica disastrosa aspettando un miglioramento del ciclo che verrà. Per prima cosa è che siamo sempre in attesa di giudizio: dei mercati, della Commissione europea, delle società di rating, etc. Ed è così che ci siamo assuefatti ad ingoiare rospi sempre più grossi, il caso kazako è solo l’ultimo, l’importante è che vadano giù. Ma tale assuefazione è chiaramente un’anormalità, una patologia. Se non se ne rendono conto ai vertici politici ed istituzionali, che ne sono chiaramente anche la causa (Presidente della Repubblica e Pd in testa), comincia ad esser sempre più chiaro nell’intelligenza critica del Paese, residuale ma ancora vegeta.

Riporto solo la seconda parte dell’articolo di Ilvo Diamanti da la Repubblica di oggi (pagg. 1 e 22). (Evidenziazioni e periodizzazioni sono mie.)

Brutta aria per la democrazia
di Ilvo Diamanti

È questo il rischio maggiore che vedo, nell’Italia dei nostri tempi. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale. Che ha come principale – e quasi unica – soluzione la sfiducia politica e istituzionale. Quel clima d’opinione che si traduce nel “non voto”. Oppure viene intercettato, in alcuni momenti, da attori politici, oppure anti-politici, come il M5S. Usati, a loro volta, dagli elettori come veicoli della sfiducia, piuttosto che come garanti delle regole.

L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale, d’altronde, alimenta il disincanto se non l’indifferenza verso la democrazia. In particolare, rafforza l’abitudine a fare a meno dei vincoli e delle garanzie che contrassegnano le democrazie rappresentative. A partire dai princìpi. Per primo, il rapporto diretto tra volontà degli elettori, espressa attraverso il voto, e composizione del governo.

Tuttavia, da due anni, il Paese è governato da esecutivi sostenuti da maggioranze “non politiche”. Cioè, da larghe intese imposte – e, comunque, giustificate – dall’emergenza. Dove convergono e coabitano gli antagonisti di sempre. Dove si perdono le distinzioni antiche e recenti. Non solo fra pro e anti-berlusconiani, ma fra destra e sinistra.

D’altronde, se da due anni il Pd sta in una maggioranza insieme al centrodestra di Berlusconi, è difficile discutere di destra e sinistra. Non solo nei termini sintetizzati da Norberto Bobbio in un notissimo saggio del 1994. Anno della discesa in campo di Berlusconi. Ma anche in quelli proposti dalla discussione fra Eugenio Scalfari e Michele Serra, su Repubblica, nei giorni scorsi.

Il problema è che l’assenza di competizione e di alternativa politica narcotizza il sentimento democratico. Ci abitua a governi “tautologici”: in nome della governabilità. Governi di tutti e dunque di nessuno. Indifferenti ai verdetti elettorali. Alle alternative – a cui gli italiani sono poco avvezzi. Visto che nella prima Repubblica, quindi per oltre 45 anni, non c’è stata alternanza. Stesse forze al governo – Dc e alleati – e all’opposizione – Pci e sinistra.

Così, poco a poco, ci si assuefà. A una democrazia-per-così-dire. Non si tratta neppure più della post-democrazia, ridotta al rito elettorale, cui fa riferimento Colin Crouch. Perché, nella post-Italia, descritta da Berselli giusto 10 anni fa, anche il rito elettorale è divenuto indifferente e irrilevante. La polemica politica e fra politici esiste solo nei talk televisivi. La partecipazione dei cittadini diventa poco influente e rilevante. Emerge ed è visibile solo attraverso alcune esplosioni di protesta “localizzate”, su problemi territorialmente definiti (come quella dei No Tav, in Val di Susa).

È una democrazia “eccezionale”, dove l’eccezione è la regola. Dove, per l’Opinione Pubblica, l’anormalità diventa normale. Dove i casi di questi giorni, di queste settimane, di questi anni non suscitano scandalo e tanto meno indignazione. Abbassano appena gli indici del consenso al governo e al premier. Senza comprometterli. Si traducono, al massimo, in un’onda anomala del voto o del “non voto”. Mentre gli “anticorpi della democrazia”, come li ha definiti Giovanni Sartori, finiscono liquefatti nel “senso comune”. Assai più diffuso e influente, in Italia, del “senso civico”.

Per questo conviene preoccuparsi. Io, almeno, mi preoccupo. Sulla nostra democrazia rappresentativa: tira una brutta aria.

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