L’Altra Europa con Tsipras: il programma

Abbiamo tre priorità politiche:

1. Porre fine all’austerità e alla crisi.
2. Mettere in moto la trasformazione ecologica della produzione.
3. Riformare le politiche dell’immigrazione in Europa.

E un programma politico riassumibile in dieci punti:
1. Immediata fine dell’austerità. L’austerità è una medicina nociva e per di più somministrata al momento sbagliato con devastanti conseguenze per la coesione della società, per la democrazia e per il futuro dell’Europa. Una delle cicatrici lasciate dall’austerità che non mostra segni di guarigione è la disoccupazione, in particolare tra i giovani. Oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell’Unione Europea, di cui più di 19 milioni nell’Eurozona. La disoccupazione ufficiale nell’Eurozona è salita dal 7,8% nel 2008 al 12,1% nel novembre 2013. In Grecia, dal 7,7% al 24,4% e in Spagna dal 11,3% al 26,7% nello stesso periodo. La disoccupazione giovanile in Grecia e Spagna si aggira intorno al 60%. Con 4,5 milioni di under-25 disoccupati, l’Europa firma la sua condanna a morte.
2. Un New Deal europeo. L’economia europea ha sofferto sei anni di crisi, con disoccupazione media sopra il 12% e il rischio di una depressione pari a quella degli anni ’30. L’Europa potrebbe e dovrebbe prendere in prestito denaro a basso interesse per finanziare un programma di ricostruzione economica focalizzato sull’impiego, sulla tecnologia e sulle infrastrutture. Il programma aiuterebbe le economie colpite dalla crisi ad emergere dal circolo vizioso di recessione e incremento del debito, creare posti di lavoro e sostenere il recupero economico. Gli Stati Uniti ce l’hanno fatta. Perché non noi?
3. Espansione dei prestiti alla piccola e media impresa. Le condizioni dei prestiti in Europa sono disastrose, e le piccole e medie imprese sono quelle colpite più duramente. In migliaia, soprattutto nel sud dell’Europa, sono state costrette a chiudere non perché non erano sostenibili, ma perché il credito era esaurito. Le conseguenze per i posti di lavoro sono state terribili. Tempi straordinari richiedono misure straordinarie: la banca centrale europea dovrebbe seguire l’esempio delle banche centrali degli altri paesi e fornire prestiti a basso interesse alle banche solo se queste accettano di di fare credito con bassi interessi alle piccole e medie imprese.
4. Sconfiggere la disoccupazione. La disoccupazione media europea è la più alta mai registrata. Molti dei disoccupati rimangono senza lavoro per più di un anno e molti giovani non hanno mai avuto l’opportunità di ricevere un salario per un impiego decente. La maggior parte della disoccupazione è il risultato dello scarso o nullo sviluppo economico, ma anche se la crescita riprenderà, l’esperienza insegna che è necessario molto tempo perché la disoccupazione torni al livello di prima della crisi. L’Europa non può permettersi di aspettare così a lungo. Lunghi periodi di disoccupazione sono devastanti per le abilità dei lavoratori, specialmente i giovani; questo nutre l’estremismo di destra, indebolisce la democrazia e distrugge l’ideale europeo. L’Europa non deve perdere tempo, deve mobilitarsi e ridirigere i Fondi Strutturali per creare significative possibilità d’impiego per i cittadini. Laddove i limiti fiscali degli stati membri sono troppo stretti, i contributi nazionali devono essere azzerati.
5. Sospensione del nuovo sistema fiscale europeo. È richiesto, anno per anno, il pareggio di bilancio indipendentemente dalle condizioni economiche dello stato membro. Questo impedisce l’uso di politiche fiscali come strumento di stabilità e crescita nei momenti di crisi, cioè quando è più necessario. L’Europa necessita invece di un sistema fiscale che assicuri la responsabilità fiscale sul medio termine e allo stesso tempo permetta agli stati membri di usare lo stimolo fiscale durante una recessione. Una politica modificata ciclicamente che esenti gli investimenti pubblici è necessaria.
6. Una vera e propria banca europea che possa prestare denaro come ultima risorsa per gli stati-membri e non solo per le banche. L’esperienza storica suggerisce che le unioni monetarie di successo necessitano di una banca centrale che adempia a tutte le funzioni di una banca e non serva solo a mantenere la stabilità dei prezzi. Il prestito a uno stato bisognoso dovrebbe essere incondizionato e non dipendente dall’accettazione di un programma di riforme con il meccanismo di stabilità europea. Il destino dell’Euro e la prosperità dell’Europa dipende da questo.
7. Aggiustamento macroeconomico: i paesi che hanno surplus economico dovrebbero lavorare con i paesi in deficit per bilanciare l’andamento macroeconomico all’interno dell’Europa. L’Europa dovrebbe monitorare, valutare e stimolare l’azione dei Paesi in surplus per alleviare la pressione unilaterale sui Paesi in deficit. L’attuale squilibrio non danneggia solo i paesi in deficit. Danneggia l’intera Europa.
8. Una Conferenza del Debito Europeo. La nostra proposta è ispirata ad uno dei più lungimiranti momenti nella storia politica Europea: l’Accordo di Londra sul Debito del 1953, che alleviò il peso economico della Germania, aiutando a ricostruire la nazione dopo la guerra e aprendo la strada per il suo successo economico. L’Accordo non richiedeva il pagamento della metà dei debiti, sia privati che intergovernativi ma legava i tempi del pagamento alla possibilità del Paese di restituire, diluendo il ripianamento su un periodo di 30 anni. Collegava il debito allo sviluppo economico, seguendo una implicita clausola di crescita: nel periodo tra il 1953 e 1959 gli unici pagamenti dovuti sono stati gli interessi del debito, per concedere alla Germania il tempo di recuperare. A partire dal 1958, l’Accordo prevedeva pagamenti annuali che diventarono sempre meno significativi con la crescita dell’economia. L’accordo prevedeva che la riduzione dei consumi della Germania, quello che oggi chiamiamo “devalutazione interna”, non fosse un metodo accettabile: i pagamenti erano condizionati dalla possibilità di pagare. L’Accordo di Londra rimane un piano d’azione utilizzabile anche oggi. Non vogliamo una Conferenza del Debito Europeo per il Sud dell’Europa, vogliamo una Conferenza del Debito Europeo per l’Europa. In questo contesto, si devono usare tutti gli strumenti politici disponibili, inclusi i prestiti dalla Banca Europea come ultima risorsa oltre alla istituzione di un debito sociale europeo, come gli Eurobond, per sostituire i debiti nazionali.
9. Un Atto Glass-Steagall Europeo. Bisogna separare le attività concrete dagli investimenti bancari finanziari per prevenire la loro trasformazione in una sola entità incontrollabile.
10. Una legislazione Europea che renda possibile tassazione delle attività finanziarie e imprenditoriali offshore.
L’Altra Europa con Tsipras
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Tra bolscevismo e blairismo

Riporto integralmente un articolo odierno, solo qualche evidenziazione per “alleggerire” la lettura.

Gli autodafé dei democratici
di Barbara Spinelli

Per il modo in cui è stata congegnata, per le doppiezze che l’hanno contraddistinta, per i regolamenti di conti con cui s’è conclusa, l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo ha il sapore di certi cambi di guardia al Cremlino. Un esorbitante partito-Stato si fa macchina di potere, usa i propri uomini come pedine, li uccide politicamente se ingombrano, tradisce la parola data senza spiegazioni.
Il tutto avviene “a porte chiuse”, come nel dramma claustrofobico di Sartre: lontano dal Parlamento, dalla prova elettorale che era stata assicurata, da una società che il partito-Stato non sa più ascoltare senza vedere, dietro ogni cittadino, l’inferno molesto di qualche populismo. La liquidazione di Enrico Letta è avvenuta in streaming, ma sostanzialmente fuori scena: secondo Carmelo Bene, questa è l’essenza dell’osceno. Non sarà forse così, Renzi riuscirà forse a realizzare quel che promette: un piano lavoro entro marzo, soprattutto. Ma l’inizio incoraggia poco. Per la terza volta, in un Parlamento di nominati, il Pd designa per Palazzo Chigi un nominato.
È già accaduto in passato: basti ricordare il sotterraneo lavorio contro il governo Prodi, nel ’98. E più di recente, in aprile, il tradimento di 101 parlamentari Pd che avevano giurato di votare Prodi capo dello Stato e in un baleno l’affossarono. Colpisce la coazione a ripetere il gesto violento, e a scordare subito i traumi lasciati dalle coltellate. Una famosa giornalista francese, Françoise Giroud, scrisse una volta: “Ogni capo politico deve avere l’istinto dell’assassino”. Il coltello non è più un incidente. S’è fatto istinto, tendenza innata.
La cosa straordinaria, e solo in apparenza paradossale, è che la macchina del Pd cresce in potenza, man mano che organizza autodafé e perde i contatti con la società. Già da tempo ha smesso di identificarsi con la sinistra: parola da cui fugge, quasi fosse un fuoco che scotta e incenerisce. Già da tempo non si preoccupa di parlare in nome degli oppressi, degli emarginati, ed è mossa da un solo obiettivo: il potere nello Stato, attraverso lo Stato. Letta ha preparato il terreno, ma non guidava il Pd. Ora è un capo-partito a ultimare la metamorfosi: l’abbandono della rappresentatività, la governabilità che diventa movente unico, l’oblio della sinistra e della sua storia.
Ovvio che l’istinto a tradire si tramuti in normalità. Può darsi che Renzi cambi l’Italia in meglio, che renda lo Stato addirittura più giusto. Che non si spenga in lui la memoria del consenso popolare ottenuto alle primarie. Ma il come ancora non lo sappiamo, la coalizione è quella di ieri, e la macchia della defenestrazione di Letta gli resta appiccicata al vestito. Difficile dimenticarla. Difficile dimenticare le parole carpite lunedì a Fabrizio Barca. Il quale grosso modo ha detto questo: “C’è chi mi vuole ministro dell’Economia. Ma per fare che? Per imporre una patrimoniale di 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta e però non è nei piani?”.
Questo svanire della sinistra è un fenomeno europeo diffuso, ma in Italia è particolarmente accentuato. Nell’Unione sono ormai undici i Paesi governati da Grandi Coalizioni, in teoria non siamo molto diversi. Quel che è anomalo, nei connubi ideologici italiani, è il discredito profondissimo gettato sulla stessa parola sinistra, l’annebbiarsi della sua storia, del suo patrimonio, della sua vocazione alla rappresentanza. Altrove la sinistra classica, quella che dà voce ai deboli, possiede ancora uno spazio. Perfino laddove ha le tenebre alle spalle, come in Germania (la Linke è erede di un regime totalitario, nell’Est tedesco) non cancella d’un colpo quel che la lega alla società. Nel Congresso sull’Europa dello scorso fine settimana la Linke ha provato a cambiare la propria storia evolvendo, ha aperto all’Unione che esecrava. Ma il nome che porta non lo cambia.
Non così in Italia, dove la sinistra precipita dalle scale e si ritrova vocabolo non grato. È la vittoria postuma di Bettino Craxi ed è il lascito di Berlusconi, con cui il Pd di Renzi intende riformare la Costituzione. Della grande idea avanzata da Prodi negli anni Novanta – unire il solidarismo universalista cristiano e quello comunista – non resta che brace spenta.
La scomparsa della sinistra non significa tuttavia che siano scomparsi i mali che la giustificarono in passato: la questione sociale è di ritorno, la disuguaglianza di redditi e opportunità s’è estesa in questi anni di crisi, nessun Roosevelt è in vista che la freni. E la riduzione della disuguaglianza, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, rimane il più antico e vivo retaggio della sinistra. È sperabile che il piano-lavoro di Renzi non sacrifichi per l’ennesima volta una lotta che deve essere di rottura, e non per motivi ideologici ma perché l’Italia è rotta da sofferenze e avvilimenti. Che non lasci il proprio elettorato inerme, senza rappresentanza, e non ascolti solo quegli economisti politici che Marx chiamava “bravi sicofanti del capitale”, dediti “nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale a cercare mezzi artificiosi per produrre la povertà delle masse“.
Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia. Se le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente, se si parla oggi di un 1% della popolazione che continua imperturbato ad arricchirsi e di un 99% di impoveriti (classi medie comprese), lo si deve alle destre più legate ai mercati ma anche alla Terza Via di Blair. Le ricette di Margaret Thatcher non morirono con il Nuovo Labour, e sopravvissero nella battaglia accanita contro un’Europa più unita e solidale. L’idea thatcheriana che “la società non esiste se non come concetto”, che esistono “solo individui e famiglie con doveri e convinzioni”, è interiorizzata dal Pd nel preciso momento in cui la realtà l’ha smentita e sconfitta.
L’homo novus di Firenze suscita grandi aspettative, ed è vero quel che dice: leadership non è una parolaccia. Ma fin dalla prime sue mosse, negoziando con il pregiudicato Berlusconi la legge elettorale, il leader ha fatto capire che la rappresentatività è un bene minore. Il suo Pd stenta a mediare fra società e Stato. È degenerato in “cartello elettorale stato-centrico”, sostiene Piero Ignazi: è parte dello Stato anziché controparte; ha un potere che tanto più si dilata al centro, quanto più si sfilaccia il legame con gli iscritti, le periferie, la democrazia locale (Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza 2012). Per questo l’odierno sviluppo partitocratico è solo in apparenza paradossale.
Mandare in fumo l’eredità della sinistra – la lotta alla disuguaglianza, la difesa del bene pubblico – induce il Pd a trascurare l’arma principale evocata da Barca: la tassazione progressiva dei patrimoni più elevati (articolo 53 della Costituzione). L’economista Joseph Stiglitz fa calcoli più che plausibili, anche per l’Italia: “Se chi appartiene al primo 1 per cento incassa più del 20 per cento del reddito della nazione, un incremento del 10 per cento dell’imposta sul reddito (senza possibilità di sfuggirvi) potrebbe generare entrate pari a circa il 2 per cento del Pil del Paese”.
Renzi punta sulla propria lontananza dai giochi partitici, sul successo che gli ha garantito la base. Ma quel che avviene nelle ultime ore rischia di vanificare la sua diversità: il Parlamento costretto a tacere sulle modalità bolsceviche della liquidazione di Letta, il cambio deciso “fuori scena”, sono segnali nefasti. Torna alla ribalta la politica, ma impoverita democraticamente. Tornano i partiti; mentre i cittadini coi loro rappresentanti stanno a guardare. Come meravigliarsi che la società si radicalizzi, quando è la realtà a farsi sempre più radicale?

(la Repubblica, 19 febbraio 2014)

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Tasse e spesa pubblica

Seconda puntata breve sulle tasse. (Anche se il nuovo premier incaricato ha già comunicato una scaletta dove la riforma fiscale viene messa in fondo.)

Pubblico un articolo di due vecchie conoscenze, che ripetono cose vecchie (p.es. la distinzione tra fisco e previdenza) e ne ribadisce due vecchissime ma attualissime: (1) solo un miglioramento dei redditi bassi può migliorare tutto il sistema, (2) servono grandi investimenti pubblici.

Tasse e spesa pubblica, il coraggio di cambiare
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini
Da quando è scoppiata la crisi si è messa in moto una spirale perversa: il divario nella distribuzione del reddito è aumentato, i consumi non hanno fatto che diminuire, gli investimenti privati sono crollati, le fosche prospettive di crescita hanno spinto le banche a ridurre drasticamente i prestiti alle famiglie e alle imprese (60 miliardi di euro in meno nel 2013). La caduta delle vendite e dei finanziamenti bancari ha determinato il fallimento di decine di migliaia di piccole imprese e ha spinto le imprese più grandi a trasferire la produzione in paesi a bassi salari e minore pressione fiscale. Di conseguenza, l’attenzione si è concentrata sull’insostenibilità del prelievo fiscale, sebbene le tasse fossero già alte da anni. In questo quadro la ricetta che viene riproposta si basa sulla flessibilità del lavoro, sui tagli alla spesa pubblica e sulle privatizzazioni.
Eppure un economista come Innocenzo Cipolletta, da sempre vicino agli ambienti industriali e finanziari, ha da poco pubblicato un libro dal titolo emblematico: “In Italia paghiamo troppe tasse? Falso!”. Secondo l’Eurostat, infatti, la spesa pubblica italiana al netto degli interessi è inferiore dell’1,6% rispetto alla media dell’Eurozona e se è vero che il totale delle entrate pubbliche raggiunge il picco di 684 miliardi di euro, è altrettanto vero che le tasse effettive sono pari a 472 miliardi di euro. Il resto rappresenta contributi sociali, cioè accantonamenti obbligatori che poi vengono restituiti sotto forma di pensioni. Corretta in questo modo la pressione fiscale italiana è inferiore persino a quella della Gran Bretagna e prossima alla media europea. Il problema del prelievo fiscale è la sua iniquità: troppo alto sui redditi da lavoro, sulle pensioni, sull’energia e sulle imprese, basso sulle rendite finanziarie, sui patrimoni e sui consumi voluttuari e inquinanti.
Per contrastare il divario tra ricchi e poveri, Barack Obama ha annunciato che, scavalcando il Congresso, emetterà un decreto per alzare dal prossimo anno il salario orario minimo per i nuovi contratti dei lavoratori federali a 10 dollari dal valore attuale di 7 dollari. Si tratta di un intervento che, seppure circoscritto a una piccola parte di lavoratori, rappresenta un segnale significativo per invertire una tendenza che dura ormai da troppi anni.
Sono dunque necessarie misure di grande portata per bloccare la spirale che ci sta trascinando a fondo. Ovviamente l’Europa può costituire il motore della ripresa economica e per questo bisognerà sfruttare al meglio il semestre di presidenza europea che parte a luglio del 2014. Ma nel frattempo dobbiamo prendere iniziative qui in Italia.
Uno dei punti critici è rappresentato dal sistema bancario che, diversamente dalla fase precedente alla crisi del 2008, non sta più finanziando in modo adeguato l’economia reale. In questo ambito c’è un errore strategico delle autorità europee: il vano sforzo di far ricapitalizzare le banche attraverso l’immissione di nuove risorse finanziarie. Questi interventi non saranno mai sufficienti se non riparte il ciclo economico: solo la ripresa della domanda, infatti, renderà gli attivi bancari più liquidi e farà aumentare la capitalizzazione delle banche. Pertanto, è cruciale che le risorse finanziarie siano impiegate per sostenere i consumi e i redditi bassi e per creare nuova occupazione anche nel settore pubblico.
E qui si ricollega la questione del decreto sulla rivalutazione delle quote bancarie di Bankitalia che ha sollevato un gran polverone. Mentre il Governo incasserà nell’immediato un extra-gettito fiscale e le banche conseguiranno un rafforzamento patrimoniale, le imprese e le famiglie non avranno nessuna garanzia di avere maggiore credito se la crescita dell’economia non riparte. Per contrastare la carenza di moneta nell’economia reale sarebbe opportuno ricorrere anche alle monete complementari: i titoli di Stato come i Bot potrebbero avere un ruolo importante in tale strategia.
Per concludere, se è vero che il destino del nostro Paese dipende dalle future politiche europee, è altrettanto vero che in Italia è giunto il momento di mettere all’opera delle politiche dei redditi, fiscali e creditizie all’altezza della gravità della situazione. Ed è necessario promuovere grandi investimenti pubblici attivando sia le imprese sotto il controllo dello Stato che la Cassa Depositi e Prestiti. I margini di manovra, seppure esigui, esistono e vanno sfruttati nel migliore dei modi.
la Repubblica, 18 febbraio 2014
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“La ricchezza deve essere tassata”

Finalmente parliamo di tasse in modo diverso. “La ricchezza deve essere tassata”, dice  Thomas Piketty, economista francese. Parla proprio di tasse sul patrimonio, non sul reddito. E considera questa una grande novità. (Riporto il link e l’ultima parte.)

«L’imposta progressiva sul reddito è stata la grande innovazione fiscale del XX secolo. L’imposta progressiva sul capitale potrebbe giocare un ruolo analogo nel XXI secolo. È l’istituzione adeguata a permettere alla democrazia e all’interesse generale di riprendere il controllo degli interessi privati e delle dinamiche non egualitarie all’opera, pur preservando l’apertura economica e le forze della concorrenza, respingendo i rigurgiti nazionalisti, protezionisti e identitari che condurranno solo a frustrazioni ancora più terribili».
«A dire il vero, esistono già un po’ dappertutto imposte annuali sul patrimonio, in particolare quello immobiliare, attraverso tasse fondiarie. Certi paesi, come la Francia e la Svizzera, hanno anche un’imposta progressiva sul patrimonio globale (immobiliare e finanziario), tipo imposta sulla ricchezza. La Spagna ha ristabilito l’imposta sulla ricchezza che Zapatero aveva soppresso. Monti ha introdotto in Italia una nuova imposta sul patrimonio (sfortunatamente con un tasso otto volte più alto sull’immobiliare che sugli attivi finanziari, che ha provocato un fortissimo senso di ingiustizia). Questa questione adesso è dibattuta attivamente in Germania. Tenendo conto degli altissimi livelli di capitalizzazione patrimoniale osservati attualmente in Europa e della stagnazione dei redditi e della produzione, bisognerebbe essere pazzi per rinunciare a una base fiscale simile: questo va al di là della destra e della sinistra».
«Il problema è che imposte simili non possono essere prelevate correttamente a livello strettamente nazionale: bisogna anche passare su scala regionale, continentale, perfino mondiale. Può sembrare utopistico. Ma in un certo senso è in questa direzione che vanno i progetti attualmente in discussione di trasmissione automatica di informazioni bancarie internazionali. Simili accordi permetterebbero a ogni amministrazione nazionale di realizzare un sistema di dichiarazione dei patrimoni precompilata che raccolga tutti gli attivi immobiliari e finanziari di un dato individuo. Per arrivare a questo, bisognerebbe tuttavia applicare sanzioni molto più pesanti di quelle pensate attualmente (compresa la recente legge americana, che è molto più timida di quanto talvolta si senta dire). In questo campo esiste uno scarto a volte abissale tra le dichiarazioni trionfalistiche dei responsabili politici e la realtà di quello che fanno. Soprattutto, questa questione della trasparenza finanziaria è inseparabile dalla riflessione sull’imposta sul capitale. Se non si sa molto bene che cosa si vuole fare di tutte queste informazioni, allora è probabile che questi progetti facciano fatica ad andare a buon fine».
«Piuttosto che continuare a liberalizzare ancora di più gli scambi commerciali proprio quando non sono mai stati così liberi, ecco un obiettivo molto più utile che il futuro trattato euro-americano potrebbe darsi: un’imposta minima sul capitale basata su un vero catasto finanziario mondiale».
© Le Nouvel Observateur (pagina99, 17 febbraio 2014)
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La grande staffetta italiana

State tranquilli, non mi occupo qui dell’attuale staffetta tra il pisano Enrico Letta ed il fiorentino Matteo Renzi, ma di quella storica tra il fiorentino Michelangelo Buonarroti ed il pisano Galileo Galilei.

Questi si sono passati il testimone 450 anni fa. Michelangelo Buonarroti (Caprese Michelangelo, 6 marzo 1475 – Roma, 18 febbraio 1564) e Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642): il primo è morto dopo tre giorni che il secondo era nato. Solo tre giorni, eppure a me viene facile unirli, leggerli insieme. Perché? Cosa hanno in comune questi due uomini?

Sono stati certamente longevi per i loro tempi (quasi 89 anni Michelangelo, quasi 78 anni Galileo). Erano entrambi di origine fiorentina, perché il primo nacque per caso in provincia (ora di Arezzo), il secondo per caso a Pisa. Ed entrambi sono sepolti a Firenze, in Santa Croce. Ma hanno fatto cose diversissime tra loro, riuscendo il primo a lasciar segni profondi nella scultura, nella pittura e nell’architettura, mentre il secondo ha letteralmente inventato la nuova indagine della natura, mettendo insieme l’osservazione sperimentale e l’astrazione matematica come nessuno prima di lui.

Hanno vissuto tempi certamente non facili (anche se non c’era ancora l’euro). Michelangelo visse appieno l’epoca delle guerre d’Italia (1494-1559), in un tempo in cui c’erano poche certezze anche per chi aveva il potere, come scriveva il Machiavelli. Galileo invece visse nel cuore del dominio spagnolo e clericale, cercando i pochi angoli disponibili, come a Padova (1592-1610), nella Repubblica veneziana, prima di dover scendere anche lui a compromessi con chi deteneva la Verità.

Ma entrambi avevano uno spirito che guardava avanti, al futuro. Facevano, costruivano qualcosa per essere utilizzato nel tempo. Per Michelangelo dipingere la volta della Cappella Sistina, con tutti quei corpi nudi poi pudicamente ricoperti, come progettare la tomba di Giulio II, con il Mosè che guarda di sbieco per non vedere quella chiesa lì, significava rileggere la tradizione e rimettere al centro l’uomo. Per Galileo, mettere in Dialogo – cioè a confronto – i modelli geocentrico ed eliocentrico, significava mettere per iscritto il diritto del pensiero alla critica ed al cambiamento.

Lavoravano su due cose diverse, ma guardavano criticamente il passato per cambiare. Il loro presente era tensione al futuro. Ecco perché ricordo volentieri questa staffetta.

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Marco Pantani, la leggenda finale

Dieci anni fa moriva Marco Pantani (Cesena, 13 gennaio 1970 – Rimini, 14 febbraio 2004), l’ultima leggenda del ciclismo su strada, probabilmente quella finale.

Si sono scritte e pubblicate tante cose, ma su Pantani il migliore resta sempre Gianni Mura che non pretende di saperne più di altri, ma solo di continuare ad avere dei dubbi. Estraggo questo:

Come quella di Pantani. Che ha due grandi punti interrogativi su due stanze d’albergo. Una è quella di Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della fine. Come mai, trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue di Pantani presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza D5 del residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe Brunel dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato demolito in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana.
I dubbi non restano in chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù dalla bici, o solo come di un angelo innocente tirato giù dal cielo. Rivivere quegli anni, tra la fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come seguire le piste dell’Epo. Pantani ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che misura? Pastonesi cita livelli alquanto alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì, a parità di carburante. Ma, a Pantani morto, è saltato fuori che su qualcuno (Armstrong) l’Uci teneva aperto un larghissimo ombrello.
Per onestà, come Pastonesi ha scritto che Pantani non era uno dei suoi, devo scrivere che Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i vecchi ciclisti, in corsa faceva di testa sua, non usava il cardiofrequenzimetro e quando s’allenava dalle sue parti beveva alle fontane e mangiava pane e pecorino. Perché, più ancora delle vittorie, ricordo l’attesa delle vittorie, o comunque dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente, come un ascensore sonoro fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di quella bicicletta, e i francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli piaceva ascoltare Charlie Parker.
(Gianni Mura, “Pantani, un uomo sempre solo, quando vinceva e quando sbandava”, la Repubblica, 11 febbraio 2014)
Dove i riferimenti sono:
Pastonesi Marco, Pantani era un dio, 66th and 2nd, Roma 2014;
Brunel Philippe, Gli ultimi giorni di Marco Pantani, Bur, Milano 2011.

Per una sintesi anche sportiva rimando (immodestamente) anche alla Lettera a Fausto del 1° agosto 2009, su questo stesso sito. Dove (modestamente) Marco scriveva già a Fausto: “A Parigi mi sentivo un dio. Ero bello come un dio. Ero un dio.”

Infine, commemorare Pantani con la foto di lui ed Armstrong sul Mont Ventoux nel 2000 è volutamente provocatorio. Con Armstrong – che è il simbolo dell’organizzazione del business sportivo nel mondo attuale – il ciclismo storico è finito definitivamente, ci resteranno solo alcune leggende, come quella di Marco Pantani.

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Electrolux. A Porcia, senza illusioni

Noi portogruaresi siamo decisamente dentro alla questione Electrolux. Sappiamo che se si svuotasse un sito industriale che occupa 1.200 persone direttamente e altre 4-5mila indirettamente si produrrebbe un buco nero tale da risucchiare tutta la nostra galassia economica, cioè ben oltre i 30 km che ci separano da Porcia.

La vicenda Electrolux ha avuto un’eco nazionale, ma molte questioni non sono state affrontate dai media, sia per insipienza che per reticenza. In quello che sembra essere un momento di pausa della discussione vorrei partire da un paio di aspetti evocati da due ex manager, protagonisti storici.

Il primo è Aldo Burello. Classe 1935, già nel 1960 era capo della progettazione lavaggio. Dal 1984, con l’arrivo di Electrolux, ha assunto progressivamente un ruolo nella direzione generale. Dal 1990 al 2002, quando è andato in pensione, è stato l’ad della società italiana, oltre che nodo importante dell’organigramma di gruppo. E’ il padre di questo stabilimento di Porcia. Di una sua intervista del 29 gennaio a Il Messaggero Veneto riporto solo il finale:

Porcia si salverà?
«Ho forti timori e mi dispiacerebbe molto perché questa fabbrica è stata una mia creatura. Ma non bisogna darsi per vinti e tentare di tutto per salvarla perché se chiude anche le altre fabbriche, in tempi successivi, chiuderanno. Inoltre, a mio avviso, bisogna resistere per i prossimi 5 anni perché a quel tempo in Polonia ci saranno tanti di quei problemi che Electrolux si pentirà di aver concentrato in quell’area una potenza produttiva di quelle proporzioni».
Nel frattempo?
«Nel frattempo l’Italia deve rivedere il costo del lavoro, della burocrazia, dell’energia… Deve mettere mano ai tanti gap competitivi che oggi penalizzano le imprese».
Se potesse dare un consiglio…
«Pordenone ha un assessore regionale alle Attività produttive che è anche vicepresidente della Regione al quale andrebbe affidato il compito di gestire questa vicenda beneficiando dei contatti che la presidente ha a Roma come a Bruxelles, e poi si faccia squadra con gli altri presidenti di Regione di fronte al Governo che però non so se avrà risorse da mettere in campo per scoraggiare Electrolux dai suoi propositi».

In tutta la discussione, ci sono stati pochi riferimenti ai siti potenziali concorrenti di Porcia. Qui Burello accenna alla Polonia, di cosa si tratta? Credo non sia un riferimento generico, né troppo interno, specifico di Electrolux. Credo si riferisca alla particolare situazione della Polonia come paese agevolato.

Nel quinquennio 2014-2020 l’Ue mette a disposizione 72,9 miliardi di euro (attenzione alla cifra!) per favorire gli investimenti in 14 ZES (Zone Economiche Speciali) della Polonia. Anche se appare favoritissima l’industria automobilistica e quindi tedesca, in una di queste zone c’è lo stabilimento di Oława.

I vantaggi nell’investire in Polonia in questo periodo sono enormi, tali da assorbire nei conti della multinazionale svedese i possibili costi della chiusura di uno stabilimento come Porcia. Le tentazioni dunque ci sono e rimangono tutte. (Certo, per noi italiani è paradossale contribuire al finanziamento Ue per far chiudere le nostre attività industriali. Chissà se chiamano anche questo “vincolo competitivo”.)

Burello, con molto realismo, tocca in fondo un problema della politica industriale, nazionale e locale: bisogna che la politica si dia gli strumenti adatti. Ci torneremo.

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Renzi? Teniamolo caldo

Il paese è alla deriva. La politica al marasma. Il governo è nudo. Il Pd è in coma – o meglio resuscita il 20 di febbraio (tra 10 giorni!), con una direzione decisiva per le sorti di tutti noi. Ma ci sono delle vie d’uscita? Ci sono energie residue o mal utilizzate da chiamare ancora a raccolta? Come ci attrezziamo? Sentite cosa pensa una nostra vecchia conoscenza.

Massimo Cacciari dà la sua pressoché quotidiana intervista. Il suo ragionamento è semplice. Renzi non s’intrighi con questa situazione. E’ compito del governo “definire al più presto un programma decente per affrontare l’emergenza occupazionale e favorire la ripresa industriale” (una monata!). Ma Renzi non continui a dar segnali sul suo possibile coinvolgimento diretto. Anzi:

«Se ci giochiamo anche Renzi, non resta più niente. (…) Cerchiamo di salvaguardare quel piccolo patrimonio che il sindaco di Firenze senza dubbio rappresenta: è giovane, è un animale politico, ha dimostrato indubbie qualità. (…) Lo vedo un po’ bulimico, ma non c’è dubbio che sia virtuoso. Ecco, si dia una regolata, metta un po’ d’ordine in questa sua virtù».
(la Repubblica, 10 febbraio 2014, p.10)

Se ho ben capito, è come se in questa situazione ci possano essere due mondi, due sfere separate. Il governo Letta che trascina (ma bene, mi raccomando!) la situazione attuale, Renzi che prepara tutto il cambiamento possibile, ma questo comincia solo tra diciotto mesi. Dietro parole di questo tipo vedo solo la coazione a parlare. Poveri noi.

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Tsipras, un greco come leader europeo

Oggi la Repubblica (p.11) pubblica un’intervista con Alexis Tsipras raccolta durante il suo tour italiano di questi giorni. Il mio link è dal sito di ALBA.
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L’intervista
Tsipras e la sfida di sinistra alla Ue
“La linea Merkel porta solo povertà per batterla cerco alleati in Italia”

Il leader greco di Syriza oggi a Roma per lanciare la sua lista
ETTORE LIVINI
MATTEO PUCCIARELLI
MILANO — È la stella della sinistra radicale europea. Neanche 40 anni, Alexis Tsipras è riuscito a trasformare la litigiosa e minoritaria area greca neo-post comunista in un unico soggetto (Syriza) diventato — secondo i sondaggi — il primo partito. È all’opposizione del governo di larghe intese, e più passano mesi e più i suoi consensi aumentano. La prossima sfida è però continentale: per questo la sinistra europea (Gue) lo ha candidato alla presidenza della Commissione. Un po’ Davide contro Golia: la cenerentola greca contro la Germania. In Italia un gruppo di intellettuali (tra cui Barbara Spinelli e Luciano Gallino) sta varando una lista a suo sostegno in vista delle europee, con l’appoggio di Sel e Rifondazione. Oggi Tsipras sarà a Roma: debutto al Teatro Valle. Un luogo simbolico. “Com’è triste la prudenza”, recita un gigantesco striscione nello spazio occupato nel centro della Capitale: un motto in cui si ritrova molto.
Der Spiegel l’ha definita “il nemico numero uno dell’Europa”. Si sente davvero una minaccia?
«Certo, sono il rivale dell’Europa dei mercati e delle disuguaglianze sociali. Ma siamo anche l’unica speranza per quella solidale, dei popoli, della democrazia, della dignità».
Tra i “cattivi” ci mette anche i socialdemocratici?
«Le politiche neoliberiste stanno disgregando la Ue. E finora conservatori e riformisti sono andati entrambi in questa direzione ».
Angela Merkel e il candidato presidente dei socialdemocratici Martin Schulz sono la stessa cosa?
«A me Schulz sta simpatico. Ma da venti anni la socialdemocrazia si è tagliata fuori dalla sua tradizionale base politica e sociale. Spero nella loro svolta a sinistra. Non puoi sostenere una prospettiva diversa da quella dell’austerità e poi andare a braccetto con la signora Merkel».
Ovvero?
«Quanto fatto dal 2008 ad oggi verrà insegnato nelle facoltà di Economia, ma come esempio da evitare. La crisi è figlia delle asimmetrie dell’unione monetaria. E l’establishment politico europeo sorretto da popolari e socialisti con l’austerità ha peggiorato la situazione. Per cosa, poi? Per salvare le banche che avevano titoli di Stato dei paesi altamente indebitati. Jürgen Habermas ha dettoche la gestione della crisi “non solo non affronta le cause che l’hanno provocata, ma nasconde anche il pericolo di andare verso un’Europa tedesca”. La vedo così».
Cosa si dovrebbe fare allora?
«Una conferenza europea per il debito, sul modello di quella del ‘53 che cancellò gran parte del debito della Germania postbellica, dandole la spinta necessaria per il miracolo economico. La Bce dovrebbe funzionare come una vera banca centrale, simile a quella americana, che presti agli Stati e non solo alle banche. Poi legiferare affinché si separino attività commerciali e quelle di investimento delle banche. È urgente varare un New Deal europeo, un piano di investimenti pubblici per lo sviluppo. Gli attuali vertici della Ue hanno utilizzato la crisi per imporre il modello del capitalismo neoliberista, scatenando un attacco senza precedenti al mondo del lavoro».
Wolfgang Schäuble spiega che la cura greca sta funzionando. Le previsioni del Pil greco per il 2014 sono positive. C’è stato un avanzo primario della spesa.
«A quale prezzo? Una disastro mai visto: disoccupazione al 30 per cento, il 35 per cento della popolazione a ridosso della povertà. Chiusura di ospedali, fusioni di scuole. Ad Atene giri per strada e trovi gente ben vestita che rovista nella spazzatura. Tutto questo è insostenibile. Quanto al Pil, lo dice la troika:l’Ocse rileva invece che la recessione continuerà».
I movimenti populisti crescono ovunque. Da voi i fascisti di Alba Dorata sono il terzo partito, nonostante l’arresto del suo leader e l’omicidio di un vostro militante. Come si ferma la loro avanzata?
«Sono il prodotto politico del liberismo. Alba Dorata è passata dallo 0,3 al 7 per cento proprio negli anni dell’austerità. Fomentano rabbia e disperazione, ma verso i più deboli, gli immigrati. Sono falsi nemici del sistema: non se la prendono con i forti, ma con i debolissimi».
Cosa pensa della lista italiana a suo sostegno?
«Credo vada costruita dal basso, con i movimenti, gli intellettuali, la società civile. Come sta avvenendo. Cittadini che si auto-organizzano insieme alle associazioni e alle altre forze che vogliono partecipare. Mettendo le differenze da parte: fare un passo indietro tutti per farne molti in avanti, insieme».
Conosce Matteo Renzi e Beppe Grillo?
«So che a Renzi sembrano andar bene gli attuali equilibri europei, mentre a Grillo sembra importare poco e basta: risposte che trovo sbagliate e inadeguate. Ma non esiterò a chiedere loro una mano se da primo ministro greco mi metterò a capo di un duro processo di rinegoziazione nella Ue per conto di tutta l’Europa del Sud».
Se diventerà premier nel suo paese, quale sarà il primo provvedimento?
«Rivedere con la Ue non solo il fallimentare memorandum impostoci, ma tutta la politica europea per affrontare la crisi».
È favorevole o no al ritorno della dracma? Un pezzo di Syriza sì.
«L’abbandono della moneta unita non è la via d’uscita. Lavoriamo piuttosto a un nuovo patto sociale continentale per l’occupazione e lo sviluppo».
(la Repubblica, 7 febbraio 2014)
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Cosa veramente pensa il Pd sui problemi del lavoro?

Il Circolo del Partito Democratico di Portogruaro ha annunciato una serata di riflessione sui problemi del lavoro, “Rimettiamo al Centro il Lavoro” (giovedì 13 febbraio 2014, ore 20.30, in Villa Comunale, Sala del Caminetto).

Visti i relatori ed i titoli, il nostro interesse è massimo. Bruno Anastasia (ben noto ai portogruaresi) sull’impatto locale della crisi economica in corso, il prof. Luciano Greco (docente di scienza della finanza) sulle opzioni per uscire dalla “grande recessione”, Livio Marini (della segreteria provinciale del Pd) sulle proposte “per una nuova occupazione” (vediamo cosa intende).

Io personalmente spero che in questo incontro si manifesti tutto il realismo necessario nell’analisi dei processi in atto e tutta la concretezza necessaria in chiave strategica e politica. Non so infatti se esser infastidito o preoccupato dal simultaneo comunicato stampa sulla questione Electrolux fatto circolare dallo stesso Circolo, dove si riproducono formulette come queste:

Crediamo sia indispensabile:
– un piano industriale serio;
– un impegno diretto delle istituzioni al tavolo delle trattative;
– una politica che dia il giusto valore strategico all’industria manifatturiera attraverso l’adozione di misure che rendano competitivo il settore;
– la riduzione del cuneo fiscale, per ridurre il gap che c’è tra la busta paga lorda più alta d’Europa e quella netta più bassa;
– una riconversione industriale che punti all’innovazione non solo del prodotto ma anche dei processi produttivi, delle produzioni alternative, che punti ad alte tecnologie, ad automazioni, a competenze tecniche di assoluto valore.

Se devo leggere qualcosa di astratto sul nostro futuro preferisco rileggermi i paradossi in Le cosmicomiche di Italo Calvino piuttosto che i titoli più ripetuti in questi giorni dalle parti interessate e dalla stampa sulla vicenda Electrolux.

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