La Ghirlanda. (1) Nel nome del padre

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Chi conosce un po’ la pittura rinascimentale e anche quella fiorentina non può non riconoscere almeno un quadro di Domenico Ghirlandaio. Meno noto è forse il fatto che prese il bel nomignolo da suo padre Tommaso, che faceva ghirlande in argento per le belle teste dei fiorentini. E forse da ricordare è anche che il sostantivo ghirlanda significa anche “insieme di persone o di cose disposte a cerchio” (dizionario Treccani), per esempio collegate da interessi o affari attorno ad un certa cosa.

Insomma, questa è l’occasione per ripassare il termine “ghirlanda”: un articolo piuttosto chiaro e pacato di Marco Damilano sui rapporti nella ghirlanda fiorentina. Buona lettura.

Renzi-Verdini, un’alleanza nel nome del padre
di Marco Damilano
Storia di un’antica amicizia nata dall’editoria toscana. Fino ai primi incontri del premier con Silvio Berlusconi. Che oggi si rinnova. Ecco dove nasce l’asse tra i due che tiene in piedi il patto del Nazareno
La Ghirlanda fiorentina regge e governa, domina la politica italiana, punta a riformare la Costituzione, prepara i futuri equilibri del potere. È una cerchia di amicizie inattese, di comunanze impreviste, un groviglio in cui tutto si confonde, «di fiori, foglie e rami, presto appassiti o seccati», come ha scritto Luciano Mecacci nel suo libro sull’assassinio del filosofo Giovanni Gentile in una Firenze livida e ambigua nel 1944, al passaggio di regime, come oggi.
La Ghirlanda di oggi fu intrecciata tanti anni fa, quando non si parlava di leggi elettorali, ma di carta stampata: da editare, pubblicare e poi distribuire. C’era un editore, proprietario di fogli regionali e locali – il “Giornale della Toscana”, il “Cittadino” di Siena, “Metropoli” – in Valdarno, nel Chianti e nella Piana. E c’era un distributore, che consegnava i giornali alle edicole. La conoscenza non si interrompe. Per trasformarsi poi in una carta preziosa, quando il figlio è diventato grande, ha lasciato le colline per muovere alla conquista della Nazione.
Denis Verdini è un personaggio riservato, non vanta le sue amicizie. E non ha mai rivelato quella sua antica consuetudine da editore con il distributore di giornali di Rignano sull’Arno Tiziano Renzi e con il di lui figliolo Matteo, ragazzo sveglio, da non perdere di vista, da coltivare. Il senatore di Forza Italia, arrivato a 63 anni, negli ultimi tempi è cambiato. Non abita più nel palazzo Pecci Blunt all’Ara Coeli, di fronte al Campidoglio, come negli anni ruspanti della conquista del potere romano e del vertice berlusconiano, dove riceveva gli ospiti tra marmi, soffitti affrescati e letti con baldacchini.
Si è trasferito alle spalle del Senato, tra piazza Nicosia e via dell’Orso. Con il passare degli anni è diventato più emotivo. Si scalda, si commuove, piange in pubblico. Successe la prima volta quasi un anno fa, il 2 ottobre 2013, quando per la prima volta nella vita sbagliò i conti: aveva giurato al Capo che con Angelino Alfano se ne sarebbero andati quattro gatti, invece furono abbastanza per tenere in piedi il governo Letta al Senato. È successo ancora tre settimane fa, quando ha fatto la mossa di abbandonare l’assemblea di Forza Italia. Si batte per la riforma del Senato in accordo con Renzi con una dedizione che nessuno gli ha visto neanche quando c’era da sfilare le truppe a Gianfranco Fini e meno che mai un anno fa contro Alfano. Riceve uno a uno i senatori che vogliono votare contro, urla, minaccia, blandisce.
Non si tocca il patto del Nazareno, l’accordo tra Silvio e Matteo che per Verdini vale la vita: il primo è il suo presente, il secondo è il suo futuro. «Oggi Denis è più renziano che berlusconiano», sintetizza un ex deputato del Pdl: «Berlusconi è un immorale, ma con sentimento, Verdini è un amorale, un personaggio da film di Tarantino, uno che ti ammazza mentre indossa lo smoking. Simile a Renzi».
Eppure, almeno in apparenza, sembra l’opposto del premier. Non partecipa ai talk show, non rilascia interviste, non cinguetta su twitter. Ma Verdini attraversa tutta la biografia di Renzi come un’ombra. L’ombra della luce. Se la vecchia conoscenza con il babbo Tiziano non è un’allucinazione, come direbbe il ministro Maria Elena Boschi, ci sono altre istantanee del passato oggi dimenticate che bisogna ricordare.
Il 30 marzo 2005 il capo della Croce Rossa Maurizio Scelli convoca una grande manifestazione al Pala Mandela di Firenze con il premier Berlusconi: dovrebbe essere una kermesse di giovani per Silvio, ma è un flop colossale, i pullman non arrivano, gli spalti sono deserti. Berlusconi resta cinque ore in attesa, infuriato con gli organizzatori, lo fanno accomodare in prefettura, la stessa sede della provincia, c’è un solo lampo di luce in quella giornata da cancellare, quando arriva Verdini con un giovane spavaldo: «Silvio, c’è una persona che devi assolutamente conoscere…». È il presidente della Provincia, il trentenne Matteo Renzi. «Non è dei nostri», sospira Denis, «ma è bravo». E con B. è un colpo di fulmine.
Nel 2008 l’editore Verdini organizza una cena sontuosa in una villa fiorentina per festeggiare il decennale del “Giornale della Toscana”. Ci sono tutti i notabili azzurri della regione al gran completo, ma l’invitato d’onore è un altro, l’unico big del centrosinistra toscano presente al festeggiamento, ancora lui, Matteo Renzi. Più un amico che un avversario: la Provincia non risparmia la pubblicità sul quotidiano fiorentino, l’uomo di raccordo è il numero uno di Florence multimedia, la società di comunicazione creata da Renzi, Andrea Bacci. Un ramo importante della Ghirlanda. Bacci è amico di Riccardo Fusi, socio di Verdini, poi coinvolto nelle inchieste sugli appalti della Cricca, a lui chiederà un elicottero in prestito per portare Renzi a Milano alla trasmissione di Daria Bignardi (all’insaputa di Matteo, però, e comunque non se ne farà nulla). Quando Renzi prende la parola in quella cena si fa silenzio, il suo è un discorsetto di circostanza, del tipo «siamo su sponde diverse, ma è giusto dialogare», ma anticipa un refrain destinato a tornare attuale. E gli amici di Verdini conoscono bene il ragazzo, sanno che medita di candidarsi a sindaco per sbaragliare la nomenclatura rossa, lo seguono con simpatia.
«Firenze deve essere un esempio, gli amministratori della sinistra stanno sempre lì, alla guida del potere cittadino da venti anni, considerano la cosa pubblica come un fatto privato», strepita Verdini nella insolita veste di moralizzatore il 30 novembre 2008 dalle colonne del suo house organ. «Vadano tutti a casa. E se non lo fanno, siano i cittadini a mandarli via. Perché è ora di finirla con questa politica». Tre mesi dopo Renzi vince a sorpresa le primarie del Pd per il sindaco. Il centrodestra ci gira un po’ intorno, poi schiera contro di lui l’ex portiere della Fiorentina Giovanni Galli. Riesce ad arrivare al ballottaggio, avrebbe qualche possibilità di vittoria ma la macchina elettorale incredibilmente si ferma. «Forse i miei davano per scontata una sconfitta al primo turno», ha raccontato di recente Galli. Vince Renzi, la nuova stella nazionale, inviso agli ex-Ds, amato da Berlusconi. «Io senza cuore? Macché, di cuori ne ho due, come qualcos’altro», usa reagire Verdini quando si ironizza sul suo cinismo. E anche una gran fortuna.
Alla fine del 2013 sembra un uomo finito. Forza Italia si è sfasciata, la fidanzata di Berlusconi l’ha messo alla porta di palazzo Grazioli, il capo non si fida più. Sono rimasti con lui alcuni fedelissimi, il deputato Massimo Parisi, e l’amica Daniela Santanchè. E le inchieste giudiziarie che lo riguardano stanno per entrare nel vivo. Quella romana sulla P3, dove si contestano anche gli incontri con Arcibaldo Miller, ora diventato procuratore generale a Roma, è la meno preoccupante: l’iter è lentissimo, la decisione sul rinvio a giudizio arriverà in autunno.
I guai veri sono a Firenze, dove è appena arrivato il rinvio a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta nella vicenda dell’ex Credito Cooperativo fiorentino, con accuse documentali, basate sulle ispezioni di Bankitalia che hanno portato al commissariamento e alla liquidazione della Verdini Bank. Con un perfetto intreccio politico-affaristico: quando c’è da ripianare il debito con la banca di 15 milioni l’aiuto arriva dal re delle cliniche Antonio Angelucci, deputato di Forza Italia. Tra i beneficiari dei finanziamenti facili, oltre al costruttore Fusi della Btp (azienda che è stato uno snodo di grandi accordi con le coop rosse), c’è la società editrice controllata da Verdini. Vista la fine di altri colonnelli berlusconiani, Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Claudio Scajola, Giancarlo Galan, ci sarebbe di che preoccuparsi. Se non fosse per l’antica amicizia fiorentina che rimette Verdini al centro del gioco.
All’indomani delle primarie dell’8 dicembre 2013 che plebiscitano Renzi a capo del Pd, Denis chiama Matteo e riallaccia la vecchia frequentazione. È lui il vero autore del patto del Nazareno. Nelle riforme c’è la sua mano, il bilancino con cui Denis pesava le libbre di carne quando da ragazzo trafficava quarti di bue e bistecche oggi gli serve per misurare quorum, premi di maggioranza, soglie di sbarramento, con una competenza che ha sbalordito un esperto come il professor Roberto D’Alimonte durante le trattative sull’Italicum.
Meglio sarebbe chiamarlo Verdinum, come il Porcellum, che infatti fu sperimentato in Toscana e poi esportato in Italia, come il renzismo. È lui a fornire a Renzi le proiezioni elettorali, spaventando e indignando un bel pezzo di compagni di partito che temono di essere sacrificati all’accordo Renzi-Verdini. «Se Matteo è Telemaco», spiega l’erudito ex dc Paolo Naccarato, «Denis è Eumeo, il servo fedele che aiuta Ulisse a sterminare i Proci». I Proci, cioè i ribelli, i dissidenti di Forza Italia e quelli che hanno già tradito come Alfano. Nel Palazzo già ipotizzano che se il premier decidesse di svoltare verso le elezioni anticipate, con le riforme costituzionali impantanate a palazzo Madama, sarebbe Verdini a dargli una mano per provocare l’incidente decisivo.
Cattiverie, come quella del senatore del Pd Massimo Mucchetti che ha profetizzato sull’“Unità” vantaggi giudiziari per Denis dal legame con Renzi. Malignità, come quella di chi fa notare che in fondo Verdini è l’unico forzista che possa contare nel governo Renzi su un esponente amico, per di più in una casella chiave: il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, magistrato, leader della corrente Magistratura Indipendente, fratello di Jacopo, consigliere regionale di Forza Italia in Toscana. «Indifendibile», l’ha bollato Renzi quando il sottosegretario si è fatto beccare mentre spediva sms di campagna elettorale per il Csm. Però l’indignazione è durata lo spazio di un mattino, Ferri è ancora lì, al suo posto. E una settimana fa il consiglio regionale toscano ha votato sulla costruzione della nuova pista dell’aeroporto di Firenze, presieduto dal renziano Marco Carrai e molto gradita al premier. In sei nel centrosinistra hanno votato contro, ma nel centrodestra tra assenti, astenuti e voti favorevoli è arrivato il soccorso che ha permesso al progetto di essere approvato. Cattiverie, malignità, all’ombra della Ghirlanda fiorentina che domina la politica italiana su cui, come quella di settant’anni fa, troppe cose ancora non si possono dire, affermava Cesare Luporini. E chissà se saranno mai dette.
(L’Espresso, 28 luglio 2014)

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