La Ghirlanda. (1) Nel nome del padre

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Chi conosce un po’ la pittura rinascimentale e anche quella fiorentina non può non riconoscere almeno un quadro di Domenico Ghirlandaio. Meno noto è forse il fatto che prese il bel nomignolo da suo padre Tommaso, che faceva ghirlande in argento per le belle teste dei fiorentini. E forse da ricordare è anche che il sostantivo ghirlanda significa anche “insieme di persone o di cose disposte a cerchio” (dizionario Treccani), per esempio collegate da interessi o affari attorno ad un certa cosa.

Insomma, questa è l’occasione per ripassare il termine “ghirlanda”: un articolo piuttosto chiaro e pacato di Marco Damilano sui rapporti nella ghirlanda fiorentina. Buona lettura.

Renzi-Verdini, un’alleanza nel nome del padre
di Marco Damilano
Storia di un’antica amicizia nata dall’editoria toscana. Fino ai primi incontri del premier con Silvio Berlusconi. Che oggi si rinnova. Ecco dove nasce l’asse tra i due che tiene in piedi il patto del Nazareno
La Ghirlanda fiorentina regge e governa, domina la politica italiana, punta a riformare la Costituzione, prepara i futuri equilibri del potere. È una cerchia di amicizie inattese, di comunanze impreviste, un groviglio in cui tutto si confonde, «di fiori, foglie e rami, presto appassiti o seccati», come ha scritto Luciano Mecacci nel suo libro sull’assassinio del filosofo Giovanni Gentile in una Firenze livida e ambigua nel 1944, al passaggio di regime, come oggi.
La Ghirlanda di oggi fu intrecciata tanti anni fa, quando non si parlava di leggi elettorali, ma di carta stampata: da editare, pubblicare e poi distribuire. C’era un editore, proprietario di fogli regionali e locali – il “Giornale della Toscana”, il “Cittadino” di Siena, “Metropoli” – in Valdarno, nel Chianti e nella Piana. E c’era un distributore, che consegnava i giornali alle edicole. La conoscenza non si interrompe. Per trasformarsi poi in una carta preziosa, quando il figlio è diventato grande, ha lasciato le colline per muovere alla conquista della Nazione.
Denis Verdini è un personaggio riservato, non vanta le sue amicizie. E non ha mai rivelato quella sua antica consuetudine da editore con il distributore di giornali di Rignano sull’Arno Tiziano Renzi e con il di lui figliolo Matteo, ragazzo sveglio, da non perdere di vista, da coltivare. Il senatore di Forza Italia, arrivato a 63 anni, negli ultimi tempi è cambiato. Non abita più nel palazzo Pecci Blunt all’Ara Coeli, di fronte al Campidoglio, come negli anni ruspanti della conquista del potere romano e del vertice berlusconiano, dove riceveva gli ospiti tra marmi, soffitti affrescati e letti con baldacchini.
Si è trasferito alle spalle del Senato, tra piazza Nicosia e via dell’Orso. Con il passare degli anni è diventato più emotivo. Si scalda, si commuove, piange in pubblico. Successe la prima volta quasi un anno fa, il 2 ottobre 2013, quando per la prima volta nella vita sbagliò i conti: aveva giurato al Capo che con Angelino Alfano se ne sarebbero andati quattro gatti, invece furono abbastanza per tenere in piedi il governo Letta al Senato. È successo ancora tre settimane fa, quando ha fatto la mossa di abbandonare l’assemblea di Forza Italia. Si batte per la riforma del Senato in accordo con Renzi con una dedizione che nessuno gli ha visto neanche quando c’era da sfilare le truppe a Gianfranco Fini e meno che mai un anno fa contro Alfano. Riceve uno a uno i senatori che vogliono votare contro, urla, minaccia, blandisce.
Non si tocca il patto del Nazareno, l’accordo tra Silvio e Matteo che per Verdini vale la vita: il primo è il suo presente, il secondo è il suo futuro. «Oggi Denis è più renziano che berlusconiano», sintetizza un ex deputato del Pdl: «Berlusconi è un immorale, ma con sentimento, Verdini è un amorale, un personaggio da film di Tarantino, uno che ti ammazza mentre indossa lo smoking. Simile a Renzi».
Eppure, almeno in apparenza, sembra l’opposto del premier. Non partecipa ai talk show, non rilascia interviste, non cinguetta su twitter. Ma Verdini attraversa tutta la biografia di Renzi come un’ombra. L’ombra della luce. Se la vecchia conoscenza con il babbo Tiziano non è un’allucinazione, come direbbe il ministro Maria Elena Boschi, ci sono altre istantanee del passato oggi dimenticate che bisogna ricordare.
Il 30 marzo 2005 il capo della Croce Rossa Maurizio Scelli convoca una grande manifestazione al Pala Mandela di Firenze con il premier Berlusconi: dovrebbe essere una kermesse di giovani per Silvio, ma è un flop colossale, i pullman non arrivano, gli spalti sono deserti. Berlusconi resta cinque ore in attesa, infuriato con gli organizzatori, lo fanno accomodare in prefettura, la stessa sede della provincia, c’è un solo lampo di luce in quella giornata da cancellare, quando arriva Verdini con un giovane spavaldo: «Silvio, c’è una persona che devi assolutamente conoscere…». È il presidente della Provincia, il trentenne Matteo Renzi. «Non è dei nostri», sospira Denis, «ma è bravo». E con B. è un colpo di fulmine.
Nel 2008 l’editore Verdini organizza una cena sontuosa in una villa fiorentina per festeggiare il decennale del “Giornale della Toscana”. Ci sono tutti i notabili azzurri della regione al gran completo, ma l’invitato d’onore è un altro, l’unico big del centrosinistra toscano presente al festeggiamento, ancora lui, Matteo Renzi. Più un amico che un avversario: la Provincia non risparmia la pubblicità sul quotidiano fiorentino, l’uomo di raccordo è il numero uno di Florence multimedia, la società di comunicazione creata da Renzi, Andrea Bacci. Un ramo importante della Ghirlanda. Bacci è amico di Riccardo Fusi, socio di Verdini, poi coinvolto nelle inchieste sugli appalti della Cricca, a lui chiederà un elicottero in prestito per portare Renzi a Milano alla trasmissione di Daria Bignardi (all’insaputa di Matteo, però, e comunque non se ne farà nulla). Quando Renzi prende la parola in quella cena si fa silenzio, il suo è un discorsetto di circostanza, del tipo «siamo su sponde diverse, ma è giusto dialogare», ma anticipa un refrain destinato a tornare attuale. E gli amici di Verdini conoscono bene il ragazzo, sanno che medita di candidarsi a sindaco per sbaragliare la nomenclatura rossa, lo seguono con simpatia.
«Firenze deve essere un esempio, gli amministratori della sinistra stanno sempre lì, alla guida del potere cittadino da venti anni, considerano la cosa pubblica come un fatto privato», strepita Verdini nella insolita veste di moralizzatore il 30 novembre 2008 dalle colonne del suo house organ. «Vadano tutti a casa. E se non lo fanno, siano i cittadini a mandarli via. Perché è ora di finirla con questa politica». Tre mesi dopo Renzi vince a sorpresa le primarie del Pd per il sindaco. Il centrodestra ci gira un po’ intorno, poi schiera contro di lui l’ex portiere della Fiorentina Giovanni Galli. Riesce ad arrivare al ballottaggio, avrebbe qualche possibilità di vittoria ma la macchina elettorale incredibilmente si ferma. «Forse i miei davano per scontata una sconfitta al primo turno», ha raccontato di recente Galli. Vince Renzi, la nuova stella nazionale, inviso agli ex-Ds, amato da Berlusconi. «Io senza cuore? Macché, di cuori ne ho due, come qualcos’altro», usa reagire Verdini quando si ironizza sul suo cinismo. E anche una gran fortuna.
Alla fine del 2013 sembra un uomo finito. Forza Italia si è sfasciata, la fidanzata di Berlusconi l’ha messo alla porta di palazzo Grazioli, il capo non si fida più. Sono rimasti con lui alcuni fedelissimi, il deputato Massimo Parisi, e l’amica Daniela Santanchè. E le inchieste giudiziarie che lo riguardano stanno per entrare nel vivo. Quella romana sulla P3, dove si contestano anche gli incontri con Arcibaldo Miller, ora diventato procuratore generale a Roma, è la meno preoccupante: l’iter è lentissimo, la decisione sul rinvio a giudizio arriverà in autunno.
I guai veri sono a Firenze, dove è appena arrivato il rinvio a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta nella vicenda dell’ex Credito Cooperativo fiorentino, con accuse documentali, basate sulle ispezioni di Bankitalia che hanno portato al commissariamento e alla liquidazione della Verdini Bank. Con un perfetto intreccio politico-affaristico: quando c’è da ripianare il debito con la banca di 15 milioni l’aiuto arriva dal re delle cliniche Antonio Angelucci, deputato di Forza Italia. Tra i beneficiari dei finanziamenti facili, oltre al costruttore Fusi della Btp (azienda che è stato uno snodo di grandi accordi con le coop rosse), c’è la società editrice controllata da Verdini. Vista la fine di altri colonnelli berlusconiani, Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Claudio Scajola, Giancarlo Galan, ci sarebbe di che preoccuparsi. Se non fosse per l’antica amicizia fiorentina che rimette Verdini al centro del gioco.
All’indomani delle primarie dell’8 dicembre 2013 che plebiscitano Renzi a capo del Pd, Denis chiama Matteo e riallaccia la vecchia frequentazione. È lui il vero autore del patto del Nazareno. Nelle riforme c’è la sua mano, il bilancino con cui Denis pesava le libbre di carne quando da ragazzo trafficava quarti di bue e bistecche oggi gli serve per misurare quorum, premi di maggioranza, soglie di sbarramento, con una competenza che ha sbalordito un esperto come il professor Roberto D’Alimonte durante le trattative sull’Italicum.
Meglio sarebbe chiamarlo Verdinum, come il Porcellum, che infatti fu sperimentato in Toscana e poi esportato in Italia, come il renzismo. È lui a fornire a Renzi le proiezioni elettorali, spaventando e indignando un bel pezzo di compagni di partito che temono di essere sacrificati all’accordo Renzi-Verdini. «Se Matteo è Telemaco», spiega l’erudito ex dc Paolo Naccarato, «Denis è Eumeo, il servo fedele che aiuta Ulisse a sterminare i Proci». I Proci, cioè i ribelli, i dissidenti di Forza Italia e quelli che hanno già tradito come Alfano. Nel Palazzo già ipotizzano che se il premier decidesse di svoltare verso le elezioni anticipate, con le riforme costituzionali impantanate a palazzo Madama, sarebbe Verdini a dargli una mano per provocare l’incidente decisivo.
Cattiverie, come quella del senatore del Pd Massimo Mucchetti che ha profetizzato sull’“Unità” vantaggi giudiziari per Denis dal legame con Renzi. Malignità, come quella di chi fa notare che in fondo Verdini è l’unico forzista che possa contare nel governo Renzi su un esponente amico, per di più in una casella chiave: il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, magistrato, leader della corrente Magistratura Indipendente, fratello di Jacopo, consigliere regionale di Forza Italia in Toscana. «Indifendibile», l’ha bollato Renzi quando il sottosegretario si è fatto beccare mentre spediva sms di campagna elettorale per il Csm. Però l’indignazione è durata lo spazio di un mattino, Ferri è ancora lì, al suo posto. E una settimana fa il consiglio regionale toscano ha votato sulla costruzione della nuova pista dell’aeroporto di Firenze, presieduto dal renziano Marco Carrai e molto gradita al premier. In sei nel centrosinistra hanno votato contro, ma nel centrodestra tra assenti, astenuti e voti favorevoli è arrivato il soccorso che ha permesso al progetto di essere approvato. Cattiverie, malignità, all’ombra della Ghirlanda fiorentina che domina la politica italiana su cui, come quella di settant’anni fa, troppe cose ancora non si possono dire, affermava Cesare Luporini. E chissà se saranno mai dette.
(L’Espresso, 28 luglio 2014)

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E’ sempre il tempo della menzogna

Presi come siamo nelle attuali vicende, internazionali e italiane, come procedono, come vengono governate e come vengo comunicate, ci sarebbe da nascondersi, sparire da tutto e da tutti, per sopravvivere. Ma questa situazione non è solo contingente, è una realtà ben più strutturale, di lunga durata. Infatti, la menzogna non è solo caratteristica di chi governa, là nel mondo e qua. Ecco cosa scriveva il vecchio Adorno.

Prima di tutto, figlio mio… . L’immoralità della menzogna non consiste nella violazione della sacrosanta verità. Il diritto di richiamarsi a quest’ultima spetta meno che mai a una società che sollecita i suoi membri coatti a parlare con franchezza per poterli poi più facilmente acciuffare.
La falsità universale non ha il diritto di pretendere la verità particolare, che essa, del resto, perverte subito nel suo opposto. Eppure la menzogna ha qualcosa di ripugnante, e se la coscienza che ne abbiamo ci è stata inculcata a colpi di frusta, essa dice qualcosa anche sul conto dei carcerieri.
L’errore è nell’eccessiva sincerità. Chi mente si vergogna, perché, in ogni menzogna, è costretto ad avvertire l’indegnità dell’assetto universale che, mentre lo costringe a mentire se vuol vivere, non cessa di ripetergli di “essere sempre leale e sincero”. Questa vergogna toglie forza alle bugie degli individui più sottilmente organizzati. Essi mentono maldestramente, e solo così la menzogna diventa veramente un’immoralità verso l’altro. Essa mostra di considerarlo uno stupido, e serve all’espressione del disprezzo.

Tra gli scaltriti pratici di oggi, la menzogna ha perso da tempo la sua onorevole funzione di ingannare intorno a qualcosa di reale. Nessuno crede più a nessuno, tutti sanno il fatto loro. Si mente solo per far capire all’altro che di lui non ci importa nulla, che non ne abbiamo bisogno, che ci è indifferente che cosa pensi di noi. La bugia, un tempo strumento liberale di comunicazione, è diventata oggi una tecnica della sfrontatezza, con cui ciascuno spande intorno a sé il gelo di cui ha bisogno per vivere e prosperare.

Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (I, 9) (Einaudi, 1954). (La divisione in periodi è mia.)
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Gaza: 828+34= 862 morti

Il nome e l’età dei 132 palestinesi di meno di 18 anni uccisi a Gaza tra l’8 e il 21 luglio 2014. In nero i maschi, in rosso le femmine.

Mohammed Ibrahim Intaiz · 13
Mohammed Salem Intaiz · 13
Amad nae’l Mahdi · 16
Ammar Ahmad Jodeh · 17
Hussein Yousef Kawari’ · 12
Basil Salem Kawari’ · 9
Abdullah hamed Kawari’ · 12
Qasim Jaber Kawari’ · 11
Seraj Iyad abdel ’al · 8
Mohammed Ibrahim al Masri · 14
Aseel Ibrahim al Masri · 15
Yasmin Mohammed al Mutawaq · 3
Mohammed Mustafa Malaka · 2
Ameer Iyad Areef · 12
Mohammed Iyad Areef · 10
Nidal Khalaf al Nawasra · 4
Mohammed Khalaf al Nawasra · 2
Raneen Jawdaa Abdel Ghafoor · 1
Sulaiman Saleem al Astal · 17
Musa Mohammed al Astal · 15
Meryam Atiyyeh al ’Arja · 9
Abdullah Ramadan Abu Ghazal · 4
Abdel Rahman Bassam Khattab · 6
Saad Mahmoud al Haj · 17
Fatima Mahmoud al Haj · 12
Saher Salman Abu Namous · 2
Anas Yousef Qandeel · 17
Nour Marwan al Najdi · 10
Safa Mustafa Malaka · 6
Anas Alaa’ al Batsh · 7
Manar Majid al Batsh · 13
Marwa Majid al Batsh · 7
Amal Bahaa’ al Batsh · 18 mesi
Qusai Issam al Batsh · 12
Mohammed Issam al Batsh · 17
Hossam Ibrahim an Najjar · 15
Mu’ayyad Khalid al A’raj · 3
Sara Jehad Sheikh al Eid · 4
Ziyad Maher an Najjar · 17
Hamza Ra’ed Thary · 5
’Ahed Attaf Bakr · 10
Zakariya ’Ahed Bakr · 10
Mohammed Ramiz Bakr · 11
Ismail Mohammed Bakr · 10
Ibrahim Ramadan Abu Daqqa · 10
Yasmeen Mahmoud al Astal · 4
Osama Mahmoud al Astal · 7
Afnan Wesam Shuheebar · 8
Jehad Issam Shuheebar · 11
Waseem Issam Shuheebar · 8
Yamin Riyad al Hamidi · 4
Mohammed Ismail A. Msallam · 15
Walaa’ Ismail Abu Msallam · 14
Ahmad Ismail Abu Msallam · 11
Rahaf Khalil al Jbour · 4
Seham Ahmad Zourob · 11
Fares Jom’a al Tarabeen · 3 mesi
Qasim Hamed Ulwan · 4
Emad Hamed Ulwan · 7
Sara Mohammed Bostan · 10
Rezeq Ahmad al Hayik · 18 mesi
Sameeh Na’eem A. Jarad · 18 mesi
Samar Na’eem Abu Jarad · 17
Ahlam Mosa Abu Jarad · 14
Haniya Abdel Rahman Abu Jarad · 2
Omar Eed al Mahmoum · 17
Mohammed Ziyad al Rahl · 5
Mohammed Rafeeq al Rahl · 17
Omar Jameel Hamouda · 10
Nagham Mahmoud al Zweedi · 12
Ru’ya Mahmoud al Zweedi · 6
Mahmoud Anwar Abbu Shabab · 16
Dina Omar Azeez · 5
Aya Bahjat Abu Sultan · 17
Khalil Usama al Hayya · 5
Hamza Usama al Hayya · 4
Amama Usama al Hayya · 6
Marwa Suleiman al Sirsawi · 12
Dina Adel Isleem · 3
Heba Hamed al Shiekh Khalil · 14
Tala Ahmed al I’tiwi · 10
Ghada Subhi Ayyad · 13
Dina Rushdi Hamada · 16
Saji Hassan al Hallaq · 4
Kan’an Hassan al Hallaq · 6
Mohammed Hani al Hallaq · 2
Ibrahim Khalil Ammar · 13
Iman Khalil Ammar · 9
’Asem Khalil Ammar · 4
Rahaf Akram Abu Jom’a · 4
Abdel Rahman al Iskafi · 12
Marah Shakir al Jammal · 10
Ahmed Sofyan al Jammal · 9
Samia Amed al Sheikh Khalil · 2
Shadi Ziyad Isleem · 16
Fadi Hassan Isleem · 10
Ali Ziyad Isleem · 11
Mohammed Rami Ayyad · 3
Mohammed Ashraf Ayyad · 3
Mohammed Ayman al Sha’ir · 5
Heba Akram al Sha’ir · 15
Suleiman Ahmed Abu Jame’ · 14
Razan Abu Jame’ · 14
Jawdat Abu Jame’ · 13
Aya Abu Jame’ · 12
Haifaa’ Abu Jame’ · 9
Tawfeeq Abu Jame’ · 4
Maysaa’ Ahmed Abu Jame’ · 7
Ahmed Abu Jame’ · 8
Ayyoub Tayseer Abu Jame’ · 10
Fatima Tayseer Abu Jame’ · 12
Rayan Tayseer Abu Jame’ · 5
Rinat Tayseer Abu Jame’ · 2
Nujoud Tayseer Abu Jame’ · 10
Batoul Bassam Abu Jame’ · 4
Suheila Bassam Abu Jame’ · 3
Bisan Yasser Abu Jame’ · 6 mesi
Seraj Yasser Abu Jame’ · 4
Nour Yasser Abu Jame’ · 2
Hosam Abu Qeenas · 7
Sha’ban Jamil Ziyada · 12
Anas Mahmoud Mu’ammar · 17
Abdallah Yousef Daraji · 2
Mohammed Rajaa’ Handam · 15
Abdallah Abu Hjayyir · 16
Ghaidaa’ Nabil Siyam · 7
Mustafa Nabil Siyam · 9
Badr Nabil Siyam · 4
Dalal Nabil Siyam · 9 mesi
Ahmed Ayman Siyam · 15
Ameen Ayman Siyam · 17
Fatima Ahmad al Arja · 16

Fonte: The Telegraph. L’identità delle vittime è stata verificata sul campo da Al Mezan centre for human rights, un’organizzazione per i diritti umani con sede a Gaza che lavora con le Nazioni Unite.

(Internazionale, 25 luglio 2014)

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Gaza: 609+28= 637 morti

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I numeri servono o no a capire cosa sta succedendo a Gaza? Forse si, così nel titolo riporto sempre i morti progressivi della guerra in atto al momento in cui scrivo. Le cifre sono riprese da Internazionale.

Sullo stesso giornale consiglio la lettura dell’ultimo articolo di Gideon Levy di Haaretz: “Fragole o sangue?“.

Mentre segnalo l’unico buon articolo tecnico letto sulla nostra stampa relativamente agli obiettivi israeliani della battaglia di terra a Gaza. E’ di Roberto Bongiorni: “Viaggio nei tunnel, business e arma strategica per Hamas” (Il Sole 24 ore, 22 luglio 2014). Per la cronaca, il giornale stampato titolava: “Un pericoloso reticolo di tunnel” (p.6).

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Partiamo da qui

Riporto l’intervento di Marco Revelli all’assemblea nazionale della Lista Tsipras del 19 luglio.

Partiamo di qui, l’unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che “esistono”. Sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di questo dato. Intanto perché nell’universo mediatico e politico (che ormai tendono a coincidere) non c’era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un centesimo bucato su quella “esistenza”, tanto abituati erano ai nostri naufragi. E poi perché la differenza tra l’esser sopra o sotto quell’asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un momento in cui l’approfondimento e la cronicizzazione della crisi economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in termini drammatici. L’essere invece tra i “salvati” anziché tra i “sommersi”, se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però aperto il discorso sul futuro.
Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di quasi sei volte inferiore all’Italia!) ha costituito la vera notizia di queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l’8% nelle condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi… Nel valutarlo nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico italiano come il “grillismo” (prima) e il “renzismo” (poi), entrambi determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti, l’appello in chiave populista alla “discontinuità” di sistema. Né possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro europeo plumbeo per l’inedita compattezza con cui il sistema mediatico nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa, l’universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti) impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su percentuali ridicole.
Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre voti come un “piccolo miracolo”. Ed è di lì, dalla sua dimensione ma soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato. Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel “piccolo esercito” non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione rappresentativo della popolazione. Non è un “esercito popolare”. Il voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i “refrattari”, potremmo dire, di un po’ tutte le famiglie politiche dell’articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione. Quelli che “non ci stanno”.
Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo andati bene al Centro – nell’Italia in fondo socialmente e politicamente più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana (5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al 6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata (5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria (4,21) e in Puglia (4,27), un po’ meno in Campania (3,80, con l’eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione “difficile”, solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli 40.000 voti sotto il partito di Alfano. Siamo invece andati male nel terremotato (socialmente) Nord-Est, dove Renzi ha sfondato su tutti i fronti, svuotando Grillo, Lega e Berlusconi (i vincitori di ieri e l’altro ieri), e dove invece noi abbiamo registrato il quoziente più basso (3,66), con il buco nero del Veneto (2,74), e in particolare della provincia di Rovigo, il capoluogo in assoluto più basso col 2,44%. Nord Ovest e Isole stanno di poco più sopra rispettivamente col 3,81 e 3,70 (con però un’insperata Valle d’Aosta al 7,68%, merito di Rosa Rinaldi e della sua task force). Il che significa che siamo sotto in tutto il Nord, in Sicilia e in Sardegna.
E’ un voto, d’altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma, come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e Firenze).
E’ un voto “informato”, come si suol dire (e come avrebbe potuto essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal mainstream, chi discute di politica: secondo l’ Ipsos il 27% dei nostri elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro l’11% della media generale, il 14% del PD, l’11% del M5S, l’8% di FI e Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l’11% ha solo la licenza elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26% (un 23% del PD, un 31% di FI…). D’altra parte abbiamo fatto registrare la percentuale di voti più elevata (il 7,8% – quasi 4 punti percentuali in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra “chi si informa prevalentemente con Internet”, e siamo comunque sovrastimati tra chi “si informa prevalentemente sui giornali” (5,2%), mentre crolliamo tra chi “si informa solo con la Tv” (un miserabilissimo 1,6%!).
Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il “partito dei giovani”. Sempre secondo l’indagine Ipsos il 18% dei nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta in assoluto, contro il 9% del totale generale, l’8% dell’elettorato PD, il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari, all’11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la fascia d’età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i 44 anni (solo l’8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli ultra-sessantacinquenni (nonostante l’età avanzata dei “garanti”) dove siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5 Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d’età mentre, per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il 28…).
Questo dei giovani – e quindi dell’area variegata del “precariato” – è forse l’unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto sfumato, difficile da identificare con precisi “soggetti”. Potremmo dire tipico di un “voto di opinione”, per fastidioso che questo ci possa apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione (per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l’8,2%, esattamente il doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!), solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi (2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i “dipendenti pubblici”, tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il 7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.
Più complessa, infine, la composizione per “genere”, perché qui i dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità – rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne (26,3 contro 15,5%). Secondo l’IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli strumenti utilizzati dai sondaggisti.
Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E’ però l’analisi dei flussi (“da dove provengono i nostri elettori”) quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che oggi più ci riguardano urgentemente: “chi siamo?” (da dove veniamo, appunto). E soprattutto quella fatidica: “che fare?”. Ne abbiamo un paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.
La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel; altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani); 120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato poco rilevanti).
La seconda, dell’IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000 quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e Rivoluzione civile la parte più grossa è andata il Pd (485.000 voti) e all’astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una parte minore (150.000).
Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai abbastanza – con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un’infinità di volte: che il nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni politiche della tradizionale “sinistra a sinistra del Pd” avrebbe potuto affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno. Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di cartello significa votarsi all’irrilevanza elettorale e politica. Può forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita (forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei lasciti ereditari.
Dall’altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte dell’ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia “nuova sinistra” organizzata, e l’altra metà da fuori di quelle mura ma da una terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano sconosciute.
Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola “sinistra” nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da “salotto intellettuale”, magari un rifiuto esplicito dell’Europa in quanto creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati “più identitari” avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che l’avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all’opposto che se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre, tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza, saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L’ha appena detto, nell’editoriale della sua rivista, Paolo Flores d’Arcais, parlando di “una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante (politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei partitini – ha prodotto un topolino”. E Paolo è uno dei “padri” della Lista, tra i proponenti dell’Appello iniziale e tra i “garanti” della prima ora.
Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre, come la natura, anche la politica “non facit saltus”, soprattutto quando si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un’esplosione elettorale dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi locali. E l’epifania berlusconiana del ’94 era il prodotto di una macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da un padre padrone già potente prima di “scendere in politica”. Il “partito istantaneo” descritto dai politologi in realtà non esiste, presuppone spesso un “decennio di preparazione” magari invisibile e un lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d’opinione non si materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo per la “magia di un appello”. D’altra parte Syriza ce lo insegna: non è esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è arrivata.
Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie eredità “dentro le mura” nel timore di, per voler troppo, rischiare di perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un’esplicita dichiarazione pubblica, un Flores d’Arcais alla rovescia che la esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito -, può sembrare orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo nell’occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come d’altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando pezzi di elettorato fino a ieri “fidelizzati”, insediamenti politici fino a ieri non intaccati né intaccabili… Basta dare, anche qui, un’occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio…
Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi “renziani” fino al fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po’ il proprio peso rientrando in un più “normale” 21-22% (quello che sarebbe il suo elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l’inevitabile declino biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione testimoniale nell’angolo in basso a sinistra del campo. C’è persino chi si è lasciato andare all’affermazione, spericolata, che si sia avviato un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo (la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette “riforme”). Altri hanno parlato, un po’ affrettatamente, del Pd di Renzi come nuova Balena bianca, partito “pigliatutto” del nuovo secolo, paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia… Per la verità i numeri ci parlano di un’altra realtà. Suggeriscono che sotto la superficie visibile c’è stato un gran movimento, in tutte le direzioni, con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.
Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima. I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi) sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai attraverso un’infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita di altri 2 milioni di elettori, un po’ verso di noi, come si è visto, un po’ verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l’astensione. E dell’ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo (politico): da Scelta civica e dall’Udc in primo luogo, da cui provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione. Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori piddini in libera uscita nel ’13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal più simpatico Renzi). D’altra parte più o meno un altro mezzo milione di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E addirittura 2 milioni ritornano dall’astensione dove si erano rifugiati alle politiche.
Nonostante questo ritorno, comunque, l’esercito dell’astensione è ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record, delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione, quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina alla metà dell’intero corpo elettorale: il vero “partito della nazione”). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono 12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci milioni di elettori che hanno deciso di “uscire”, perché evidentemente non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po’ da tutti, dal M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta civica e dall’UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000), da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre più o meno radicali (Fratelli d’Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega (129.000)… Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso verso l’astensione quasi 3 milioni di elettori nell’ultimo anno (2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti 7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo rispetto ai tempi d’oro prima dell’inizio della crisi e prima di Ruby…
Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri di prima. Non solo con quelli dell’altro ieri, ma con quelli di ieri. Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013. Perché ci troviamo in un panorama politico che definire “allo stato liquido” è dir poco. Dovremmo dire “allo stato gassoso”.
Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro, con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita come parte integrante di un progetto europeo.
Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell’esperienza elettorale europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c’è tra quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una “proprietà” acquisita, un “patrimonio” stabile: dire che è da quello che bisogna partire non significa non pensare che, così come si è materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo appena percorso. Per varie ragioni.
Intanto perché l’”avventura” della lista Tsipras è iniziata sotto il segno di una emergenza e di una circostanza d’eccezione (potremmo dire nel quadro di uno “stato d’eccezione”): nell’imminenza di una campagna elettorale anomala com’è in generale quella delle europee, nella quale c’era, quest’anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un rappresentante. E in cui, d’altra parte, c’era l’occasione (insperata, da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello “stato d’eccezione”, le tante anomalie che hanno caratterizzato la “Lista Tsipras”. A cominciare dall’anomalia della nascita: non è quasi mai accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o da decisioni di organismi, ma da un’aggregazione di qualche decina di migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la convergenza di forze via via più ampia. E poi l’anomalia della composizione delle liste, con l’esclusione programmatica di candidati già eletti nell’ultimo decennio (che era il modo più semplice per limitare al minimo il “professionismo politico” e lanciare un chiaro messaggio di discontinuità all’elettorato). L’anomalia di una lista, dunque, come si è detto e ripetuto, “di cittadinanza” appoggiata e sostenuta da una rete di associazioni e anche da partiti che tuttavia si mantenevano uno o due passi indietro: condizione che non era riuscita nella precedente esperienza di “Cambiare si può” e di “Rivoluzione civile”, e che come sappiamo ha richiesto un certo braccio di ferro non del tutto irenico. L’anomalia, infine, di una campagna esplicitamente combattuta in condizioni di povertà assoluta, affidandoci molto all’iniziativa dal basso, dei candidati, dei loro “ambienti” di riferimento, delle loro risorse relazionali, con pochissimi e fragilissimi strumenti “centrali”.
Proprio per l’importanza di quella condizione da “stato d’eccezione” tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al “comunismo di guerra”, nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a cominciare dal tipo di “governance” (senza dubbio oligarchica, affidata com’era alla verticalità dell’organismo dei “garanti”), e dallo spazio limitato per la discussione collettiva (affidata all’eterogeneità delle forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei Comitati), oltre alla formazione in qualche misura “per cooptazione” del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione “d’eccezione” (finita appunto “la guerra”) non si possono più riproporre tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della condivisione stabili.
La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una “frattura di teatro” – come si direbbe in gergo bellico -; una modificazione strutturale dell’ambiente stesso nel quale si svolge la lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le stesse “forme” della politica: centrodestra, centrosinistra, maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o meno orientate a destra o a sinistra… Stiamoci attenti a questo cambio di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall’altra, riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto tutt’intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.
Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione, fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice del Pd con l’arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l’unico segno ormai riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale – il successo – quel “cambiamento di verso” che è un vero e proprio mutamento di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente monocratico, in cui la tirannia dell’urgenza travolge qualunque progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la retorica dell’ultima spiaggia impone senza residui la logica dell’uomo solo al comando.
Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l’anima subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare l’assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L’esserci, e il vincere. E’, con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo come progetto, ma con il suo solo apparire, l’essenza stessa del parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle vecchie tavole vale più. L’unanimismo con cui l’intero sistema mediatico ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all’immagine di servilismo che offre, è indicativo di questo “mutamento di stato” (nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile). C’è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente, tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le polarità: l’apparente irrisolvibilità della crisi economica per giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l’impresentabilità della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della “casta”) per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative. Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E’ invece il primo ad aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei processi di crisi – alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a cominciare dalla crisi del proprio partito.
Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi contro il suo partito. E’ stato incoronato, con quel suffragio trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo deve proprio all’ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo giorno in quanto “partito”, da buon populista quale è (se per “populista” si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e “popolo” eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non costituisce l’inversione di tendenza nella crisi storica del Partito democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L’estremo punto di arrivo. In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd renziano non è più un partito. Non dico un “partito” nel senso novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo, per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la “democrazia dei partiti” e quella che Bernard Manin chiama la “democrazia del pubblico”: un modello di democrazia rappresentativa in cui l’elettorato cessava di essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere “partito” anche nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più come “macchina” finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne l’azione, un po’ come la compagnia teatrale supporta il proprio capocomico.
Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase immediatamente successiva all’esaurimento della stessa “democrazia del pubblico”, caratterizzata da “partiti senza società” e da “leader senza partiti”, in cui “il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra leader, partiti e società si è consumato” sotto la pressione di una sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e sopravvive appunto solo il modello dell’”uomo solo al comando”, connesso al proprio “pubblico” esclusivamente attraverso il filo potente ma fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme. Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più impossibile, ma piuttosto determinato a “lavorare” sulla sfiducia dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a seconda dei casi. Comunque da guidare dall’esterno e dall’alto (dal Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell’aria nel caso in cui il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo all’estremo, nella consapevolezza che “dopo di lui il diluvio”).
Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una “democrazia ibrida” come la chiama Diamanti, o in una “post-democrazia” come sempre più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.
Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione dell’organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna elettorale, le “virtù” che ci hanno permesso di restare sopra il pelo dell’acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo non c’è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come programma d’azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione dell’iniziativa “di cittadinanza” con quella “d’organizzazione”, nuovi protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di pedagogia della cooperazione… Sapendo, tuttavia, che bisogna andare molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca di un “nostro popolo”, che finora ci è mancato e che si conquista solo frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci “vedere” (dal 25 maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato). Ma anche nell’interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti – inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare l’orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della “post-democrazia”, non ci sono più “soggetti politici” con cui intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o concorrenti. Il “Partito unico della Nazione” se avrà successo (e per un po’ lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella l’eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall’alto. E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva. Settori che si staccheranno dal corpo dell’iceberg e cercheranno connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti, senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci opportunisticamente a nessuno.
Abbiamo bisogno di “manifestare” – di prendere l’iniziativa e la piazza, contro la rassegnazione e l’isolamento -, ma anche, e tanto, di pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo passivo del testimonial. Che è indispensabile per “cercare ancora”. E questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po’ ci sconvolge un po’ non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni? Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci schiacci nella routine burocratica o all’opposto nella conflittualità permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?
Ce n’è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile che ci uniamo.
Marco Revelli
18 luglio 2014
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Finestra su Gaza (e dintorni)

rafah-striscia-di-gaza-19-luglio-2014

Segnalo alcuni dei siti più attenti agli eventi 2014 nella striscia di Gaza:
– Internazionale: Striscia di Gaza
– Haaretz: Israel-Gaza conflict 2014
– The Guardian: Gaza
– The New York Times: Israel

Per un’analisi più lenta, di medio-lungo periodo e aperta all’intera area medio-orientale rimando a:
– Limes: La guerra tra Israele e Hamas, contesto

Note e commenti linkati si trovano al tag Gaza.

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Gaza: 230+1 morti

Secondo Internazionale, che tiene la cronaca di Gaza minuto per minuto, i morti a stamane (vedi alle 10.11) sono 231, di cui uno israeliano.

Ieri è stata la giornata del bombardamento di una spiaggia dove giocavano dei bambini palestinesi. Morti quattro cugini, dai sette agli undici anni. In queste ore si parla di accordo per un cessate il fuoco globale. Queste voci dimostrano che in realtà si sta trattando, di nascosto, mentre la gente (palestinese) muore e subisce le peggiori minacce.

Aspettiamo comunque la tregua, meglio questa che i razzi e le ulteriori minacce. Ma la questione dev’esser affrontata con ben altro spirito, come sanno anche alcuni israeliani, p. es. in Haaretz. Quanto alle cause remote ne parleremo, ma certamente non è bello rileggere notizie come quelle riportate qui sotto.

Gaza, il gas nel mirino
di Manlio Dinucci
Per capire qual è uno degli obiet­tivi dell’attacco israe­liano a Gaza biso­gna andare in pro­fon­dità, esat­ta­mente a 600 metri sotto il livello del mare, 30 km al largo delle sue coste. Qui, nelle acque ter­ri­to­riali pale­sti­nesi, c’è un grosso gia­ci­mento di gas natu­rale, Gaza Marine, sti­mato in 30 miliardi di metri cubi del valore di miliardi di dol­lari. Altri gia­ci­menti di gas e petro­lio, secondo una carta redatta dalla U.S. Geo­lo­gi­cal Sur­vey (agen­zia del governo degli Stati uniti), si tro­vano sulla ter­ra­ferma a Gaza e in Cisgiordania.
Nel 1999, con un accordo fir­mato da Yas­ser Ara­fat, l’Autorità pale­sti­nese affida lo sfrut­ta­mento di Gaza Marine a un con­sor­zio for­mato da Bri­tish Gas Group e Con­so­li­da­ted Con­trac­tors (com­pa­gnia pri­vata pale­sti­nese), rispet­ti­va­mente col 60% e il 30% delle quote, nel quale il Fondo d’investimento dell’Autorità ha una quota del 10%. Ven­gono per­fo­rati due pozzi, Gaza Marine-1 e Gaza Marine-2.
Essi però non entrano mai in fun­zione, poi­ché sono bloc­cati da Israele, che pre­tende di avere tutto il gas a prezzi strac­ciati. Tra­mite l’ex pre­mier Tony Blair, inviato del «Quar­tetto per il Medio Oriente», viene pre­pa­rato un accordo con Israele che toglie ai pale­sti­nesi i tre quarti dei futuri introiti del gas, ver­sando la parte loro spet­tante in un conto inter­na­zio­nale con­trol­lato da Washing­ton e Londra.
Ma, subito dopo aver vinto le ele­zioni nel 2006, Hamas rifiuta l’accordo, defi­nen­dolo un furto, e chiede una sua rine­go­zia­zione. Nel 2007, l’attuale mini­stro della difesa israe­liano Moshe Ya’alon avverte che «il gas non può essere estratto senza una ope­ra­zione mili­tare che sra­di­chi il con­trollo di Hamas a Gaza». Nel 2008, Israele lan­cia l’operazione «Piombo Fuso» con­tro Gaza. Nel set­tem­bre 2012 l’Autorità pale­sti­nese annun­cia che, nono­stante l’opposizione di Hamas, ha ripreso i nego­ziati sul gas con Israele. Due mesi dopo, l’ammissione della Pale­stina all’Onu quale «Stato osser­va­tore non mem­bro» raf­forza la posi­zione dell’Autorità pale­sti­nese nei nego­ziati. Gaza Marine resta però bloc­cato, impe­dendo ai pale­sti­nesi di sfrut­tare la ric­chezza natu­rale di cui dispongono.
A que­sto punto l’Autorità pale­sti­nese imbocca un’altra strada. Il 23 gen­naio 2014, nell’incontro del pre­si­dente pale­sti­nese Abbas col pre­si­dente russo Putin, viene discussa la pos­si­bi­lità di affi­dare alla russa Gaz­prom lo sfrut­ta­mento del gia­ci­mento di gas nelle acque di Gaza. Lo annun­cia l’agenzia Itar-Tass, sot­to­li­neando che Rus­sia e Pale­stina inten­dono raf­for­zare la coo­pe­ra­zione nel set­tore ener­ge­tico. In tale qua­dro, oltre allo sfrut­ta­mento del gia­ci­mento di Gaza, si pre­vede quello di un gia­ci­mento petro­li­fero nei pressi della città pale­sti­nese di Ramal­lah in Cisgiordania.
Nella stessa zona, la società russa Tech­no­pro­mex­port è pronta a par­te­ci­pare alla costru­zione di un impianto ter­moe­let­trico della potenza di 200 MW. La for­ma­zione del nuovo governo pale­sti­nese di unità nazio­nale, il 2 giu­gno 2014, raf­forza la pos­si­bi­lità che l’accordo tra Pale­stina e Rus­sia vada in porto.
Dieci giorni dopo, il 12 giu­gno, avviene il rapi­mento dei tre gio­vani israe­liani, che ven­gono tro­vati uccisi il 30 giu­gno: il pun­tuale casus belli che inne­sca l’operazione «Bar­riera pro­tet­tiva» con­tro Gaza. Ope­ra­zione che rien­tra nella stra­te­gia di Tel Aviv, mirante a impa­dro­nirsi anche delle riserve ener­ge­ti­che dell’intero Bacino di levante, com­prese quelle pale­sti­nesi, liba­nesi e siriane, e in quella di Washing­ton che, soste­nendo Israele, mira al con­trollo dell’intero Medio Oriente, impe­dendo che la Rus­sia riac­qui­sti influenza nella regione. Una miscela esplo­siva, le cui vit­time sono ancora una volta i palestinesi.
(il manifesto, 14 luglio 2014)
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Gaza: 172 morti

Prima o poi pensavo di scrivere qualcosa sulle cause remote del conflitto in Israele/Palestina, quelle in grado di spiegare l’attuale comportamento dei governanti di Israele nei confronti di Gaza, come le posizioni palestinesi ed in particolare di Hamas, ma aldilà delle note ufficiali e delle comunicazioni mediatiche, che in tempo di guerra non possono certo essere attendili tout court. Ma proprio una lettura calda, di giornata, mi suggerisce di rimandare il discorso sulle cause remote. Ci saranno, purtroppo, tante altre occasioni.

Così riporto qui l’articolo di Gideon Levy, un giornalista di Haaretz molto noto per le sue chiarissime prese di posizione.

Per la cronaca, il titolo principale dato da Internazionale (“L’obiettivo di Israele sono i civili”) traduce l’incipit ma è politicamente più neutro del vero titolo originale (“Israel’s real purpose in Gaza operation? To kill Arabs”) e della sintesi online (“Since the first Lebanon war over 30 years ago, Israel’s main strategy has been killing Arabs. The current atrocious war in Gaza is no different.”). (Le evidenziazioni nel testo sono mie. La parentesi del titolo riporterà sempre il numero dei morti secondo le agenzie internazionali al momento della pubblicazione del post.)
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L’obiettivo di Israele sono i civili
di Gideon Levy
Lo scopo dell’operazione Margine protettivo è riportare la calma. Il mezzo per raggiungerlo è uccidere civili. Lo slogan della mafia è diventato la politica ufficiale di Israele.
Israele crede davvero che, se uccide centinaia di palestinesi nella Striscia di Gaza, regnerà la calma. Distruggere i depositi di armi di Hamas, che ha dimostrato di sapersi riarmare, è inutile. Abbattere il governo di Hamas è un obiettivo irrealistico (e illegittimo) che Israele non vuole raggiungere, ben sapendo che l’alternativa potrebbe essere molto peggiore. Quindi l’unico scopo possibile di questa operazione militare è questo: morte agli arabi, con il plauso delle masse.
L’esercito israeliano ha già una “mappa del dolore”, un’invenzione diabolica che ha preso il posto della non meno diabolica “banca degli obiettivi”, e questa mappa si sta allargando a ritmi nauseanti. Basta guardare le trasmissioni di Al Jazeera in lingua inglese – una tv equilibrata e professionale, a differenza della sua versione araba – per comprendere la portata del successo. La verità non la vedrete negli studi “aperti” di Israele – aperti, come al solito, soltanto alle vittime israeliane – ma la vedrete tutta intera su Al Jazeera, e forse resterete perfino scioccati.
A Gaza si stanno ammucchiando i cadaveri. È il conteggio disperato, e incessantemente aggiornato, delle uccisioni di massa di cui Israele si vanta, e che a mezzogiorno di sabato scorso già comprendeva decine di civili, compresi 24 bambini, più centinaia di feriti che andavano a sommarsi all’orrore e alla devastazione. Sono già stati bombardati una scuola e un ospedale. Lo scopo è colpire case, e nessuna giustificazione al mondo può bastare: è un crimine di guerra, anche se le forze armate israeliane definiscono questi obiettivi “centri di comando e controllo” o “sale riunioni”.
Fin dalla prima guerra del Libano, cioè da più di trent’anni, uccidere arabi è il principale strumento strategico di Israele. L’esercito israeliano non combatte contro altri eserciti: il suo obiettivo primario sono i civili. Tutti sanno che gli arabi nascono solo per uccidere ed essere uccisi: non hanno altro scopo nella vita, e così Israele li uccide.
Naturalmente, non si può non indignarsi per il modus operandi di Hamas. Non solo punta i suoi razzi contro centri abitati da civili in Israele e si posiziona all’interno di centri abitati (forse non ha alternativa, considerato l’affollamento della Striscia di Gaza): Hamas lascia la popolazione civile di Gaza indifesa di fronte ai brutali attacchi israeliani e non predispone sirene antiaeree, rifugi o spazi protetti. È un comportamento criminale. Ma i bombardamenti dell’aviazione israeliana non sono meno criminali, negli effetti e nelle intenzioni.
Nella Striscia di Gaza non c’è un solo edificio in cui non abitino decine di donne e bambini, quindi l’esercito israeliano non può sostenere di non voler colpire civili innocenti. Se la recente demolizione della casa di un terrorista in Cisgiordania ha ancora suscitato qualche protesta, per quanto flebile, in queste ore si stanno distruggendo decine di case, e con esse i loro abitanti.
Generali a riposo e commentatori in servizio attivo fanno a gara per avanzare la proposta più mostruosa: “Se gli ammazziamo i parenti, si spaventeranno”, ha spiegato senza batter ciglio il generale Oren Shachor. “Dobbiamo creare una situazione tale per cui, quando usciranno dalle loro tane non riconosceranno più Gaza”, ha detto qualcun altro. Senza pudore e senza essere messi in discussione, almeno fino alla prossima inchiesta delle Nazioni Unite.
Le guerre senza scopo sono quelle più spregevoli. Prendere deliberatamente di mira i civili è uno dei mezzi più atroci. Ora il terrore regna anche in Israele, ma è improbabile che anche un solo israeliano possa immaginare cosa significa questa parola per il milione e 800mila abitanti di Gaza, la cui vita, già infelice, ormai è assolutamente raccapricciante. La Striscia di Gaza non è “un nido di vespe”, come è stata chiamata, ma una provincia della disperazione umana. Nonostante le sue strategie del terrore, Hamas è tutt’altro che un esercito. Se è vero, come si va dicendo, che a Gaza Hamas ha scavato una rete tanto sofisticata di tunnel, perché non costruisce anche la metropolitana leggera di Tel Aviv?
La soglia delle mille incursioni e delle mille tonnellate di bombe sganciate è stata quasi raggiunta, e Israele aspetta una “foto della vittoria” che è già stata ottenuta: morte agli arabi.
(da Internazionale, 14 luglio 2014)
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Uno squalo sul pavé

ETAPE 04

Vincenzo Nibali sul pavé della quinta tappa del Tour 2014. Ha conquistato la maglia gialla alla seconda tappa, il Tour è molto lungo e difficile, ma “Lo squalo dello Stretto” merita già oggi il saluto dei suoi tifosi.

(Vedi la corrispondenza di Gianni Mura su la Repubblica.)

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Negli Usa arriva finalmente la decrescita felice (e programmata)

Riproduco integralmente l’articolo pubblicato su la Repubblica sull’impatto della riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. (Faccio solo delle evidenziazioni.)

La misura dello sviluppo
Il calo delle tariffe assicurative deprime il Prodotto interno lordo americano: meno 2,9%
E’ uno degli effetti della riforma di Obama ma né la stampa né i mercati drammatizzano
Il paradosso del Pil in Usa sta frenando ma il benessere cresce con la sanità meno cara
di Federico Rampini
NEW YORK. «Perché il Pil puzza e perché nessuno ci fa attenzione »: con questo titolo colorito il Wall Street Journal riassume le reazioni delle Borse alla notizia di una presunta “frenataccia” dell’economia americana. Meno 2,9%, il Pil nel primo trimestre di quest’anno. Un dato pessimo, mette l’America “in rosso” dopo cinque anni di ripresa, la sbatte dietro ai malati cronici dell’eurozona. É il peggiore dato dal primo trimestre del 2009, quando gli Stati Uniti erano ancora nel mezzo della recessione. Ma questa revisione del Pil ha lasciato indifferenti i mercati e gli esperti. L’unica vittima? La credibilità stessa del Prodotto interno lordo come indicatore sullo stato di salute dell’economia. Un tempo a contestare il Pil erano soprattutto economisti di sinistra, come i premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz, ambedue autori di statistiche “alternative”. Oppure, ancora più radicali, c’erano le critiche dei teorici della decrescita come Serge Latouche, per i quali l’aumento del Pil è sinonimo di sviluppo insostenibile, distruzione di risorse naturali. La novità: adesso agli attacchi contro il Pil si uniscono l’establishment, i mercati, gli organi del neoliberismo.

«L’incidente del primo trimestre 2014», come si può intitolare la vicenda dello scivolone in negativo, è davvero esemplare. Tra i fattori che hanno frenato la crescita Usa, il più potente è la riforma sanitaria di Barack Obama. A gennaio di quest’anno entrava in vigore il nuovo sistema assicurativo. La sua prima conseguenza è stata un calo delle tariffe sulle polizze sanitarie.E qui si tocca l’incongruenza dell’indicatore Pil: se gli americani hanno finalmente speso un po’ meno per le assicurazioni mediche questa è un’ottima notizia, ma riduce il Pil che è un aggregato di tutte le spese. Il Pil non dice se stia migliorando la qualità delle cure mediche e quindi la salute, misura solo la spesa nominale. Una sanità inefficiente e costosa “fa bene” alla crescita, se invece si riducono sprechi e rendite parassitarie delle compagnie assicurative, l’economia apparentemente ne soffre.
L’attacco al Pil trova concorde il Financial Times. «Come il Pil è diventato un’ossessione globale», è il tema di un’inchiesta del quotidiano inglese. Che parte da alcune sconcertanti revisioni nella contabilità nazionale che hanno fatto notizia. La Cina, secondo uno studio recente della Banca mondiale, è molto più ricca di quanto credevamo: sta per sorpassare gli Stati Uniti, da un mese all’altro. Anche l’Inghilterra ha un’economia più prospera di quanto si pensava. Perché? Il “riesame” del Pil cinese, è stato deciso per correggere errori del passato. Sopravvalutando il costo reale di alcuni generi di prima necessità come gli spaghetti, si era simmetricamente “impoverito” (nelle statistiche) il potere d’acquisto dei consumatori. Errore corretto, e oplà, di colpo la Cina nel suo nuovo Pil misurato “a parità di potere d’acquisto” diventa quasi eguale all’America. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, il suo “arricchimento” improvviso (+5%) nasce dall’inclusione nel Pil di attività illecite e sommerse come la prostituzione e il traffico di droga. Nel caso cinese come in quello inglese è evidente che siamo di fronte a operazioni contabili del tutto discrezionali, arbitrarie. Non è cambiato nulla per il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore di quei paesi. É cambiato solo un numero, deciso dagli economisti. Per la Gran Bretagna, poi, è evidente l’aspetto paradossale di questo massaggio delle statistiche: siamo proprio sicuri che l’inclusione della droga nel Pil sia un indicatore fedele del benessere nazionale?
L’economista Diane Coyle, che è stata consigliera del ministero del Tesoro britannico, ha pubblicato un libro sulla storia del Pil: “Gdp: A Brief But Affectionate History”. Documentato, erudito, ironico, ma anche sferzante. La Coyle ci ricorda che «non esiste una cosa reale che gli economisti misurano e chiamano Pil». Quell’indicatore statistico è un’astrazione, un aggregato di spese dove entra di tutto: dai manicure alla produzione di trattori ai corsi di yoga. Primo consiglio della Coyle: liberiamoci dall’idea che la rilevazione del Pil sia come la misurazione del perimetro terrestre, un’operazione complessa ma scientificamente rigorosa.
Del resto il Pil è un’invenzione recente, e strumentale. Il primo a lavorarci fu l’economista americano di origine bielorussa Simon Kuznets, negli anni Trenta. La missione gli era stata affidata dal presidente Franklin Delano Roosevelt. Nel bel mezzo della Grande Depressione, Roosevelt aveva bisogno di una misura dello stato di salute dell’economia, che non fosse di tipo settoriale o aneddotico come quelle usate fino ad allora. Ma lo stesso Kuznets dopo avere “inventato” il Pil cominciò a esprimere serie riserve sulla sua validità. Nella maggior parte dei paesi sviluppati bisogna attendere gli anni Cinquanta perché il Pil entri nelle consuetudini.
Un indicatore ben più completo e utile è quello elaborato per le Nazioni Unite da Amartya Sen ed altri, lo Human Development Index (indice dello sviluppo umano): misura per esempio la qualità della salute e dell’istruzione. Perché non riesce a spodestare il Pil nel dibattito pubblico? La spiegazione che dà Sen è disarmante, o inquietante: «Il Pil misura un tipo di crescita quantitativa che ha coinciso con l’arricchimento di minoranze privilegiate. L’indice dello sviluppo umano sposterebbe l’attenzione verso attività e settori che vanno a beneficio degli altri».
(la Repubblica, 6 luglio 2014)
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