Un comitato greco ha lavorato anche per noi italiani

Luciano Gallino va letto sempre e perciò lo ripropongo sempre anche ai miei quattro lettori. L’articolo pubblicato oggi su la Repubblica (p. 30), mette in luce ancora una volta le responsabilità di alcune istituzioni europee nella crisi greca, ma anche in quella italiana. Se dobbiamo liberarci di una certa politica, oltre alla ghigliottina, dobbiamo pensare a conoscere ed usare bene i trattati e le leggi internazionali sui diritti umani.

La lezione di Atene per l’Italia
di Luciano Gallino
POCHI giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo. Il rapporto greco è fitto di riferimenti alle leggi e al diritto internazionali. E contiene, in modo abbastanza evidente, una lezione per l’Italia.
Il rapporto distingue con cura tra illegalità, illegittimità e odiosità di un debito pubblico. Un debito è illegale se il prestito contravviene alle appropriate procedure previste dalle leggi esistenti. È illegittimo quando le condizioni sotto le quali viene concesso il prestito includono prescrizioni nei confronti del debitore che violano le leggi nazionali o i diritti umani tutelati da leggi internazionali. Infine è odioso quando il prestatore sapeva o avrebbe dovuto sapere che il prestito era stato concesso senza scrupoli, da cui sarebbe seguita la negazione alla popolazione interessata di fondamentali diritti civili, politici, sociali e culturali. Il Fmi è responsabile di tutt’e tre le infrazioni perché le condizioni imposte alla Grecia in relazione ai suoi prestiti hanno gravemente peggiorato le sue condizioni economiche e il suo sistema di protezione sociale. Da vari documenti interni del Fondo stesso, risalenti al periodo 2010-2012, appare evidente che perfino il suo staff, una parte consistente del consiglio direttivo formato da rappresentanti di vari paesi, e non pochi dirigenti sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze negative a danno della popolazione greca.
La Bce non è stata da meno, contribuendo ai programmi di aggiustamento macroeconomici della Troika e insistendo in special modo sulla de-regolazione del mercato del lavoro — violando in tal modo anche gli articoli del Trattato Ue che stabiliscono la sua indipendenza dagli stati membri. Con le sue manovre relative al commercio dei titoli sul mercato secondario ha reso possibile alle banche private greche di scaricare dal bilancio gran parte dei titoli di stato, peggiorando le condizioni del bilancio pubblico. Quanto al fondo Efsf, sebbene gestisca fondi pubblici europei, è stato costituito come società privata cui non si applicano le leggi Ue, persegue unicamente obbiettivi finanziari, e sapeva bene di imporre con i suoi prestiti costi abusivi alla Grecia, senza che essi recassero alcun beneficio al paese. Pertanto molte azioni svolte da Bce e Efsf nei confronti della Grecia nel periodo 2010-2015 sono classificabili come illegali, illegittime e odiose. Il testo abbonda di rimandi ad altre violazioni operate dalla troika. Esse vanno dalla falsificazione delle statistiche economiche e sociali della Grecia alla violazione della sovranità fiscale dello stato greco.
Si dirà: ma che c’entra l’Italia con le vicende del debito greco? C’entra eccome, poiché vi sono perentori memoranda e lettere di istruzione inviate al governo italiano dalle medesime istituzioni Ue, e nello stesso periodo, che nello spirito e nei contenuti sembrano delle fotocopie di quelle inviate al governo ellenico. Si veda ad esempio la lettera indirizzata al governo italiano dalla Bce nell’agosto 2011. Essa raccomandava varie misure pressanti, quali «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali»; «privatizzazioni su larga scala»; una ulteriore riforma del «sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di impresa»; l’adozione di «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti»; un ulteriore intervento nel sistema pensionistico; «una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego»; infine chiedeva che «tutte le azioni elencate… siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare ». Questi e vari altri interventi peggiorativi delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini italiani sono stati prontamente adottati dai governi italiani, fino all’attuale con il suo scandaloso Jobs Act, non mancando di ripetere ad ogni momento la trita giustificazione «ce lo chiede l’Europa». In realtà non è l’Europa a chiederlo, ma singole istituzioni europee, molto spesso in violazione, come documenta il rapporto greco, degli stessi trattati Ue e di numerosi trattati internazionali. Al punto da far sorgere il dubbio che siano da considerare anch’essi, i dettati inviati all’Italia, illegali, illegittimi e odiosi. In attesa che qualcuno se ne accorga, avvii le procedure necessarie, e si impegni a chiedere alla Ue che rispetti almeno i medesimi trattati da essa sottoscritti. Tutto ciò non soltanto per il rispetto dovuto alle leggi ma perché il prossimo caso greco potremmo essere noi.
(la Repubblica, 26 giugn0 2015)
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Noi che abbiamo visto pedalare Merckx

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Oggi Eddy Merckx compie settant’anni. Per chi l’ha conosciuto può bastare l’articolo qui sotto di Gianni Mura, per chi è fortunatamente così giovane da non averlo conosciuto non può bastare né la bella voce Wikipedia né qualche video d’annata. Aspettare la Milano-Sanremo per vedere come Merckx l’avrebbe vinta è stato un privilegio di noi sessantottini, uno dei tanti.

Io l’ho visto passare su strada una sola volta, ma fu un evento particolare. Ero sotto naja alpina e si stava facendo il campo estivo dalle parti di Forni di Sopra. Durante una manovra, cioè quelle simulazioni che in realtà mi ricordavano i giochi da far west che facevamo da bambini con pistole e fucili di legno, ci accostammo mimetizzati e proni sotto gli alberi al Passo della Mauria. Era l’ultima tappa del Giro 1973, la Auronzo-Trieste. Volevo vedere quel ciclista che l’anno prima era già riuscito a ripetere la doppietta Giro-Tour (1970 e 72), come Fausto Coppi (1949 e 52). Ma poi ne fece una terza nel 1974, una ogni due anni, a conferma che non era cosa così facile neppure per lui.

Passarono in ordine Fuente, il giovane Battaglin (terzo in classifica finale) e Merckx che non li mollava neanche nell’ultima tappa, mentre non vidi Felice Gimondi che finì secondo in classifica generale. Il ciclismo resta un grande sport anche perché ha avuto grandi campioni come Eddy Merckx.

Ciclismo: i 70 anni di Eddy Merckx, l’uomo che sapeva soltanto vincere
di Gianni Mura
Roma – Ha vinto tante corse, ha sconfitto tanti pregiudizi, ha obbligato e continua ad obbligare esperti e tifosi al solito vecchio esercizio: più grande Coppi o Merckx? Per uscire intatti dal ginepraio, la risposta esatta è: “Coppi il più grande, Merckx il più forte”. La paternità della frase è attribuita a Jacques Goddet, Bruno Raschi e Gian Paolo Ormezzano. Non so chi sia stato il primo ma posso sottoscriverla. Oppure affermare che, di tutti quelli che ho visto correre, Merckx è stato il più grande e il più forte (poi, Hinault). La grandezza non si misura solo sulle vittorie, altrimenti con Merckx non ci sarebbe sfida. Si misura anche sul valore degli avversari, e Coppi ne ha avuti, tanti e forti. Anche Merckx, però.
Cominciò quando erano agli sgoccioli Anquetil, Van Steenbergen e Van Looy. Gli altri, mescolando velocisti, uomini da corse a tappe, cronomen: Poulidor, Guimard, Thevenet, Ocana, Fuente, Jimenez, Agostinho, Gimondi, Adorni, Motta, Zilioli, Bitossi, Dancelli, Durante, Basso, Zandegù, Zoetemelk, Van Springel, Roger De Vlaeminck, Pingeon, Reybroeck, Godefroot, Leman, Janssen, Altig, Maertens, Ritter, Sercu, Bracke. Quasi una trentina, con una loro specializzazione. Quella di Merckx era di non averne. Andava forte su tutti i terreni.
Si presentò a Sanremo, nel ’66. Aveva finito da un mese il servizio militare. Aveva già vinto un mondiale dilettanti, ma fu ugualmente una sorpresa. E per un po’ si pensò che l’eredità dei due grandi Rik era assicurata, ecco il nuovo dominatore delle classiche. Ma un belga forte davvero in salita si doveva ancora vederlo. Essendo belga, disse Brera, Merckx avebbe scontato una dieta povera di carboidrati. Neanche un po’, invece. Dopo una breve stagione alla corte dei due Rik (che certamente non lasciavano spazio a un pivello) e due alla Peugeot, Eddy scelse l’Italia, le squadre italiane: tre anni con la Faema (poi Faemino), sei con la Molteni di Arcore. Vinse il Giro del ’68 con un’impresa sulle Tre Cime di Lavaredo, sotto la neve in maniche corte. In 12 km di salita aveva recuperato 9′ a sedici fuggitivi, tra cui Bitossi. Gli buttarono addosso una coperta di lana e lo scortarono al rifugio, dove si lavò in una tinozza d’acqua bollente. Lo so perché c’ero.
Era un ciclismo così, quando faceva caldo i corridori mettevano una foglia di verza sotto il berrettino. “Non sono mai andato così forte in salita”, disse Merckx anni dopo. C’ero anche nella camera numero 11 dell’hotel Excelsior di Albisola, quando Merckx in maglia rosa fu messo fuori corsa per doping. Mancavano solo i crisantemi fuori dalla porta, era tutta una processione a piccoli gruppi che Marino Vigna, col groppo in gola, filtrava sulla soglia. Prima le grandi firme, Zavoli con gli operatori del Processo alla tappa, poi gli altri alla spicciolata. Io entrai con un gruppetto della Scic (Armani, Paolini, Casalini), una pacca sulla spalla e via. Lui continuava a piangere come un bambino che si ritrova col giocattolo rotto e quella mattina pensai: o è un attore più bravo di Marlon Brando o è davvero innocente e qualcuno gli ha messo qualcosa nella borraccia quando tutte le bici erano accatastate fuori dal duomo di Parma, e i corridori dentro, a messa. Non ho cambiato idea, su quell’episodio in particolare. So che in un’intervista a Philippe Brunel Merckx ha dichiarato che due giorni prima di Parma Rudi Altig gli si era presentato con una grossa borsa piena di soldi perché perdesse il Giro e lui gli aveva detto: “Non aprirla neanche, non voglio sapere quanto c’è dentro, io queste cose non le faccio e basta”. Ma aveva anche escluso che Gimondi fosse al corrente: “Felice è l’avversario più leale che ho incontrato”. Infatti si trovano ancora, almeno una volta all’anno, con le mogli. “Quando Felice si alza e dice buonanotte, non devo guardare l’orologio, so che è mezzanotte”.
Quel 1969 fu l’anno più buio (Savona e Blois) e più luminoso di Eddy. Aveva vinto la sua terza Sanremo, la Parigi-Nizza, il Fiandre con 5′ su Gimondi, la Lbl. Tornato ferito a Bruxelles (su aereo messo a disposizione dalla Casa reale) fu ammesso al Tour, mentre in Belgio si boicottavano i prodotti italiani e si sfiorò una crisi diplomatica. Dominò quel Tour da cima a fondo , conquistò la maglia gialla, quella della montagna, quella della classifica a punti e quella della combinata, sei vittorie di tappa, 20 giorni in maglia gialla. Ed era il suo primo Tour. Goddet coniò “merckxismo” e la figlia di Christian Raymond, un corridore della Peugeot, “cannibale” (perché agli altri non lasciava neanche le briciole). Il soprannome gli è rimasto, e non gli piace, come non gli piaceva “l’orco di Tervuren”. Gli piaceva fumare una sigaretta con filtro quand’era rilassato (ero tra i fornitori), bere una pinta di birra con i compagni, dai quali esigeva il massimo. Nel periodo delle kermesses gli capitava di andare a letto molto tardi, poi si alzava che era una rosa e gli avversari stracci.
E nemmeno, come questi tutti i ciclisti, arrivava da una famiglia povera. Jules e Jenny Merckx gestivano una drogheria nella periferia di Bruxelles. Eddy non aveva molta voglia di studiare. Faceva sport (corsa campestre, un po’ di pugilato), tifava per l’Anderlecht ma era solo discreto da calciatore, subito vincitore da ciclista. A chi non c’era, dirò che Merckx andava forte in salita, in pianura e in discesa, che ha vinto anche un titolo belga di ciclocross, che ha battuto il record dell’ora, che ha vinto in pista 17 Sei Giorni. Gli chiesero: cos’è per te lo sport? “Vincere”, rispose.
Nel settembre del ’69 sulla pista di Blois il guidatore della sua moto fu investito, cadde e morì. Lui se la cavò con un trauma cranico e uno spostamento del bacino che in salita lo obbligava a una postura particolarmente dolorosa. “Ho pianto spesso per il male”. Ma resisteva bene alla fatica, non pativa né il caldo né il freddo. Era un ciclismo elementare e grandissimo. Bisogna avere una grande fantasia per vincere 7 volte la Sanremo. Ma, visto che oggi compie 70 anni, vorrei aggiungere che non era freddo né scostante, emanava luce da campione e calore umano, sapeva vincere, eccome, ma anche perdere. Un cardiologo piemontese, Giancarlo Lavezzaro, lo visitò ad Alba nel ’67 e gli riscontrò una miopatia ipertrofica non occlusiva, un cuore a rischio d’infarto. Oggi Merckx non otterrebbe la licenza per fare sport ad alto livello. Ipertrofia a parte, il cuore grande era molto generoso.
Pagato per dare spettacolo, fornito dalla natura di tutti i mezzi per darlo, di spettacolo ne ha dato davvero tanto, ogni anno da febbraio a ottobre, non come si usa adesso. Questo, con gli auguri per i 70 anni anni, va riconosciuto a Edouard Louis Joseph Merckx. Con un grazie da ex suiveur che ha ancora un po’ di memoria.
(la Repubblica, 17 giugno 2015)
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Ostaggi del benessere e paurosi dei migranti

Riproduco l’intervista a Zygmunt Bauman pubblicata oggi su la Repubblica (p. 13) e ripresa dal sito di Diritti globali. (Le evidenziazioni sono mie.)

“Siamo ostaggi del nostro benessere per questo i migranti ci fanno paura”
di Wlodek Glodkorn
Zygmunt Bauman, oggi uno dei pensatori più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta, quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la dialettica dell’integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una parte della popolazione.
Sembra che non siamo in grado di far fronte alla questione immigrati.
«Il volume e la velocità dell’attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c’è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l’impressione che “le cose sfuggono al nostro controllo”. Ma a guardare bene i modelli sociali e politici con cui si risponde abitualmente alle situazioni di “crisi”, nell’attuale “emergenza immigrati”, ci sono poche novità. Fin dall’inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state “estranei”, “altri”».
Quindi ne abbiamo paura. Per quale motivo?
«Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura».
La paura porta a creare capri espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale?
«In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto».
Sta parlando del meccanismo grazie a cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe?
«Ci sono partiti abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla “redistribuzione delle difficoltà” (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto tempo fa nel film Napoletani a Milano , del 1953, di Eduardo De Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile l’appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto».
Una volta, in Europa, era la sinistra a integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio, sindacati, lavoro politico…
«Intanto non ci sono più quartieri degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l’erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque dell’indifferenza e della mancanza dell’umanità. Tutto questo è il contrario all’imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che non vogliamo sia fatto a noi».
E allora che fare?
«Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso».
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Appello al voto delle elezioni regionali del Veneto

Desidero fare un appello personale al voto di domenica 31 maggio.

Come sempre, anche questo voto regionale è ambivalente, perché sono iscritti al voto circa 23 milioni di cittadini italiani che daranno anche un giudizio sull’operato del governo guidato da quindici mesi da Matteo Renzi. In Italia è successo infatti che queste elezioni di medio termine abbiano segnato in passato la netta conferma del governo in carica, con il cambiamento a lui favorevole della guida di diverse regioni implicate, come crisi di governo e perfino cambiamenti della sua guida. Questa ricorrenza non può essere negata da nessuno, tantomeno dall’attuale premier che – dopo qualche sparata iniziale di sfida (“vinceremo 7 a 0”) – ora sta minimizzando l’impatto politico generale che per lui potrebbe essere tutt’altro che trionfale. Si teme molto un ulteriore calo degli elettori, sulla scia delle regionali emiliane del novembre scorso quando votò solo il 37,7% e furono bocciati tutti.

Tra le sette regioni che vanno al voto – Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia – ci sono situazioni molto diverse dal punto di vista politico, economico e sociale, con casi peculiari in Liguria, dove in Pd si presenta spaccato, e in Campania, dove si sa già che il voto è destinato ad esser rovinato da troppe candidature impresentabili secondo la legge Severino e quindi destinate ad essere invalidate. Una situazione paradossale a cui il premier e il Pd non hanno saputo dare una risposta di difesa della legalità ma puramente propagandistica, tipica di un regime non democratico.

Il voto nel Veneto è il primo dopo lo scandalo del Mose che ha scoperchiato decenni di malaffare e di corruzione ai vertici della Regione e non può non esser valutato come giudizio sul ceto politico regionale. Che la grande maggioranza della Regione accetti tutto quanto è successo senza rigetto alcuno sarebbe assai triste per i veneti.

Per chi come me ha sempre dato il voto a sinistra, da alcuni anni anche in chiave ambientalista, la situazione è particolarmente dura, in assenza di una lista votabile sia dentro che fuori l’alleanza col Pd. Dentro c’è una lista – Il Ven(e)to Nuovo – che è già una mini coalizione tra Sel, Verdi (ma “Europei”) e la nuova Sinistra Veneta, ovvero qualche fuoriuscito da Rc. Fuori c’è L’altro Veneto, ovvero quello che resta di Rc e qualche altro verde/ambientalista, col nome ereditato dall’esperienza dell’Alta Europa con Tsipras – che però comprendeva tutti, dal Sel a Rc ai verdi e anche molti protagonisti della società civile. Adesso però basta. Questo è un gioco dell’oca a cui non si può più partecipare. Un’alleanza su lavoro, beni comuni e ambiente rimane la base necessaria, ma deve partire dal progetto e non dalle sigle o da qualche nome, ormai tutti penosi fantasmi.

Votare alle regionali per le liste cosiddette rossoverdi mi è dunque impossibile, quanto votare la renziana Alessandra Moretti, su cui non voglio sprecare nessun aggettivo.  Nonostante l’accoppiata Salvini/Zaja mi faccia leggermente più schifo di quella Renzi/Moretti, ho deciso di non farmi più violenza e di non votare più per qualcosa di meno schifoso.

Alle regionali quindi credo che il non-voto sia una scelta con un chiaro valore morale e politico e non ritirerò la scheda. Non so cosa produrrà nel governo della Regione, ma penso e spero che una forte astensione servirà a tutti, partiti, partitini e fantasmi.

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Renzi oltre Mussolini

Pubblico senza commenti.

Renzi e Mussolini, trova le differenze
di Maurizio Viroli

Nella storia dell’Italia unita l’unico precedente di un leader politico che ha fatto approvare una legge elettorale con forte premio di maggioranza e ha trasformato una delle due Camere elettive in una Camera di nominati è Benito Mussolini.
Poco dopo essere stato chiamato dal re a formare un governo, Mussolini fece approvare una riforma della legge elettorale (“legge Acerbo”, dal nome del suo estensore) che assegnava alla lista che avesse raggiunto il 25% dei voti validi i 2/3 dei seggi alla Camera dei deputati (il Senato era di nomina regia). Grazie alla nuova legge, Mussolini si assicurò il controllo della Camera e poté avviare la costruzione dello Stato totalitario che culminò con l’istituzione (legge 129 del 19 gennaio 1939) della Camera dei fasci e delle corporazioni formata da “consiglieri nazionali” non votati dal popolo (l’ultima parvenza di elezioni, con abusi e violenze di ogni tipo, c’era stata nel 1924), ma tratti da altre istituzioni del regime: il Gran Consiglio del Fascismo, il Consiglio Nazionale del Partito Fascista, il Consiglio Nazionale delle Corporazioni e altre ancora.
Matteo Renzi è più veloce di Mussolini e attua insieme la riforma elettorale e l’abolizione di una delle due Camere elettive. Con l’“Italicum” ha dato vita a una legge elettorale con forte premio che garantisce alla lista che vince le elezioni una salda maggioranza parlamentare. Con la riforma costituzionale abolisce il Senato eletto dal popolo e lo sostituisce con un dopolavoro per consiglieri comunali e regionali nominati.
Le analogie storiche sono spesso fuorvianti. Mussolini è salito al potere grazie alla viltà del re e con la violenza della sua milizia. Dopo aver ottenuto la maggioranza assoluta della Camera, grazie alla nuova legge elettorale, ha abolito tutte le libertà civili e politiche e istituito il regime a partito unico. Renzi non ha usato alcuna violenza e non ha violato alcuna libertà fondamentale. Ma le due riforme sommate insieme segnano la nascita di un potere enorme con insufficienti freni e limiti.
Renzi e i suoi proclamano che grazie alle due riforme chi vince le elezioni può finalmente governare. Tralascio di insistere sul fatto che la riforma della Costituzione che abolisce il Senato elettivo è incostituzionale (la nostra Carta fondamentale permette la revisione, non la riforma); si fonda sulla menzogna (non è vero che il sistema bicamerale non permette di legiferare); è dissennata (una sola Camera legislativa con forte maggioranza parlamentare fa più facilmente cattive leggi che due Camere con maggioranze strette). Sottolineo soltanto che in un regime politico liberale e democratico sano il sistema elettorale e il disegno delle istituzioni non devono avere come fine quello di permettere a chi ottiene la maggioranza dei voti di governare, ma di governare con limiti e freni.
I freni, spiegava Luigi Einaudi, “hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori”. E aggiungeva: “Se il principio della maggioranza fosse davvero decisivo, il comando legislativo ed esecutivo dovrebbe essere assunto dalla maggioranza della Camera eletta a suffragio universale e segreto dei cittadini. Entro i limiti logici di quel principio non hanno luogo né la seconda Camera, (corsivo mio, ndr) né le prerogative del capo dello Stato, né le dichiarazioni di incostituzionalità da parte di alcuna superiore Corte giudiziaria” (Major et sanior pars, 1945).
Il Senato elettivo e una minoranza in Parlamento con la quale la maggioranza deve accordarsi perché altrimenti non riesce a legiferare, sono precisamente due sani freni e limiti che Renzi ha tolto di mezzo con le sue riforme. Eliminando i limiti al potere della maggioranza si creano le premesse per un regime, non per il buongoverno. Il prossimo passo è facile da prevedere: il ‘partito della nazione’ saldamente controllato dal segretario che è anche capo del governo, che tutti e tutto abbraccia, protettivo, rassicurante; e soffocante.
(Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2015)
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La scuola pubblica da difendere

Riporto l’articolo di Nadia Urbinati pubblicato da la Repubblica di oggi. Dove questo governo voglia portare la scuola italiana appare molto chiaro: privatizzazione e classismo. Il tutto firmato dal segretario del Pd. (Le evidenziazioni sono mie.)

La scuola pubblica da difendere
di Nadia Urbinati
Questa riforma s’ha da fare. La “buona scuola” voluta fortemente dal presidente del Consiglio è prossima ad arrivare in Parlamento dove, come per altre proposte, non dovrebbe incontrare rischi, nonostante le insoddisfazioni di alcuni parlamentari. Matteo Renzi ha detto che è disposto a discutere, ma non tornerà indietro. Benché non sia chiara l’urgenza di questa riforma, Renzi ha ragione a presentarla come rivoluzionaria: essa cambierà radicalmente la struttura della scuola pubblica. Il perno della rivoluzione è la figura del dirigente scolastico e per suo tramite il legame stretto con i committenti, ovvero le famiglie (e gli studenti in quanto parte delle famiglie).
La figura del dirigente è concepita secondo il modello dell’amministratore delegato e di una gerarchia di ruolo, di stipendio e di potere rispetto agli insegnanti (destinati a diventare come suoi dipendenti). Si tratta di un primo passo verso la privatizzazione della scuola pubblica. Questo è il senso dell’autonomia degli istituti scolastici. Il responsabile scuola del Pd ha detto che alcune cose si possono rivedere sul rapporto dirigente/ insegnanti, ma il principio della responsabilità individuale del dirigente deve restare: chi, altrimenti, risponde dell’abbandono scolastico e delle bocciature?
Sono tre le questioni da porre a questo riguardo. Prima: come verrà stabilito che abbandoni e bocciature siano da attribuire alla responsabilità di una persona, in questo caso del preside? Non è un’abnorme semplificazione ignorare le condizioni sociali e di degrado nelle quali si trovano tanti ragazzi, soprattutto al Sud? Seconda: nel caso, molto arduo, che la relazione causa-effetto sia verificata, come verrà punito il preside? Terza: non vi è il rischio che, proprio per evitare problemi, i presidi istruiscano gli insegnanti a promuovere? Se la bocciatura è causa di abbandono, basta non averla. La scuola non sarà necessariamente migliore, quindi, ma avrà meno bocciati. E siccome sono i dati quantitativi a fare opinione, la diminuzione dei bocciati verrà prevedibilmente identificata come un successo.
I sostenitori della riforma potrebbero controbattere che questo esito non è scontato perché il preside potrebbe comunque scegliere altre strategie: per esempio, organizzare corsi di recupero per gli allievi in difficoltà. Vero. Ma siccome la decisione è lasciata al dirigente, non c’è alcuna garanzia che questa sia la strada, anche perché più costosa. E visto che in prospettiva gli istituti devono diventare autonomi, si intuisce che il taglio dei costi sarà un indice di buona scuola. I sostenitori della riforma fanno presente che, spettando al preside la valutazione dei docenti neo-immessi in ruolo, egli potrà premiare, con un corrispettivo in denaro, gli insegnanti più bravi. Siamo sicuri che il dirigente scolastico abbia l’onniscienza che serve a valutare il merito? Ancora una volta, è probabile che criteri esterni alla competenza disciplinare funzionino meglio, per esempio la popolarità dell’insegnante (per le ragioni più disparate) e il numero dei promossi.
Conoscendo molto bene la scuola americana, mi sembra di poter dire che questa parte della riforma è come una sua fotocopia. E ciò è preoccupante per gli esiti che avrà sulla qualità della formazione. In aggiunta, se le scuole devono competere, come la riforma prevede, per avere i migliori studenti, è probabile che concorrano per i migliori e i più facoltosi, visto che la riforma prevede che le scuole si avvalgano di donazioni e finanziamenti dei privati (al di là della percentuale di tasse che i contribuenti possono destinare). Come negli Stati Uniti, la capacità individuale dello studente e la capacità economica della famiglia convergeranno con facilità. Gli istituti scolatici si indirizzeranno verso un tipo di studenti piuttosto che un altro, e nasceranno nel volgere di pochi anni scuole di classe, come Paul Krugman scrive da tempo nei suoi editoriali sul New York Times. Dice Renzi che la scuola è delle famiglie. E se si presta attenzione ai risvolti che questa riforma può avere, ha ragione.
Le famiglie sono, come sappiamo, le più diverse dal punto di vista socio-economico: quindi, le famiglie facoltose e con un buon capitale culturale saranno molto più proprietarie delle loro scuole di quanto non lo siano le famiglie meno abbienti, per le quali dovrà intervenire lo Stato in maniera più corposa. Il risultato potrebbe essere il seguente: l’autonomia economica sarà raggiunta prevalentemente dagli istituti che hanno una clientela benestante. Ancora una volta, come negli Stati Uniti, le scuole migliori diventeranno tendenzialmente più private e costose (quindi selettive verso chi è capace e ha capacità economica) mentre le altre resteranno a spese quasi integrali dello Stato, e questo basterà a segnalarle come non ottime, perdenti perché bisognose del pubblico. L’esito sarà che le scuole pubbliche saranno meno buone o peggiori, e quelle private le migliori, le più care e le meno aperte (anche qualora si introducano borse di studio). È proprio questa ingiustizia radicale che la scuola pubblica italiana ha voluto correggere quando è nata, nell’Italia repubblicana, affinché la scuola possa premiare le potenzialità dei ragazzi, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.
(la Repubblica, 6 maggio 2015, p. 31)
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Immigrazione, un’opportunità storica

Sull’immigrazione si leggono perlopiù pensieri negativi o sulla difensiva, ma ecco finalmente una riflessione che parte da un problema comunque ineludibile e cerca il rovesciamento dialettico della situazione. Riporto quindi l’articolo che verrà pubblicato su il manifesto di domani. (Grassetto ed evidenziazioni sono miei.)

Ci vuole una seconda riforma agraria
di Tonino Perna e Alfonso Gianni
Un fatto è certo: la nostra zoo­tec­nia, la pasto­ri­zia e gran parte delle grandi aziende agri­cole non esi­ste­reb­bero senza la mano d’opera offerta a basso costo dagli immigrati.
Se sono clan­de­stini o irre­go­lari è ancora meglio, per­ché pos­sono lavo­rare senza limiti orari e essere sot­to­pa­gati a 20 euro al giorno per 10 ore di lavoro, come capita ancora nella piana di Gioia– Rosarno o nella terra dei fuo­chi, o in altri luo­ghi ameni del nostro Bel Paese. Molti pro­dotti di qua­lità del made in Italy non esi­ste­reb­bero senza il lavoro degli immi­grati. Il super­sfrut­ta­mento della forza-lavoro immi­grata non è solo una con­se­guenza delle leggi del mer­cato capi­ta­li­stico, è anche il frutto di una visione miope e subal­terna della gran parte delle nostre aziende dell’agroalimentare.
Come testi­mo­nia l’esistenza di SOS Rosarno, di Cala­bria soli­dale, e di Gal­line Felici in Sici­lia e di tante altre espe­rienze, è pos­si­bile costruire una filiera agro-alimentare rispet­tando i diritti dei lavo­ra­tori, facendo gua­da­gnare i pro­prie­tari delle aziende agri­cole e dando ampie sod­di­sfa­zioni ai con­su­ma­tori. Una magia? No, solo basta uscire dal domi­nio della grande distri­bu­zione e creare una rela­zione diretta tra aziende, che rispet­tano l’ambiente e i diritti dei lavo­ra­tori, e le orga­niz­za­zioni dei con­su­ma­tori respon­sa­bili, come sono i Gruppi d’Acquisto Soli­dale o le orga­niz­za­zioni del «fair trade».
Ci gua­da­gnano i brac­cianti, i con­ta­dini, i pro­prie­tari di pic­cole e medie aziende agri­cole che entrano in un per­corso di lega­lità sociale ed ambien­tale. Infatti, le aziende agri­cole che sfrut­tano gli immi­grati a loro volta subi­scono i ricatti della grande distri­bu­zione che com­prano i pro­dotti della terra a prezzi irri­sori e li riven­dono al con­su­ma­tore con un rica­rico finale che arriva fino a dieci volte il costo di pro­du­zione agricolo.
Que­sto distorto e cieco mec­ca­ni­smo di sfrut­ta­mento inten­sivo dei lavo­ra­tori e della terra, ha pro­dotto non solo danni ambien­tali cre­scenti, deser­ti­fi­ca­zione delle terre agri­cole, ma ha anche messo fuori mer­cato molte pic­cole e medie aziende. Come ricor­dava Piero Bevi­lac­qua, negli ultimi trent’anni sono scom­parse in Ita­lia un milione e mezzo di aziende agri­cole. Il risul­tato finale è poco noto, ma para­dos­sale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue eccel­lenze ali­men­tari, ha un defi­cit della bilan­cia ali­men­tare che si tra­scina da decenni e che ha rag­giunto nel 2013 oltre 7 miliardi di pas­sivo! Impor­tiamo la gran parte del grano, della soia, della carne, del latte che con­su­miamo. Se riu­scis­simo a ripor­tare in pareg­gio la bilan­cia com­mer­ciale agro-alimentare cree­remmo qual­cosa come 30–40.000 nuovi posti di lavoro reali.
Come fare? Non c’è una sola rispo­sta, ma forse un punto di par­tenza sì: recu­pe­rare le terre abban­do­nate. Solo nelle aree col­li­nari del Mez­zo­giorno sono oltre il 30%, ed una per­cen­tuale non lon­tana la tro­viamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine non turistiche.
Ci vor­rebbe una seconda Riforma Agra­ria per met­tere a col­tura que­sto grande patri­mo­nio agro-pastorale. Biso­gne­rebbe però fare tesoro degli errori della prima. Come forse non tutti ricor­dano, nel 1950 , sotto la spinta delle lotte brac­cian­tili e dei con­ta­dini senza terra, il governo demo­cri­stiano varò la Riforma Agra­ria che inte­ressò le terre incolte del Mez­zo­giorno, che ven­nero strap­pate al lati­fondo e con­se­gnate ai con­ta­dini meri­dio­nali. In media venne distri­buito circa un ettaro a fami­glia con­ta­dina, media­mente con sei sette figli, ma senza mezzi agri­coli, sementi, accesso al cre­dito agri­colo, e risorse per com­mer­cia­liz­zare i pro­dotti della terra. Risul­tato: dopo una decina d’anni le terre furono in parte nuo­va­mente abban­do­nate, soprat­tutto dalle fami­glie con­ta­dine con pic­coli appez­za­menti, ed i con­ta­dini emi­gra­rono per andare a lavo­rare come ope­rai nel Nord-Italia, in Sviz­zera, in Ger­ma­nia, nel Nord Europa.
Per non ripe­tere gli stessi errori occorre pen­sare ad un piano com­ples­sivo di rina­scita delle terre incolte e dei paesi abban­do­nati che avrebbe, fra l’altro, un bene­fico effetto sulla pre­ven­zione degli incendi e del dis­se­sto idro­geo­lo­gico. Tale piano dovrebbe essere parte di una pro­gram­ma­zione demo­cra­tica di nuovo tipo, capace di rilan­ciare l’economia pro­dut­tiva sulla base dei nuovi biso­gni della popo­la­zione e di un rap­porto dia­let­tico, senza esclu­dere momenti con­flit­tuali, con i sog­getti e i movi­menti sociali.
Un piano non solo eco­no­mico, ma sociale e cul­tu­rale per far rina­scere que­ste aree, per ren­derle nuo­va­mente vivi­bili, per creare quelle reti sociali capaci di dare il «giu­sto valore» ai pro­dotti della terra. Negli ultimi anni, come è dimo­strato da alcune inchie­ste, c’è una risco­perta del valore del lavoro agri­colo, che deve essere ade­gua­ta­mente retri­buito. Diversi gio­vani sono andati o tor­nati nelle cam­pa­gne, avviando espe­rienze di lavoro e di pro­du­zione inno­va­tivi. Inol­tre, in que­ste zone interne dovreb­bero essere finan­ziati quei pro­getti che pun­tano a rivi­ta­liz­zare l’artigianato e la cul­tura locale, l’espressione arti­stica e la ricerca scien­ti­fica che è pos­si­bile delo­ca­liz­zare (come hanno fatto alcuni Par­chi nazio­nali in Ita­lia ed in Europa). Ma, que­sta «seconda Riforma Agra­ria» abbi­so­gna di sog­getti sociali che siano inte­res­sati a que­sta operazione.
Le forze inu­ti­liz­zate del mer­cato del lavoro interno non sareb­bero di per sé suf­fi­cienti, e adatte, a reg­gere una simile impresa di tra­sfor­ma­zione del nostro ter­ri­to­rio. Il popolo dei migranti potrebbe dare un aiuto for­mi­da­bile al nostro paese. Natu­ral­mente non tutti i migranti che vogliono venire in Europa, e che non fini­scono in fondo al mare, desi­de­rano e pos­sono fare gli agri­col­tori o i brac­cianti. Molti di que­sti sono mossi non tanto dal biso­gno di lavo­rare, ma dalla neces­sità di fug­gire da guerre, per­se­cu­zioni, con­di­zioni inso­ste­ni­bili di vita.
Ma anche que­sti ultimi, alcuni con capa­cità e com­pe­tenze ele­vate, sareb­bero ben felici di inse­rirsi con un lavoro nelle nostre comu­nità, anche tran­si­to­ria­mente. I migranti, assieme ai gio­vani ita­liani che tor­nano nelle cam­pa­gne, potreb­bero diven­tare il sog­getto sociale più imme­dia­ta­mente e diret­ta­mente inte­res­sati a que­sto pro­getto di difesa, valo­riz­za­zione e tra­sfor­ma­zione della nostra agri­col­tura e del nostro ter­ri­to­rio, al recu­pero di terre e paesi scar­tati ed emar­gi­nati, al pari di tanti gio­vani, da que­sto modello di sviluppo.
Insomma, la spinta che viene dai migranti, la loro voglia di esi­stere, di poter lavo­rare digni­to­sa­mente, di avere una casa, potrebbe costi­tuire una occa­sione sto­rica per far rina­scere una parte rile­vante del nostro paese ormai desti­nato all’abbandono ed al degrado. Le vere Riforme che hanno modi­fi­cato i rap­porti di pro­du­zione sono nate sem­pre sotto la spinta di lotte sociali e movi­menti di popo­la­zione. La prima Riforma Agra­ria, nata dopo anni di occu­pa­zione delle terre e vio­lenti scon­tri nelle cam­pa­gne, segnò la scon­fitta poli­tica degli agrari. La seconda R.A. diven­terà una realtà se verrà scon­fitta la classe poli­tica dell’emergenza e dell’ipocrisia, se finirà la repres­sione dei flussi migra­tori o l’accoglienza micra­gnosa, e que­sto movi­mento di essere umani che lot­tano per soprav­vi­vere tro­verà la rispo­sta appro­priata nella tra­sfor­ma­zione del nostro modello di svi­luppo basato sullo spreco di risorse umane ed ambientali.
(il manifesto, 6 maggio 2015)
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Un lavoro da continuare

In queste ore sulle piazze, sui media, nelle menti di molti italiani si ricorderà la Resistenza. Con questo 25 aprile sono infatti settant’anni dalla liberazione di gran parte del Nord Italia dall’invasione tedesca che aveva la collaborazione dei fascisti italiani. In qualche caso ci sono stati dei giorni supplementari, come a Marignana di Sesto al Reghena dove esiste una via 30 aprile, memoria di un ultimo terribile momento di paura.

Tutti gli anni – e ormai ne ho abbastanza – riprendo in mano i testi per me più rappresentativi o ne leggo di più recenti. Oggi suggerirei di seguire le ricerche di Sergio Luzzatto e di leggere il ricordo di uno dei maggiori storici della Resistenza, Claudio Pavone nel suo recentissimo “La mia Resistenza“.

C’è sempre qualcosa di nuovo, anche tra il vecchio, perché scoperto o perché ripensato alla luce di una nuova lente storica. Ma su questa nostra fase storica, io resto ancora colpito dalle parole molto semplici con cui Giorgio Bocca finì il suo Storia dell’Italia partigiana. Le riporto senza altri commenti. L’attualità di queste parole mi sembra ancor maggior del tempo in cui furono pubblicate per la prima volta (1966).

Un lavoro da continuare
Evidentemente la Resistenza non ha potuto, da sola, rigenerare un Paese degradato da un malgoverno secolare. E glielo hanno impedito, inoltre, le note ragioni obbiettive: la spartizione del mondo tra i vincitori, la restaurazione frutto della guerra fredda. « Effettivamente », può scrivere venti anni dopo Norberto Bobbio, «l’Italia non è diventato quel Paese moralmente migliore che avevamo sognato: la nuova classe politica, salvo qualche rara eccezione, non assomiglia in nulla a quella che ci era parsa raffigurata in alcuni protagonisti della guerra di liberazione, austeri, severi con se stessi, devoti al pubblico bene, fedeli ai propri ideali, intransigenti, umili e forti insieme; anzi ci appare spesso faziosa, meschina, amante più dell’intrigo che della buona causa, egoista, tendenzialmente sopraffatrice, corrotta politicamente se non moralmente e corruttrice, desiderosa del potere per il potere e peggio del grande potere per il piccolo potere ».
Eppure nonostante la risacca la Resistenza resta come fatto storico positivo, i suoi ideali non sono spenti. « Se proprio vogliamo trovare », dice ancora Bobbio, «una caratterizzazione sintetica, comprensiva, del significato storico della Resistenza e del rapporto fra la Resistenza e il tempo presente, non parliamo di Resistenza esaurita e neppure tradita o fallita, ma di Resisteanza incompiuta. Purché si intenda la incompiutezza propria di un ideale che non si realizza mai interamente, ma ciononostante continua ad alimentare speranze e a suscitare ansie ed energie di rinnovamento ». L’autore non ha altro da aggiungere se non che gli è caro trovare qui, al termine della sua fatica, l’aiuto e il consenso di un maestro conosciuto allora.
(Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Roma-Bari 1980, cap. XXXI, “Resistenza incompiuta”)
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Discorsi a tavola

Nel 1566 si pubblicò un libro destinato a rimanere famoso, i Discorsi a tavola di Martin Lutero. Gli esegeti dei Vangeli riconoscono dieci situazioni in cui lo stesso Gesù fece importanti interventi a tavola, alcuni secondi per pregnanza solo al Discorso della Montagna. Ora pare che siamo tornati ai tempi antichi in cui a tavola si ragionava su come cambiare l’uomo e il mondo.

Così vi collego al discorso raccolto da Portogruaro.net del ministro del lavoro Giuliano Poletti qualche sera fa in un ristorante locale, in presenza degli apostoli Antonio Bertoncello, Andrea Martella, Paolo Anastasia, Bruno Anastasia (l’unico senza cravatta) e di diversi imprenditori e rappresentanti di associazioni. E’ il tentativo piuttosto maldestro di spiegare perchè il governo Renzi sta agendo in un certo modo.

Poletti, sapendo bene a chi parla, ricorda che “tutti abbiamo responsabilità” di quello che abbiamo davanti, adesso è il momento di “collegare libertà e responsabilità”. Certo c’è la “possibilità di sbagliare”, ma poiché questo governo è guidato da idee, non ideologie, casomai si tornerà indietro, tranquillamente. Come dire, state tranquilli, tutti i vostri errori saranno perdonati. Anche noi al governo sappiamo già che stiamo facendo una serie di cazzate, ma casomai rimedieremo con altre, l’importante è che ci venga data la possibilità di farlo ancora.

Un vero saltimbanco il ministro Poletti, col suo discorsetto volutamente pretenzioso e vacuo. Le facce di Martella e Bertoncello, certamente non grandi teorici ma neppure tanto ingenui, dimostravano una voluta estraneità. Ma così il Pd prenderà il voto di qualche imprenditore che prima votava Berlusconi o Bossi? Può darsi. Intanto importante è sedersi a tavola.

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Neanche il Duce

In questi giorni siamo bombardati da tante notizie tristi o drammatiche, di fonte varia, anche in Italia, dove i mass media sono comunque molto, troppo, manovrati. Ma forse qualcuno non sa ancora che queste manovre a certuni non bastano, per esempio a Renzi capo di governo. Così riproduco qui sotto un commento (piuttosto decentrato rispetto alle mie solite fonti) sul disegno di legge previsto dal Governo sulla Rai. Non servono altre considerazioni.

Eiar, Eiar, alla RAI!
di Guido Salerno Aletta
Nel mondo della disinformazione, travolti un giorno dopo l’altro dalle notizie che si accavallano, nessuno ha più il tempo di leggere i testi proposti dal governo o quelli approvati dal Parlamento. Si discute spesso solo per sentito dire. Nella breve pausa pasquale, c’è invece il tempo di dare una sbirciata al testo varato dal Consiglio dei Ministri per riformare la RAI, sottraendola finalmente alla morsa dei partiti, per restituirle agilità e farla ritornare ai fasti culturali del passato. Bisogna leggere il testo, per come è stato diffuso, per farsi un’idea del passato assai lontano, politico ed istituzionale, che viene prospettato.
Innanzitutto c’è la centralità del Consiglio dei Ministri, prima ancora che del governo. In primo luogo, il contratto di servizio che disciplina i rapporti tra lo Stato e la RAI viene approvato “previa delibera del Consiglio dei Ministri”, così come è previsto che “Il Consiglio dei Ministri delibera gli indirizzi per il raggiungimento dell’intesa con l’Autorità”. In pratica, siamo tornati al tempo del Gran Consiglio, visto che anche l’attuale governo non si fida più dell’autonomia del Ministro delle Infrastrutture, cui spetta firmare il contratto di servizio.
Passiamo alla nomina del Consiglio di amministrazione, i cui componenti scendono da 9 a 7 membri. Qui il governo ha, insieme alla sua maggioranza, una posizione di potere blindato. Oggi, la Commissione parlamentare di vigilanza elegge 7 membri, con voto limitato ad 1: praticamente, c’è una ampia rappresentanza di tutte le componenti politiche. In futuro i rappresentanti del Parlamento saranno ridotti a quattro: dimagriti di tre unità. Secondo la vigente legge Gasparri, al Ministero dell’economia spetta nominare il Presidente ed un altro membro del Cda, ma la nomina del Presidente è soggetta alla preventiva valutazione positiva della Commissione di vigilanza, che diviene efficace solo se viene approvata con la maggioranza dei due terzi: il Presidente deve essere il garante di tutti.
Non solo salta questa procedura di verifica parlamentare, ma saltano i requisiti previsti dalla Gasparri per assicurare la elevata professionalità dei componenti del Consiglio di Amministrazione della RAI: oggi devono avere i requisiti richiesti per la nomina a giudice costituzionale, o comunque deve trattarsi di persone di riconosciuto prestigio ed esperienza manageriale. L’ondata di giovanilismo fa sì che in futuro possa essere eletto chiunque.
I quattro membri parlamentari previsti nella riforma appena presentata dal Governo saranno eletti 2 dal Senato e 2 dalla Camera dei deputati, con voto limitato. Ne consegue che nel Consiglio della RAI ci saranno 2 rappresentanti della maggioranza (che beneficia del premio di rappresentanza elettorale) e 2 delle opposizioni. Al Governo spetta la nomina di due membri, come ora, ma saranno designati dal Consiglio dei Ministri. Insomma, anche qui la decisione spetta al Gran Consiglio: non ci si fida neppure del Ministro dell’economia.
Il settimo componente del Cda RAI sarà eletto dal personale della RAI. Risulta ininfluente, perché comunque la maggioranza nel Consiglio di amministrazione è blindata: i 2 nominati dalla maggioranza di Camera e Senato ed i 2 nominati dal Governo dovrebbero fare blocco nei confronti dei 2 membri eletti dalle minoranze parlamentari. Il rappresentante del personale serve a fare bella figura.
Insomma, mentre si dice che la riforma serve a tener fuori i partiti dalla RAI, non si spiega perché il vero dominus sarà il governo, cui spetta anche designare un amministratore delegato. Tra l’altro, non si capisce neppure se costui sarà cooptato in Cda divenendone l’ottavo membro: è assolutamente inconsueto che ci sia un amministratore “delegato” che non sia membro del Cda. Sennò, da chi è delegato? D’altra parte, il testo della proposta è chiaro: l’amministratore delegato è nominato dal consiglio di amministrazione su proposta dell’assemblea.
Sempre nel ddl, si prevede che l’Amministratore delegato “rimane in carica per tre anni dall’atto della nomina, salva la revoca delle deleghe in ogni momento a parte del consiglio di amministrazione, sentita l’assemblea”. E’ chiaro che si tratta di una sfiducia, ma non si capisce come il Cda possa revocare all’Amministratore delegato le deleghe che invece gli sono attribuite per legge.
Ancor più grave, poi, è la possibilità di revocare i componenti del Consiglio di amministrazione, “deliberata dall’assemblea (e cioè dall’azionista Ministero dell’economia) che acquista efficacia a seguito di parere favorevole della Commissione parlamentare per l’indirizzo e la vigilanza”: in pratica, potrebbe accadere che il Governo possa revocare l’intero Consiglio di amministrazione, e quindi anche i membri nominati direttamente dalle Camere, usando la maggioranza dei voti in Commissione. Ed il bello è che questa procedura di revoca è libera, non essendo previsto che si tratti di una sorta di sanzione da parte dell’azionista nei confronti di un Consiglio di amministrazione che abbia compiuto violazioni di legge, oppure che abbia presentato per più di un anno un bilancio con gravi squilibri economici o patrimoniali. Insomma, il Governo fa e disfa come crede.
I poteri della Commissione parlamentare sono ridotti al lumicino: in pratica, solo alla disciplina delle Tribune elettorali e delle Tribune politiche. Anche i poteri che risalgono a trent’anni fa, alla legge 103 del 1975 sono ridotti considerevolmente.
Tutte le altre novità che ci sono state promesse rimangono un mistero. La riforma del canone è rinviata ad un decreto delegato, così come quella dei servizi media audiovisivi e radiofonici, per la quale il Governo ha i seguenti direttivi “riordino e la semplificazione delle disposizioni vigenti; definizione del servizio pubblico con riguardo alle diverse piattaforme tecnologiche tenendo conto della innovazione tecnologica e della convergenza delle piattaforme distributive; indicazione espressa delle norme abrogare”.
Insomma, il Governo chiede una delega in bianco per fare ciò che vuole. Siamo tornati al passato, quello in cui il Governo faceva ciò che voleva e il Parlamento non conta niente.
Eiar, Eiar, alla RAI!

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