Riproduco l’intero articolo di Piero Bevilacqua pubblicato il 13 settembre da il manifesto e presente anche nel sito di Alba. (Il grassetto è mio.)
La sinistra e il ceto politico
Nel suo articolo pubblicato sul manifesto il 7 settembre, Guido Viale mostra a grandi linee quali responsabilità gravino, nell’esplosione della crisi presente, sulle classi dirigenti italiane ed europee. Di queste ultime io vorrei qui isolare le responsabilità di un loro ambito delimitato, il ceto politico, per trarre delle indicazioni immediate di lotta, che la sinistra dovrebbe utilizzare nella campagna elettorale già di fatto aperta. Uso il termine ceto politico non come sinonimo di classi dirigenti o governanti.
Esso, in realtà, costituisce un settore particolare delle èlites nelle società capitalistiche del nostro tempo, che vive esclusivamente di politica, trae da essa reddito, potere, visibilità mediatica. Questo ceto, sempre più professionalizzato nelle tecniche di marketing elettorale, svolge compiti di mediazione tra i gruppi economici e la grande massa dei cittadini (e tra le varie classi), compete al suo interno con gli avversari, è costantemente impegnato nella lotta per la propria conservazione e ascesa nei ranghi più alti del potere istituzionale. Tale uniformità di ruolo ha investito e caratterizza in varia misura tutte le formazioni, avendo ridotto drammaticamente, in pochi decenni, il profilo di classe dei vecchi partiti popolari, quasi cancellato l’antica geografia destra/sinistra. Ciò è accaduto per ragioni storiche molteplici, su cui qui non ci si può soffermare. Ma è un fatto che il vecchio Partito comunista italiano, il Partito socialista francese, i Socialdemocratici tedeschi, i Laburisti britannici negli ultimi decenni hanno visto scolorire le caratteristiche classiste che li avevano caratterizzato per decenni. Mutamento importante, perché era stato grazie a tali caratteristiche che le democrazie rappresentative degli stati europei del dopoguerra erano diventate qualcosa di più di una istituzione formale, di una “democrazia borghese”. Sono stati questi partiti, e i sindacati di riferimento, a rendere possibili le politiche keynesiane, a portare le «masse dentro lo stato», come si diceva una volta, a imporre la costruzione di un welfare diffuso e crescente.
Tale quadro oggi appare interamente svuotato. La grande novità politica delle democrazie occidentali oggi è la scomparsa dallo scenario della figura storica del partito d’opposizione. All’opposizione sociale e classista dei vecchi partiti operai e popolari è subentrata una opposizione elettorale. La competizione fra partiti, che rendeva la democrazia rappresentativa più dinamica di quella delle società a partito unico, è diventata una semplice gara elettorale, fondata su una diversità di messaggi pubblicitari e non su una contrapposizione di strategie classiste. I partiti tradizionali della sinistra oggi filtrano le istanze popolari, ma solo nel quadro di compatibilità delle proprie convenienze di ceto. Non hanno più obiettivi di trasformazione delle strutture della società. E ciò accade non certo per la malvagità degli uomini o per il “tradimento” di qualcuno, ma per un processo storico di cui appaiono nitidi almeno alcuni passaggi.
Credo che non abbiamo sottolineato abbastanza il vero e proprio sconvolgimento di paradigma che il pensiero neoliberista ha provocato nell’universo occidentale della politica. Quando Ronald Reagan, al momento del suo insediamento, nel 1981, pronunciò la famosa frase «lo stato non è la soluzione, lo stato è il problema », ha aperto un’epoca che capovolge secoli di pensiero politico occidentale. Quella frase, significa nella sostanza, «la politica non è la soluzione, la politica è il problema». Perché è questo il nocciolo eversivo del pensiero neoliberista, che l’ex attore hollywoodiano rendeva popolare mentre si apprestava a governare lo stato più potente del pianeta. Per il dogma neoliberista è infatti il mercato il migliore allocatore delle risorse – e perciò il migliore regolatore dei rapporti sociali, pensati tutti come rapporti economici – ed esso funziona tanto meglio, quanto meno è disturbato dalle intrusioni della politica. E’ stata dunque la progressiva accettazione di tale principio – facilitata ovviamente dalla crisi fiscale del welfare state, e dal crollo dell’Urss – che ha trasformato la natura dei vecchi partiti della sinistra. Ma essi hanno così svuotato l’intima essenza della politica, cosi come la conoscevamo almeno da Machiavelli, vale a dire la sua autonomia, la sua “libertà di governo” dei fenomeni sociali. E a un certo punto sono entrati in un meccanismo che oggi appare pienamente evidente: quando i poteri, le formazioni collettive, vedono eclissarsi le ragioni ideali che li hanno fatto sorgere, rivolgono tutte le loro superstiti energie nel compito della propria conservazione.
Ora, gli esiti di questa subordinazione della politica alle libere forze del mercato, creata dalla politica medesima, ci ha gettato in una condizione inedita. Anche perché tali libere forze del mercato, com’è noto, sono oggi incarnate soprattutto da un potere enorme, invisibile e sovranazionale: quello della finanza. I cinque anni di gestione della crisi mondiale mostrano l’assoluta incapacità dei governi e dunque dei partiti politici che li sostengono (o li criticano) di riprendersi un qualche margine di autonomia. Nessuna riduzione del potere della finanza è stata avviata. Nel vecchio Continente l’Unione Europea, il più ambizioso progetto politico del secondo ’900, si è trasformato in una trappola, che mette in scacco le sovranità nazionali: la conquista di alcuni secoli di storia degli Stati-nazione. Mentre lo spazio europeo avvizzisce in uno scheletro autoritario.
Riassumo tali cose ben note, per sottolineare che in Italia i partiti politici si presentano oggi come i maggiori responsabili della più grave catastrofe sociale degli ultimi 60 anni. E tuttavia mentre, sotto la pressione della crisi, tanti strati e gruppi sociali indietreggiano, si allarga l’area della povertà, la povertà diventa miseria, due generazioni di giovani sono messe ai margini, la precarietà del lavoro diventa regola, nulla sfiora il ceto politico. Esso appare ben saldo al potere e mantiene più o meno intatti tutti i suoi ormai inauditi privilegi. L’abbiamo visto in questi mesi di governo tecnico. Ed è per lo meno paradossale che mentre il coro dei governanti e dei media, ogni voce che compone lo “spirito del tempo”, esortano al cambiamento, alla mobilità, alla flessibilità, il nostro parlamento è affollato da politici che siedono sui suoi scranni da 20-30 anni. Durate da antico regime regolano da decenni la vita del ceto parlamentare italiano. Un pezzo di medioevo politico fermo in mezzo alla tempesta della crisi e dei suoi sconvolgimenti. Come si può sperare che tutto questo non ingeneri rabbia e rivolta? Se c’è un dato che gli italiani hanno universalmente afferrato – e i sondaggi sul consenso ai partiti lo registrano fedelmente – è che la politica delle attuali formazioni appare inetta a porre rimedio ai grandi problemi in cui il Paese si dibatte. Ma è efficientissima nel difendere le strutture di potere in cui si esercita tale inettitudine.
Per questo trovo grave l’assenza o la timidezza programmatica delle formazioni della sinistra radicale sui temi della riforma della politica. Una questione su cui per la verità il pensiero politico aveva dato contributi importanti: penso, ad esempio, al secondo volume dei Principia juris di Luigi Ferrajoli (2007). Come può mancare da un programma politico ed elettorale di sinistra la rivendicazione di una durata stabilita per legge del mandato parlamentare, della incompatibilità delle cariche, della definizione della natura giuridica dei partiti, della parità di risorse utilizzabili dai candidati nelle campagna elettorale, della trasparenza dei bilanci personali e familiari dei candidati per la durata della legislatura, ecc? Rivendicazioni queste che, come è noto, sono presenti sparsamente in molte formazioni e movimenti: da Grillo, all’Idv, ai radicali. La fortuna di Grillo sarebbe incomprensibile senza tali sacrosante richieste. Non poco del consenso di cui sembra godere Matteo Renzi, giovane neoliberista del Pd, è con ogni evidenza legato al suo presentarsi come “rottamatore” delle vecchie oligarchie del suo partito.
E’ facile comprendere che tale tema, man mano che la stretta sociale andrà peggiorando la vita di milioni di italiani, diventerà dinamite elettorale. Un motivo esplosivo in cui tenderà a incanalarsi una inedita rabbia sociale. E allora la domanda è: come può la sinistra radicale ignorare tale nodo drammatico, che trasforma inevitabilmente una grande domanda di trasparenza, partecipazione, dunque democrazia, in populismo, vale a dire in discredito indiscriminato della politica? Ricordo qui di passaggio che le forme moderne della politica, i moduli organizzativi e di lotta, quelli che hanno segnato l’età contemporanea, sono stati creati dalla sinistra: partiti di massa, sindacati, leghe, cooperative, scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche, ecc. E’ la sinistra che ha visto nella politica – nell’«organizzazione della volontà collettiva» per dirla con Gramsci – la leva delle masse popolari per la modificazione dei rapporti di classe, per la trasformazione della società, non più pensata come realtà naturale e immodificabile. Ma proprio questa centralità e autonomia della politica occorre oggi sottrarre al discredito e al senso di fallimento in cui l’ha trascinata, in Italia, anche il partito democratico. E oggi non c’è altra via che mostrare la distanza che separa la politica dai partiti. Occorre saper dire che la politica può trovare nuove forme di democrazia delegata, capaci di ridurre al minimo la distanza fra rappresentanti e rappresentati, governanti e governati. Credo che Alba, che si appresta a varare un programma ricco di contenuti e di proposte, da spendere nello sforzo di allargare gli spazi di elaborazione della sinistra, debba far propria una tale rivendicazione. Dare un più marcato rilievo al suo essere un movimento riformatore della politica, oltre che della società.
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