Elogio della mitezza politica

Pubblico l’articolo di Marco Revelli, Una sinistra senza popolo e un populismo senza sinistra, dal sito di ALBA Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente.

Poiché è lungo per un blog, lo divido in due parti. La prima (1) è dedicata all’analisi del voto, quindi piena di dati, e può essere saltata da chi non riesce (giustamente) a leggere un testo tanto lungo sul monitor. Comunque graficamente fornisco anche una lettura molto selettiva, peraltro non molto diversa da quanto fatto da me a caldo, subito dopo le elezioni. Credo che Revelli non si fermi a valutare il voto dato a Grillo perché costui è l’oggetto implicito della seconda parte.

La seconda parte (2) è infatti il il vero e proprio “discorso sul metodo”. Si può leggere autonomamente ed è una particolare puntualizzazione del Manifesto per un soggetto politico nuovo. (Il grassetto è mio.)

(1)
Con all’orizzonte “più la disgregazione greca che l’alternativa francese”. Non poteva dir meglio Ida Dominijanni, nell’indicare la prospettiva aperta dal voto dell’altra settimana, così diverso da quello tedesco. L’impressione che offrono i risultati, a volerli guardare con lo sguardo freddo della matematica, è che i grandi contenitori messi su alla bell’e meglio nell’ultimo quinquennio intorno alla folle idea di un maggioritario egemonico e tendenzialmente bipolare (per usare il linguaggio veltroniano) si stiano rompendo, o pesantemente incrinando, lasciando fuoriuscire il proprio contenuto in un (ancora asimmetrico) processo di liquefazione del corpo elettorale.
La cosa è particolarmente evidente nell’implosione catastrofica del centro-destra, che non solo perde città storicamente sue, ma che vede in molti casi letteralmente polverizzato il proprio consenso nelle sue stesse roccaforti “ancestrali”: nel “prodondo Nord” lombardo-veneto. E’ il caso della “Brianza del mobile” (detta anche “il Mugello del centro-destra”) dove ancora nel 2010 “il Pdl viaggiava tra il 30 e il 38% e la Lega tra il 25 e il 35% mentre oggi sono crollati rispettivamente tra il 7-15 e l’11-20” (cito da “La Stampa”). O del Gallaratese (distretto dell’abbigliamento) dove a Cassano Magnago, il paese di Bossi, il leghista Morniroli non va nemmeno al ballottaggio con la Lega quasi dimezzata dal 32,2 al 19,3%… O, ancora, si pensi a quanto accaduto tra le aziendine del tessile calzettiero della bassa mantovana, dove a Castiglione delle Stiviere, per esempio, dove Fabrizio Paganelli, che nel 2007 come candidato del centro-destra aveva stravinto col 61,3%, non compare neppure più al ballottaggio e i partiti che lo avevano sostenuto hanno perso qualcosa come 35 punti percentuali… Ma qui la spiegazione è fin troppo semplice: non solo perché due partiti personali e carismatici non sopravvivono facilmente alla messa fuori gioco dei propri capi carismatici. Ma anche perché forze politiche che vivevano dell’enrichissez vous e delle sue illusioni in zone molto dinamiche (anche se fragili) vengono colpite al cuore (soprattutto i berlusconiani) dal brusco irrompere dell’impoverimento (nella bassa mantovana “il distretto arranca 20 punti di fatturato sotto i livelli pre-crisi”, in Brianza sono più di 200 le imprese che hanno chiuso e 1500 i licenziati negli ultimi tre anni…).
Allo stesso modo la sentenza elettorale è quasi mortale per il cosiddetto “centro”, che non intercetta pressoché nulla di quel tumultuoso flusso in uscita. E che anzi viene messo clamorosamente fuori gioco, nella sua posizione equidistante, dallo sfaldamento del fronte alla sua destra (“centro non pervenuto”, sintetizza perfidamente Travaglio). Ma – e qui il gioco si fa duro – il fatto davvero destabilizzante, e per certi versi “contro-intuitivo”, è che lo smottamento in corso non risparmia neanche il Pd, che pure a caldo si era affrettato a cantare vittoria e che comunque porta a casa un buon numero di scrutini vinti al primo colpo o di buone posizioni in vista dei ballottaggi. Sarebbe però un errore fermarsi alla bandierine che il centro-sinistra può piantare sull’ipotetica mappa di Emilio Fede di tanti anni fa (in effetti vedremmo un quadro quasi tutto rosso con pochi puntini blu). E anche limitare il conto ai soli dati in percentuale, che favoriscono l’illusione ottica (se tutti scendono, chi perde di meno appare vincitore). Se, più correttamente, facciamo il conto in valori assoluti, contando ad uno ad uno i voti ricevuti nel 2012 e li confrontiamo, città per città, con quelli della tornata amministrativa del 2007, vediamo che anche nel caso del Pd l’emorragia è in corso. E in molte città in misura massiccia.
Così è nelle grandi città. Non parliamo di Palermo, dove la catastrofe pidiellina è clamorosa, e conclamata (tanto legata alla malattia morale interna a quel partito da fare tutto sommato caso a sé). Ma pensiamo a Parma dove, lo sappiamo, il centro destra si è letteralmente polverizzato perdendo quasi tutto il proprio elettorato(nel 2007 aveva vinto con circa 54.000 voti, ora il Pdl ne racimola appena 3.275), ma il Pd, nonostante il suo candidato vada primo al ballottaggio, resta sotto di circa 2.500 voti rispetto al risultato ottenuto nel 2007 mentre l’altro competitor, del Movimento 5 Stelle, ha raccolto circa 17.000 voti degli oltre 50.000 “in libertà”. O a Piacenza dove il suo candidato Dosi va, anche qui, primo al ballottaggio, e tuttavia il Pd rimane in debito di oltre 2.000 voti rispetto al 2007 (poco, rispetto alla flessione di circa 13.000 voti del centro-destra, ma pur sempre un 20-25% del suo patrimonio elettorale di partenza). Persino ad Alessandria, dove pure il centro-sinistra si presenta con un’ottima candidata, e dove il sindaco uscente, disastroso, ha registrato un crollo di quasi 45 punti percentuali e un’emorragia di oltre 25.000 voti, il Pd flette di quasi 3.000 voti rispetto alla precedente somma di DS e Margherita. E a Genova, con l’ottimo Doria (che da solo, con la sua lista civica intercetta quasi 27.000 voti) al Pd mancano all’appuntamento più di 33.000 elettori (tra quelli che nel 2007 avevano votato Ulivo), mentre Grillo si prende il 14% e 32.500 preferenze lasciando tuttavia all’esercito degli astenuti quasi 50.000 nuovi arruolati…
Né la situazione migliora nei piccoli centri, e in particolare nei distretti dove la crisi morde di più, e mina l’insediamento leghista e berlusconiano alla radice. A Omegna, per esempio, capitale del “distretto dei casalinghi”, dove l’amministrazione di centro-destra in carica è crollata miseramente (la Lega dal 13,9 all’8,1 e il Pdl dal 30,5 al 17,3%), la candidata del centro-sinistra vince, ma con un numero di voti inferiore a quello con cui cinque anni prima aveva perso (3.900 contro 4.100). O nel “distretto del prosecco” – la terra di Zaia e dei suicidi – dove il partito di Bossi cade dal 36,9% del 2010 al 5,6 di oggi, e il Pdl perde una quindicina di punti, e tuttavia il Pd resta comunque in debito rispetto alla precedente somma di Ds e Margherita di qualche migliaio di voti. E d’altra parte non sarà senza significato se nelle aree della Toscana, suoi tradizionali territori d’insediamento, come il “distretto orafo” dell’aretino, il Pd preferisca mimetizzarsi dietro una miriade di liste civiche, vincenti, certo, ma eloquenti.
Al Sud, poi, la situazione è meno chiara, più articolata. Ma la tendenza non cambia nella sostanza. A Taranto, per esempio, dove le cose sono molto confuse e dove il sindaco uscente Ippazio Stefàno (che nel 2007 aveva vinto al ballottaggio con il 76% sostenuto da una maggioranza ibrida che andava dall’Udeur ai Comunisti italiani e a Rifondazione) si riposiziona al ballottaggio con il 49,5%, il diretto competitor non è più del centro destra (dove il Pdl ottiene meno della metà dei voti assommati nel 2007 da Forza Italia e A.N.: 6.505 contro 14.438) ma di una lista autonomista sostenuta dall’estrema destra (Cito, con quasi 20.000 voti), mentre il Pd mantiene grosso modo il numero di voti precedente (15.288). A Trapani, d’altra parte, dove il sindaco uscente Fazio è riconfermato al primo turno con il 64,7%, il Pdl perde, tuttavia, sul 2007 quasi un terzo del proprio elettorato, e il Pd pressoché altrettanto (Ds e Margherita avevano, insieme, circa 5.500 voti, ora si arriva appena a 3.377…). E a Lecce, dove pure il centro-destra vince al primo turno con una maggioranza netta (64,3%), il Pdl perde quasi il 25% del proprio precedente elettorato (15.104 voti contro igli 11.600 di A.N. e gli 8.725 di Forza Italia del 2007), e il PD lascia sul terreno quasi 3.500 voti rispetto all’Ulivo.
La verità è che, del travolgente flusso di suffragi in uscita dal centro-destra in crisi, né il centro di Casini né tantomeno il Pd hanno intercettato anche solo una minima frazione. Anzi, quest’ultimo ha aggiunto un segmento, più o meno cospicuo, del proprio patrimonio di loyalty (di “fedeltà”), senza che, a sua volta, la cosiddetta “sinistra radicale” sia riuscita a raccoglierne i rivoli, che si sono riversati direttamente altrove. Nell’astensione, in grande quantità (cresciuta di più di 11 punti percentuali nel nord-est, di quasi 9 punti nel nord-ovest, di circa 10 punti al centro…). E nelle liste del Movimento 5 stelle, che a leggere l’analisi dei flussi ad oggi disponibile, dal Pd avrebbe raccolto più del 24% del proprio elettorato, un 16% dalla Lega nord, un 13,5% dal Pdl e un buon 30% dall’astensione.
(2)
Il messaggio sembra fin troppo chiaro. Il processo di liquefazione del sistema dei partiti – così come si è strutturato nella cosiddetta “seconda Repubblica” – è massicciamente in corso, e sembra destinato a proseguire in forma accelerata. Non sappiamo quale dimensione avrà questa “massa liquida” alla vigilia delle elezioni del 2013: una delle più importanti scadenze elettorali della storia dell’Italia Repubblicana, quelle in cui dovrebbe manifestarsi la riscossa della politica dopo la resa al governo dei tecnici dell’inverno 2011. Ma certamente l’intreccio perverso tra crisi economica e crisi politica è destinata a virulentizzarne le componenti, ed il rischio che quella sostanza liquida possa in qualche modo consolidarsi e produrre “mostri” è evidente. Né vale ripetere l’ormai insopportabile esorcismo dell’invito liturgico ai partiti nella loro attuale configurazione, a “rigenerarsi” o comunque ad “auto-riformarsi”.
All’auto-riforma di questi soggetti politici penso che ormai non creda più nessuno. Neppure chi, dai massimi livelli istituzionali, continua un po’ meccanicamente a ripetere l’appello. Troppi tentativi. Troppi “nuovi inizi” mancati. Troppi girotondi traditi. Senza una “soluzione di continuità” – senza una cesura netta, di metodo, con le pratiche politiche e con gli stili di comportamento politico e istituzionale attuali – il meccanismo infernale dell’entropia politica e della delegittimazione istituzionale andrà avanti. Non è anti-politica denunciarlo. E’ antipolitica continuare ad alimentarlo da parte di chi, ai vertici delle attuali forze politiche, insulta ogni giorno il buon senso dei propri elettori con una retorica del conforme ormai stucchevole.
Per questo sono in totale disaccordo con l’amica Rossana Rossanda quando snobba i discorsi sul metodo. E confida che quel rassemblement di macerie possa seguire l’esempio francese di Francois Hollande. Intanto perché l’aver ignorato le questioni di metodo è stato il peccato capitale del vetero-comunismo novecentesco (un termine che la fa imbestialire, lo so, ma che bisogna pur pronunciare). E poi perché proprio dal modo di concepire e di fare la politica – dallo “stile” e da un suo salto di paradigma – può partire una possibile speranza di rinascita. Poi si potrà discutere dei contenuti, ma con (e all’interno di) contenitori diversi. Qualitativamente diversi. Si potrà parlare dell’Europa, in primo luogo: a quali condizioni starci dentro. Con quali prezzi. E sul che fare se la Germania continuerà a stringere il cappio al collo dei suoi partner comunitari fino a provocarne l’asfissia (Asfissiare? Forzare sull’asse francese mettendo in conto anche la rottura con i tedeschi? Immaginare un’area monetaria ampia ma diversa, con baricentro sul Mediterraneo?). Di tutto questo si può parlare, ma sapendo che con l’attuale ceto politico, irrimediabilmente abituato a guardare “dall’alto”, inseparabilmente intrecciato con le tecnocrazie comunitarie e con i sensi (non solo la vista, anche l’udito e l’odorato) affinati unilateralmente sulla interazione con i poteri forti o fortissimi, c’è poco da sperare in un’alzata d’ingegno. O in un approccio “creativo”. O anche solo smarcato rispetto al mainstream globale. Con loro, come si dice, “le chiacchiere stanno a zero”.
Allo stesso modo si potrà ragionare di finanziamento pubblico della politica. Ma sapendo che se non si taglia alle radici l’attuale tossico intreccio tra politica e denaro – l’innervarsi del flusso monetario nelle strutture portanti della rappresentanza politica come sono oggi – l’impresa di restituire alla politica una qualche traccia di nobiltà è fallita in partenza. Non per questioni di morale. Ma per un problema strutturale: perché la potenza trasformante della “forma denaro” è irresistibile, se ci si lascia possedere. E la “forma denaro”, oggi, è la forma del mondo che vogliamo combattere.
Così come si dovrà scavare a fondo nell’”analisi delle classi” – e sulle forme del loro “conflitto”. Ma sapendo che la geografia sociale dell’universo post-fordista è mutata radicalmente. Che se ci si vuole sintonizzare con il “lavoro” come esso si pone, occorre fare i conti con tutte le sue “figure” – con l’intero ventaglio di soggetti che l’esplosione del “diamante del lavoro” ha disperso, non più solo con i suoi protagonisti (materiali e simbolici) centrali. E che termini come “comunità” o “territorio” hanno cessato di appartenere al lessico maledetto di una sinistra pura, ma s’intrecciano sempre più con i precedenti concetti di Classe e di Nazione, in un quadro molto complesso, e tutto da capire.
Per questo nel “Manifesto per un soggetto politico nuovo” diamo tanto peso al tema della mitezza. Non perché si sia rinunciato “alla lotta” (come si diceva una volta). O perché ci si sia votati a una concezione idilliaca di un mondo conciliato. Esattamente per la ragione opposta: perché crediamo che oggi le condizioni del conflitto siano così profonde, estese, radicali ed estreme (vertano su questioni ultime, per così dire, come la sopravvivenza delle società e degli individui), che se esso non viene condotto con linguaggi e con metodi “non distruttivi”, auto-sorvegliati e radicalmente rispettosi dell’altro, le possibilità della caduta in condizioni di conflittualità devastante (contrassegnate, appunto, dal termine “guerra”) siano drammaticamente presenti. E che se si vuole che la politica sopravviva come arte della costruzione di una società condivisa, dall’antropologia del mite, e non da quella del guerriero, si debba partire.
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