Sull’immigrazione si leggono perlopiù pensieri negativi o sulla difensiva, ma ecco finalmente una riflessione che parte da un problema comunque ineludibile e cerca il rovesciamento dialettico della situazione. Riporto quindi l’articolo che verrà pubblicato su il manifesto di domani. (Grassetto ed evidenziazioni sono miei.)
Ci vuole una seconda riforma agraria
di Tonino Perna e Alfonso Gianni
Un fatto è certo: la nostra zootecnia, la pastorizia e gran parte delle grandi aziende agricole non esisterebbero senza la mano d’opera offerta a basso costo dagli immigrati.
Se sono clandestini o irregolari è ancora meglio, perché possono lavorare senza limiti orari e essere sottopagati a 20 euro al giorno per 10 ore di lavoro, come capita ancora nella piana di Gioia– Rosarno o nella terra dei fuochi, o in altri luoghi ameni del nostro Bel Paese. Molti prodotti di qualità del made in Italy non esisterebbero senza il lavoro degli immigrati. Il supersfruttamento della forza-lavoro immigrata non è solo una conseguenza delle leggi del mercato capitalistico, è anche il frutto di una visione miope e subalterna della gran parte delle nostre aziende dell’agroalimentare.
Come testimonia l’esistenza di SOS Rosarno, di Calabria solidale, e di Galline Felici in Sicilia e di tante altre esperienze, è possibile costruire una filiera agro-alimentare rispettando i diritti dei lavoratori, facendo guadagnare i proprietari delle aziende agricole e dando ampie soddisfazioni ai consumatori. Una magia? No, solo basta uscire dal dominio della grande distribuzione e creare una relazione diretta tra aziende, che rispettano l’ambiente e i diritti dei lavoratori, e le organizzazioni dei consumatori responsabili, come sono i Gruppi d’Acquisto Solidale o le organizzazioni del «fair trade».
Ci guadagnano i braccianti, i contadini, i proprietari di piccole e medie aziende agricole che entrano in un percorso di legalità sociale ed ambientale. Infatti, le aziende agricole che sfruttano gli immigrati a loro volta subiscono i ricatti della grande distribuzione che comprano i prodotti della terra a prezzi irrisori e li rivendono al consumatore con un ricarico finale che arriva fino a dieci volte il costo di produzione agricolo.
Questo distorto e cieco meccanismo di sfruttamento intensivo dei lavoratori e della terra, ha prodotto non solo danni ambientali crescenti, desertificazione delle terre agricole, ma ha anche messo fuori mercato molte piccole e medie aziende. Come ricordava Piero Bevilacqua, negli ultimi trent’anni sono scomparse in Italia un milione e mezzo di aziende agricole. Il risultato finale è poco noto, ma paradossale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari, ha un deficit della bilancia alimentare che si trascina da decenni e che ha raggiunto nel 2013 oltre 7 miliardi di passivo! Importiamo la gran parte del grano, della soia, della carne, del latte che consumiamo. Se riuscissimo a riportare in pareggio la bilancia commerciale agro-alimentare creeremmo qualcosa come 30–40.000 nuovi posti di lavoro reali.
Come fare? Non c’è una sola risposta, ma forse un punto di partenza sì: recuperare le terre abbandonate. Solo nelle aree collinari del Mezzogiorno sono oltre il 30%, ed una percentuale non lontana la troviamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine non turistiche.
Ci vorrebbe una seconda Riforma Agraria per mettere a coltura questo grande patrimonio agro-pastorale. Bisognerebbe però fare tesoro degli errori della prima. Come forse non tutti ricordano, nel 1950 , sotto la spinta delle lotte bracciantili e dei contadini senza terra, il governo democristiano varò la Riforma Agraria che interessò le terre incolte del Mezzogiorno, che vennero strappate al latifondo e consegnate ai contadini meridionali. In media venne distribuito circa un ettaro a famiglia contadina, mediamente con sei sette figli, ma senza mezzi agricoli, sementi, accesso al credito agricolo, e risorse per commercializzare i prodotti della terra. Risultato: dopo una decina d’anni le terre furono in parte nuovamente abbandonate, soprattutto dalle famiglie contadine con piccoli appezzamenti, ed i contadini emigrarono per andare a lavorare come operai nel Nord-Italia, in Svizzera, in Germania, nel Nord Europa.
Per non ripetere gli stessi errori occorre pensare ad un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto idrogeologico. Tale piano dovrebbe essere parte di una programmazione democratica di nuovo tipo, capace di rilanciare l’economia produttiva sulla base dei nuovi bisogni della popolazione e di un rapporto dialettico, senza escludere momenti conflittuali, con i soggetti e i movimenti sociali.
Un piano non solo economico, ma sociale e culturale per far rinascere queste aree, per renderle nuovamente vivibili, per creare quelle reti sociali capaci di dare il «giusto valore» ai prodotti della terra. Negli ultimi anni, come è dimostrato da alcune inchieste, c’è una riscoperta del valore del lavoro agricolo, che deve essere adeguatamente retribuito. Diversi giovani sono andati o tornati nelle campagne, avviando esperienze di lavoro e di produzione innovativi. Inoltre, in queste zone interne dovrebbero essere finanziati quei progetti che puntano a rivitalizzare l’artigianato e la cultura locale, l’espressione artistica e la ricerca scientifica che è possibile delocalizzare (come hanno fatto alcuni Parchi nazionali in Italia ed in Europa). Ma, questa «seconda Riforma Agraria» abbisogna di soggetti sociali che siano interessati a questa operazione.
Le forze inutilizzate del mercato del lavoro interno non sarebbero di per sé sufficienti, e adatte, a reggere una simile impresa di trasformazione del nostro territorio. Il popolo dei migranti potrebbe dare un aiuto formidabile al nostro paese. Naturalmente non tutti i migranti che vogliono venire in Europa, e che non finiscono in fondo al mare, desiderano e possono fare gli agricoltori o i braccianti. Molti di questi sono mossi non tanto dal bisogno di lavorare, ma dalla necessità di fuggire da guerre, persecuzioni, condizioni insostenibili di vita.
Ma anche questi ultimi, alcuni con capacità e competenze elevate, sarebbero ben felici di inserirsi con un lavoro nelle nostre comunità, anche transitoriamente. I migranti, assieme ai giovani italiani che tornano nelle campagne, potrebbero diventare il soggetto sociale più immediatamente e direttamente interessati a questo progetto di difesa, valorizzazione e trasformazione della nostra agricoltura e del nostro territorio, al recupero di terre e paesi scartati ed emarginati, al pari di tanti giovani, da questo modello di sviluppo.
Insomma, la spinta che viene dai migranti, la loro voglia di esistere, di poter lavorare dignitosamente, di avere una casa, potrebbe costituire una occasione storica per far rinascere una parte rilevante del nostro paese ormai destinato all’abbandono ed al degrado. Le vere Riforme che hanno modificato i rapporti di produzione sono nate sempre sotto la spinta di lotte sociali e movimenti di popolazione. La prima Riforma Agraria, nata dopo anni di occupazione delle terre e violenti scontri nelle campagne, segnò la sconfitta politica degli agrari. La seconda R.A. diventerà una realtà se verrà sconfitta la classe politica dell’emergenza e dell’ipocrisia, se finirà la repressione dei flussi migratori o l’accoglienza micragnosa, e questo movimento di essere umani che lottano per sopravvivere troverà la risposta appropriata nella trasformazione del nostro modello di sviluppo basato sullo spreco di risorse umane ed ambientali.
(il manifesto, 6 maggio 2015)
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