Oggi alla Camera si è votata la revisione costituzionale sulla quale Renzi ha probabilmente forzato anche per ragioni di tattica politica piuttosto chiare, perché: (1) ha giustificato il patto con Berlusconi, mescolando così la sua immagine nei calderone dei tradizionali elettorati italiani (destra, centro, sinistra); (2) ha creato le condizioni per tenere sotto controllo/ricatto la minoranza Pd, emarginata poi in maniera brutale sulle riforme economiche (soprattutto il Jobs Act); (3) ha di fatto impedito al M5S di partecipare alla discussione, sfruttando cinicamente la sua autoemarginazione iniziale.
Eppure, oltre alla tattica politica, questa è senz’altro una riforma storica, anzi, sarà ricordata come una riforma storica votata da un parlamento dichiaratamente illegittimo. In realtà non c’è stato né grande interesse né tantomeno grande battaglia politica e ideale su queste riforme. E solo adesso si comincia a parlare perfino in termini di democratura, neologismo coniato nel 1992 da Max Liniger-Goumaz che unisce democrazia e dittatura. Infatti, la maggior preoccupazione viene proprio dal contenuto della riforma stessa.
(Per inciso, qualsiasi commento sul comportamento della minoranza Pd che ha votato a favore più che superfluo mi pare inutile. Dobbiamo guardare da un’altra parte.)
Riproduco qui il miglior articolo informativo che ho letto sul contenuto della riforma.
La legge di revisione costituzionale che oggi sarà approvata dalla camera modifica 47 articoli sui 134 che compongono l’attuale Costituzione. Più del 35%: l’intera seconda parte (Ordinamento della Repubblica) e un solo articolo, il 48, della prima parte (Diritti e doveri dei cittadini). Il disegno di legge porta la firma di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi ed è stato gestito come un affare di stretta competenza del governo (con una sorta di questione di fiducia: «Se il parlamento non fa le riforme va a casa») attraverso tempi contingentati, «canguri» (emendamenti cancellati a blocchi) e una seduta fiume alla camera. Dovrà tornare al senato — che però potrà discutere solo i 10 articoli modificati dalla camera — e, dopo la pausa di riflessione di tre mesi, dovrà passare per il voto conforme a maggioranza assoluta dei due rami del parlamento. Poi il referendum confermativo, con il quale si chiederà ai cittadini un voto prendere o lasciare su tutta la riforma. Non ci sarà cioè quel referendum «omogeneo» per materia prescritto dalla Corte Costituzionale e considerato ormai un punto fermo dai costituzionalisti, al punto da essere stato previsto nella precedente ipotesi di riforma «larghe intese» (governo Letta).
Le principali modifiche alla Costituzione possono essere riassunte in otto punti; tre invece sono le parole d’ordine scelte dal governo: fine del bicameralismo, semplificazione, risparmio. Tre slogan finiti in un solo articolo, il nuovo 55 della Costituzione, che cresce da 5 a 35 righe: d’ora in poi solo i deputati «rappresentano la nazione» mentre il nuovo senato «rappresenta le istituzioni territoriali». Secondo Renzi l’abolizione del senato elettivo e delle province produrrà un taglio di spesa di un miliardo, secondo la Ragioneria generale dello stato risparmieremo solo 49 milioni.
1 – Senato non elettivo. In luogo di 315 senatori eletti da tutti i cittadini che hanno compiuto 25 anni, a palazzo Madama siederanno in 95 scelti dai consiglieri regionali all’interno dei consigli e tra i sindaci della regione. Altri cinque senatori potranno essere scelti «per altissimi meriti» dal presidente della Repubblica per un incarico di sette anni. Le modalità di elezione all’interno dei consigli regionali sono tutte da scrivere: una buona simulazione è rappresentata dalla recente selezione dei delegati per l’elezione del presidente della Repubblica: il Pd da solo si è aggiudicato circa il 60% dei posti. La composizione del senato cambierà con il succedersi delle consiliature regionali, e anche il numero totale dei senatori potrà aumentare o diminuire in caso di novità nei censimenti. Il senato non vota la fiducia al governo.
2 – Procedimento legislativo. L’articolo 70 della Costituzione è attualmente di una sola riga: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere». Il nuovo è di oltre cinquanta righe. Prevede in sintesi quattro procedure: 1) Le leggi costituzionali sono approvate da entrambe le camere. 2) Sulle leggi ordinarie il senato può eventualmente esprimersi dopo che la camera le abbia approvate, ma la camera ha l’ultima parola a maggioranza semplice. 3) Per alcune leggi comprese in un elenco di materie (tutela dell’interesse nazionale) se il senato si esprime a maggioranza assoluta la camera può ignorare la deliberazione ma votando anche lei a maggioranza assoluta. 4) Il senato può proporre una legge alla camera votandola a maggioranza assoluta, ma la camera può ignorare la proposta a maggioranza semplice. Su eventuali, prevedibilissimi, conflitto di attribuzione tra le due camere «decidono i presidenti delle camere d’intesa tra loro». Nulla si dice nel caso di mancata intesa.
3 – Voto a data certa. Il governo potrà chiedere alla camera di votare in maniera definitiva entro settanta giorni una legge che considera «essenziale per l’attuazione del programma». Il termine include i tempi necessari per l’eventuale esame del senato. Il nuovo istituto non sostituisce i decreti legge, per i quali vengono solo previsti in Costituzione quei limiti per materia (leggi costituzionali, leggi elettorali e altre) che già sono previsti oggi dalla legge ordinaria.
4 – Giudizio preventivo di costituzionalità. È previsto solo per le leggi elettorali, compresa quella che sarà eventualmente approvata (Renzi se lo augura) nelle legislatura in corso (l’Italicum). Un terzo dei senatori o un quarto dei deputati potranno chiedere alla Consulta di valutare la legittimità delle nuove norme elettorali una volta concluso l’esame delle camere e prima che la legge venga promulgata dal capo dello stato. Si dovrebbero così evitare nuovi casi «Porcellum».
5 – Strumenti di democrazia diretta. Il governo ha detto di volerli agevolare, le modifiche vanno nel senso opposto. Per una legge di iniziativa popolare occorreranno il triplo delle firme (da 50mila a 150mila), viene enunciato il principio che il parlamento deve garantirne l’esame, rinviandolo però ai regolamenti parlamentari. Vengono citati in costituzione i referendum propositivi e di indirizzo, ma anche in questo caso c’è un rinvio: a una prossima legge costituzionale. Infine cambiano i numeri del referendum abrogativo: se la proposta è sottoscritta dagli attuali 500mila elettori continuerà a essere richiesta la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto perché il referendum sia valido. Se invece le firme saranno 800mila basterà il 50% più uno dei votanti alle ultime elezione per la camera.
6 – Deliberazione dello stato di guerra. Passa dalla competenza bicamerale e quella della sola camera, che dovrà decidere a maggioranza assoluta. Ma la legge elettorale in arrivo (Italicum) garantisce quella maggioranza a un solo partito. Resta previsto che una legge semplice può prorogare la durata della camera in caso di guerra. E così, almeno in teoria, viene messo in mano a un solo partito lo strumento per rinviare le elezioni politiche.
7 – Elezione del presidente della Repubblica. Perde buona parte della carica bipartisan per effetto della diminuzione dei senatori e dell’abolizione dei delegati regionali. Sono previsti tre quorum: due terzi dei componenti per i primi tre scrutini, tre quinti dei componenti dal quarto scrutinio e tre quinti dei votanti dal settimo. A conti fatti (con l’Italicum) il primo partito potrebbe contare su 410 grandi elettori, dovendone mettere insieme dal quarto scrutinio appena 438.
8 – Titolo V. Viene soppressa la competenza concorrente tra stato e regioni, cresce rispetto alla Costituzione vigente l’elenco delle materie di competenza esclusiva dello stato (l’articolo 117 mette in fila 21 grandi capitoli, dalla politica estera ai porti e aeroporti). Viene introdotta la «clausola di supremazia» in base alla quale il parlamento può legiferare anche in materie di competenza regionale «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero l’interesse nazionale». Ma a decidere di far scattare la clausola potrà essere solo il governo.
il Manifesto, 10 marzo 2015 (pp. 4-5)
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