Wittgenstein, 60 anni dopo

La rilassante tomba di Ludwig Wittgenstein a Cambridge

Sessant’anni fa, il 29 aprile 1951, a Cambridge, moriva Ludwig Wittgenstein. Aveva appena compiuto 62 anni. Era nato, infatti, a Vienna il 26 aprile 1889, ultimo degli otto figli (cinque maschi e tre femmine) di Karl e Leopoldine Kalmus, entrambi di origini ebraiche, anche se gli interessi portarono progressivamente le famiglie di origine al cattolicesimo.

Il padre Karl (1847-1913) divenne infatti negli anni novanta dell’Ottocento il padrone dell’industria siderurgica austriaca, cioè dell’impero al massimo della sua gloria, e seppe gestire la sua fortuna con grande ingegno, vendendo poi tutto ed spostando i capitali su investimenti americani. Ebbe anche la fortuna (si fa per dire) di morire prima della Grande Guerra, cioè della disfatta generale del paese, cui partecipò invece il figlio Ludwig che finì prigioniero a Cassino dopo la sconfitta di Vittorio Veneto. Nello zaino, il combattente austriaco sul fronte italiano aveva un manoscritto che – dopo la sua pubblicazione avvenuta nel 1922 – sarebbe diventato una delle opere più controverse, quindi feconde, della filosofia del Novecento, il Tractatus logico-philosophicus.

La biografia della famiglia Wittgenstein è di per sé un oggetto di grande interesse letterario, con tanti risvolti individuali, esistenziali e artistici, con uno sfondo storico eccezionale. Basti accennare che la casa di Karl era frequentata da musicisti quali Brahms e Mahler e da pittori come Klimt, che ha lasciato anche un celebre ritratto di Margaret (Gretl), la seconda sorella. Oppure ai suicidi di tre fratelli, Johannes (Hans), Conrad (Kurt) e Rudolf (Rudi), che ne fanno oggi oggetto di analisi di psichiatria comparata, che rimandano naturalmente alle personalità dei genitori (per me anche ai problemi di un’epoca particolare). O ancora a Paul, che perse un braccio in guerra, ma per il quale Maurice Ravel scrisse il Concerto per pianoforte per la mano sinistra (1930).

E naturalmente la stessa biografia di Ludwig è un romanzo dove vi si trovano una personalità esagerata e lacerata, certamente piuttosto disturbata, la formazione tecnica, atipica per un filosofo, l’isolamento geografico come tecnica per pensare, le diverse esperienze professionali, le avventure e amicizie intellettuali (tra cui Bertrand Russell e John Maynard Keynes), le sue passioni amorose omosessuali, anche tragiche. Nella biografia intellettuale poi ci sono, insieme alle grandi ricerche e sintesi e innovazioni, le sue fissazioni e idiosincrasie culturali, che lo portavano a leggere i russi in lingua originale, ma ad ignorare, o quasi, lui che rimarrà tra i più importanti filosofi del Novecento, le origini greche del pensiero occidentale, il divenire, la storia di questo pensiero, come la storia in generale e le dinamiche sociali sottese. Ma queste sono solo mie sintetiche opinioni, mentre qui abbiamo a che fare con un gigante, capace di influire su diversi segmenti del pensiero filosofico e perfino in campo teologico.

Ma perché oggi m’interessa Wittgenstein? Lo scoprii nella metà degli anni Settanta (già!), grazie a Ludovico Geymonat traduttore della Introduzione al pensiero matematico di Friedrich Waismann. Poco dopo scoprii che Wittgenstein, in quel di Cambridge, fu amico, anzi partner intellettuale di Piero Sraffa, il primo esiliato antifascista che fu amico di Antonio Gramsci, il suo aiuto materiale e tramite nei rapporti con il partito comunista clandestino, ma anche il grande, assolutamente grande, seppur di ardua lettura, economista teorico e critico del pensiero economico dominante.

Gramsci, Sraffa e Wittgenstein, come interesse, oggi sono per me indissolubilmente legati, pur nel loro assai diverso profilo intellettuale. Qui Sraffa sta in mezzo, ma certamente non è stato solo un anello intermedio, come qualcuno oggi afferma, confrontando le notevoli somiglianze tra le ultime note carcerarie di Gramsci (il quaderno 29) e la simultanea svolta di Wittgenstein sulla concezione del linguaggio.

Wittgenstein oggi è ancora oggetto di molte attenzioni, soprattutto accademiche, ma di poche critiche. Chi lo studia lo fa per mestiere, non per diletto, scoprendo o approfondendo sempre qualcosa di nuovo o di particolare. In verità a me basta la sua assidua ricerca sui fondamenti della logica e del linguaggio ed il sostanziale approdo ad una filosofia che mette i rapporti tra le persone all’origine del linguaggio e delle idee e non viceversa. Certamente nel suo pensiero scritto i rapporti tra gli individui sono più ‘pubblici’ che ‘sociali’, ma siamo in presenza in qualche modo di una ‘filosofia della prassi’, pur senza l’analisi della società e della storia.

Certo, Wittgenstein dice che la filosofia ‘descrive’, che ‘non spiega’, che non serve perciò ad interpretare il mondo, tantomeno a cambiarlo. Ma afferma anche che «la malattia di un’epoca si guarisce cambiando il modo di vita degli uomini» e su questo tutto sommato possiamo trovarci d’accordo.

Infine, visto che ci sono, per chi dovesse incominciare ad interessarsene oggi, suggerisco di farlo dall’unica biografia completa di Wittgenstein pubblicata, quella di Ray Monk (Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, 2000), ormai da tempo in edizione economica, oppure da un libretto dello stesso autore che ne sintetizza il pensiero (Leggere Wittgenstein, Vita e pensiero, 2008). Ma, se potete, leggete direttamente, a partire dai testi biografici diretti, lettere e diari.

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