Siamo in tempi difficili come non ho mai ho vissuto. Ogni giorni succede qualcosa che andrebbe riportato, pensato, commentato. E i testi interessanti non mancano mai, ma non sono possibili in questo misero spazio, letto da sette persone ogni trimestre. Ma devo rompere gli indugi con testi come questo dell’economista francese Thomas Piketty. Col grassetto lo divido in due parti, sul presente mondiale e sul necessario futuro dell’Europa. E mi permetto le solite evidenziazioni.
Gli Stati Uniti hanno perso il controllo del mondo
di Thomas Piketty
Gli Stati Uniti non sono più un paese affidabile. Per alcuni non è una novità. La guerra in Iraq nel 2003 – con più di centomila morti, la destabilizzazione della regione e il ritorno dell’influenza russa – aveva già mostrato al mondo le conseguenze dannose della tracotanza militare statunitense. Ma la crisi attuale è inedita, perché chiama in causa il cuore stesso della potenza economica, finanziaria e politica del paese, che sembra disorientato, governato da un leader instabile e imprevedibile, senza alcun contrappeso in grado di ristabilire la democrazia.
Per ragionare su quello che succederà in futuro, bisogna rendersi conto della portata della svolta in corso. Se i trumpiani stanno portando avanti una politica così brutale e disperata è perché non sanno come reagire all’indebolimento economico del loro paese. A parità di potere d’acquisto, cioè in termini di volume reale di beni, servizi e macchinari prodotti ogni anno, il pil della Cina nel 2016 ha superato quello degli Stati Uniti. Oggi lo supera del 30 per cento e raggiungerà il doppio del pil statunitense entro il 2035. La realtà è che gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo del mondo.
E, cosa ancor più grave, l’accumulo dei deficit commerciali ha portato il debito estero pubblico e privato del paese a un livello senza precedenti (il 70 per cento del pil nel 2025). La risalita dei tassi d’interesse potrebbe portare gli Stati Uniti a dover versare al resto del mondo somme notevoli, cosa che finora avevano evitato grazie al loro controllo sul sistema finanziario mondiale. È per questo che gli economisti trumpiani hanno proposto di tassare gli interessi che i possessori stranieri di titoli statunitensi dovrebbero versare. In modo ancor più diretto, Trump vuole riportare a galla il paese appropriandosi dei minerali ucraini, della Groenlandia e di Panamá.
Da un punto di vista storico l’enorme deficit commerciale statunitense (fra il 3 e il 4 per cento del pil in media ogni anno, dal 1995 al 2025) ha un solo precedente per un’economia di queste dimensioni: equivale più o meno a quello delle principali potenze coloniali europee (Regno Unito, Francia, Germania, Paesi Bassi) tra il 1880 e il 1914. La differenza è che questi paesi possedevano enormi risorse esterne.
Trump, in fin dei conti, non è che un leader coloniale impotente. Come l’Europa del passato, vorrebbe che la pax americana fosse ripagata da contributi versati dal resto del mondo, per finanziare il suo deficit. Il problema è che Washington è già in declino, e che l’epoca attuale non si presta a questo colonialismo senza freni. Perso nella nostalgia, Trump ignora il fatto che gli Stati Uniti nel 1945 hanno imposto una frattura con l’ordine coloniale europeo e realizzato un altro modello di sviluppo, fondato sull’ideale democratico e su un vantaggio educativo sul resto del mondo. Così il presidente degli Stati Uniti indebolisce il prestigio politico sul quale il suo paese ha costruito la leadership.
Cosa fare di fronte a questo tracollo? In primo luogo, rivolgersi ai paesi del sud e proporre un nuovo multilateralismo sociale e ambientalista. L’Europa deve anche promuovere una riforma del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, uscendo così dall’attuale sistema basato sulla ricchezza e dando spazio a paesi come il Brasile, l’India e il Sudafrica. Se continuerà ad allearsi con gli Stati Uniti per bloccare questo processo irreversibile, allora i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) costruiranno un’architettura internazionale parallela sotto la tutela di Pechino e Mosca.
Inoltre l’Europa ha sbagliato nel 2024 a opporsi alla proposta di giustizia fiscale promossa dal Brasile al G20, votando contro l’introduzione alle Nazioni Unite di una convenzione quadro sulla fiscalità equa, anche stavolta insieme agli Stati Uniti, il tutto per mantenere il monopolio dell’Ocse e del club dei paesi ricchi su questi temi, considerati troppo importanti per essere lasciati ai poveri.
Bruxelles deve infine riconoscere il suo ruolo negli squilibri commerciali mondiali. È facile criticare la Cina che, come hanno fatto gli occidentali prima di lei, abusa del suo potere per sottopagare le materie prime e inondare il mondo di prodotti manifatturieri. Ma il fatto è che l’Europa ha una scarsa domanda e investe poco sul suo territorio. Tra il 2014 e il 2024 la bilancia commerciale di beni e servizi degli Stati Uniti ha registrato un deficit annuale medio di circa 800 miliardi di dollari (705 miliardi di euro). Nello stesso periodo l’Europa ha realizzato un surplus medio di 350 miliardi di dollari, quasi quanto la Cina, il Giappone, la Corea e Taiwan messi insieme (450 miliardi). Ci vorrà molto di più dello stimolo fiscale-militare tedesco o della tassa sui combustibili fossili prodotti all’esterno dell’Unione perché l’Europa contribuisca finalmente a promuovere un modello più giusto di sviluppo economico, sociale ed ecologico. ◆ fdl
Questo articolo è uscito su Le Monde.
(Internazionale, 18/24 aprile 2025 • Numero 1610)
Questa voce è stata pubblicata in
Politica e contrassegnata con
capitalismo,
guerra,
Ue. Contrassegna il
permalink.