Salvini – come tanti tanti altri – non eviterà Norimberga grazie al voto del Senato italiano. Norimberga non è il sinonimo di un processo puntuale, ma la fine ancora lontana di una brutta storia. Quanto brutta? Con questa nota di Roberto Saviano siamo solo all’inizio. Prepariamoci a leggere di tutto.
Tanti sono i migranti che non possono andare da nessuna parte, neppure a casa. Vittime dei clan e della nostra ipocrisia. Vi spiego il vero motivo per cui calano gli sbarchi
Ogni mese su Radio Radicale andrà in onda una trasmissione che si chiama Voci dalla Libia. Andrea Billau si collegherà telefonicamente con migranti che in Libia sono chiusi nei centri di detenzione o che vivono solo apparentemente in una condizione di libertà, ma che si trovano in un Paese che per loro è una prigione a cielo aperto. Con Billau c’è Michelangelo Severgnini, film-maker che nel 2017 ha realizzato “Schiavi di riserva”, documentario in cui ha intervistato tre ragazzi africani sbarcati a Pozzallo che hanno raccontato cosa accade in Libia, realmente. Severgnini ha trovato il modo di entrare in contatto con i migranti che si collegano a Internet sul suolo libico e ha messo in piedi un progetto che consiglio di seguire, si chiama Exodus – Fuga dalla Libia, ed è disponibile on line.
Proverò a spiegare perché è importante avere a che fare con queste storie e perché non ci possiamo permettere di ignorarle. Quello che in genere facciamo è parlare di migranti, parlarne bene o parlarne male, spiegando o strumentalizzando il fenomeno migratorio, ma mai a essere protagoniste sono le voci di chi nell’inferno libico è rinchiuso, senza avere via d‘uscita. Da un lato la retorica dei porti chiusi, dall’altra la necessità di mostrarsi umani, ma prima di tutto questo c’è la Libia, un luogo in cui sono costrette oltre 700 mila persone che vorrebbero andar via, magari anche per tornare a casa, ma a cui viene impedito. Perché? Voci dalla Libia ed Exodus spiegano proprio questo: perché dalla Libia,
chi arriva, non può più uscire.
Billau e Severgnini chiamano al telefono un ragazzo di cui non conosciamo l’identità. Sappiamo che è partito dal Sud Sudan nel 2013, quando è scoppiata la guerra civile, ed è rimasto per cinque anni in Egitto dove ha lavorato e messo da parte del denaro.
Cinquemila dollari che gli sono serviti per oltrepassare il confine tra Egitto e Libia. È entrato in Libia a giugno del 2018 ed è stato 5 mesi in carcere. Il 6 novembre si è imbarcato per venire in Italia. I migranti avevano un telefono satellitare con cui hanno chiamato la Guardia costiera italiana che aveva assicurato che sarebbe giunta in soccorso entro due ore. Ad arrivare, invece, è stata la Guardia costiera libica che ha portato tutte le persone presenti sull’imbarcazione in un centro di detenzione dove, avevano detto, sarebbero state prese in carico dall’Unhcr. Ma non è andata così: sono stati legati in uno spazio stretto, hanno avuto da mangiare un po’ di pasta nei primi giorni, poi niente cibo nei successivi sei. Per essere liberati dovevano pagare un riscatto di 11 mila dollari. Lui, il ragazzo del Sud Sudan, ha potuto pagare quella somma chiedendola alla famiglia (questi soldi vengono raccolti chiedendo prestiti che le famiglie ripagheranno per generazioni), ma molti suoi compagni di viaggio e di prigionia no. Ha una mano rotta per i maltrattamenti subiti, ma non può sperare di essere curato perché se si dovesse recare in un ospedale pubblico lo rinchiuderebbero di nuovo in un campo di prigionia.
Ma perché 700 mila persone sono prigioniere in Libia? Perché sono un bancomat, perché i migranti che entrano in Libia per raggiungere l’Italia sono un affare dal momento esatto in cui mettono piede sul suolo libico. Da loro e dalle loro famiglie si estorce denaro quando gli si promette un viaggio facile e veloce nei Paesi di origine, si estorce denaro quando diventano prigionieri sul suolo libico, quando si mettono in mare e anche quando vengono riportati in Libia per ricominciare tutto daccapo. Le partenze dalla Libia e gli sbarchi in Italia, ci dicono queste testimonianze, non sono diminuiti per il lavoro disumano dei nostri incapaci governanti, ma perché per la Libia i migranti sono una risorsa e fanno bene attenzione a non dissiparla. Ma la voce di ciò che la Libia è diventata si è sparsa e ha raggiunto anche i Paesi di partenza, allora si parte meno e quindi ci sono meno arrivi. Meno arrivi significa meno soldi e questo spiega come mai la Guardia costiera libica sta lavorando bene come mai è accaduto prima.
Oggi il problema è la Libia che è un luogo di tortura dove si è ridotti in schiavitù e da dove i 700 mila migranti che si trovano attualmente in stato di prigionia vogliono fuggire. Fuggire anche per tornare da dove sono partiti. Fuggire anche abbandonando il sogno di venire in Europa.
(L’Espresso, 20 febbraio 2019)
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Questo è il pensiero di Gino Strada, fondatore di Emergency: «Chi ci governa dovrebbe essere processato per crimini contro l’umanità». Appunto.